«LA PAROLA DI DIO NON È
 STATA INCATENATA» (2Tm 2,9)

Miscellanea in onore di Cesare Marcheselli-Casale 

per il 70° compleanno

a cura di ANTONIO PITTA e GAETANO DI PALMA


 

EDB

EDIZIONI DEHONIANE BOLONGNA


 


 

ASSOCIAZIONE BIBLICA ITALIANA

Supplementi alla

RIVISTA BIBLICA 54

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RIVISTA BIBLICA

Organo dell’Associazione Biblica Italiana (A.B.I.) Pubblicazione trimestrale

Comitato direttivo: Luca Mazzinghi, Presidente dell’A.B.I. – Direttore: Angelo Passaro – Vice-direttore: Roberto Vignolo

Comitato di redazione: Flavio Dalla Vecchia, Ettore Franco, Giorgio Jossa, Maurizio Marcheselli, Rosario Pistone, Gian Luigi Prato, Émile Puech, Horacio Simian-Yofre

Comitato scientifico: Jesús Asurmendi, Giuseppe Bellia, Eberhard Bons, John J. Collins, Ermenegildo Manicardi, Ida Oggiano, Romano Penna, Alexander Rofé, Joseph Sievers, Joseph Verheyden, Ida Zatelli

Responsabile di Supplementi alla Rivista Biblica: Antonio Pitta Segretari di redazione: Roberto Mela, Giuseppina Zarbo

Direttore responsabile: Alfio Filippi

Supplementi alla Rivista Biblica

20. Boschi B.G., Le origini di Israele nella Bibbia fra storia e teologia 21. Bosetti E., Il pastore 22. Dalbesio A., Quello che abbiamo udito e veduto 23. Carbone S.P., La misericordia universale di Dio in Rom 11,30-32 24. Cilia L., La morte di Gesù e l’unità degli uomini (Gv 11,47-53; 12,32) 25. Cent’anni di esegesi. I. L’Antico Testamento, a cura di J.-L. Vesco

26. Cent’anni di esegesi. II. Il Nuovo Testamento, a cura di J. Murphy-O’Connor 27. D’Alario V., Il libro del Qohelet 28. Tarocchi S., Il Dio longanime 29. Grasso S., Gesù e i suoi fratelli

30. Deiana G., Il giorno dell’espiazione 31. Biguzzi G., I settenari nella struttura dell’Apocalisse 32. Sembrano L., La regalità di Dio 33. La Parola di Dio cresceva (At 12,24), a cura di R. Fabris 34. Il deposito della fede. Timoteo e Tito, a cura di G. De Virgilio 35. Romanello S., Una legge buona ma impotente 36. Initium Sapientiae, a cura di R. Fabris 37. Biguzzi G., Velo e silenzio. Paolo e la donna in 1Cor 11,2-16 e 14,33b-36 38. Mysterium Regni ministerium Verbi (Mc 4,11; At 6,4), a cura di E. Franco 39. Bulgarelli V., L’immagine della rugiada nel libro di Osea 40. Marino M., Custodire la Parola 41. Vironda M., Gesù nel Vangelo di Marco 42. Betori G., Affidati alla Parola 43. Cortese E., La preghiera del Re 44. Grech P., Il messaggio biblico e la sua interpretazione 45. Doglio C., Il primogenito dei morti 46. «Il vostro frutto rimanga» (Gv 16,16), a cura di A. Passoni Dell’Acqua 47. «Generati da una Parola di verità» (Gc 1,18), a cura di S. Grasso – E. Manicardi 48. Amici R., «Tutto ciò che Dio ha creato è buono» (1Tm 4,4) 49. Ciccarelli M., La sofferenza di Cristo nell’Epistola agli Ebrei 50. Nuovo Testamento: teologie in dialogo culturale, a cura di N. Ciola – G. Pulcinelli 51. De Virgilio G., La teologia della solidarietà in Paolo 52. Palazzo R., La figura di Pietro nella narrazione degli Atti degli apostoli 53. Marcato M., Qual è la volontà di Dio? (Rm 12,2b) 54. «La Parola di Dio non è incatenata» (2Tm 2,9), a cura di A. Pitta – G. Di Palma

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«LA PAROLA DI DIO NON È STATA INCATENATA» (2Tm 2,9)

Miscellanea in onore di Cesare Marcheselli-Casale per il 70° compleanno

a cura di ANTONIO PITTA e GAETANO DI PALMA

EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA

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Realizzazione editoriale: Prohemio editoriale srl, Firenze

© 2012 Centro editoriale dehoniano via Nosadella, 6 – 40123 Bologna EDB®

ISBN 978-88-10-30242-2 Stampa: 2012

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Introduzione

I ventisei contributi che costellano questa miscellanea rendono onore al professor Cesare Marcheselli-Casale per gli anni di ricerca e d’insegnamento profusi nell’ambito degli studi neotestamentari. La miscellanea, a carattere ese- getico-teologico, è introdotta da una valutazione trasversale delle pubblicazioni del festeggiato, compiuta da Armando Rolla. Il prof. Rolla coglie in sintesi e pre- senta gli ambiti esegetici e teologici in cui si è sviluppata la ricerca del prof. Mar- cheselli: una ricerca approfondita e accattivante nello stile. Dieci tesi sono enu- cleate dall’arcivescovo Bruno Forte sul rapporto dialettico tra sacra Scrittura e teologia: dal primato della Parola fino alla conoscenza della fede in quanto cognitio vespertina, transitando per la comunicazione verbale e il silenzio della Parola in Cristo e nella Chiesa.

1. Trasversale per il Nuovo Testamento è il contributo di Claudio Doglio sul linguaggio utilizzato per descrivere l’evento dell’esaltazione e della risurre- zione di Gesù. Contro l’assunto diffuso, per cui il vocabolario dell’esaltazione risulterebbe più povero rispetto a quello della risurrezione, Doglio dimostra che, pur essendo più generico, veicola una ricca simbologia che non andrebbe sotto- valutata. I due sistemi linguistici non sono alternativi, ma si integrano in modo fecondo per caratterizzare la prima predicazione cristiana dedicata all’esaltazio- ne/risurrezione di Gesù Cristo.

Due sono le aree specifiche che abbracciano i saggi della miscellanea: i vangeli, con i diversi gradi di approccio, e l’epistolario neotestamentario fino all’Apocalisse di Giovanni. Sul primo versante, alla gesuologia sono dedicati gli apporti di Giorgio Jossa, a proposito delle complessità che incontra oggi l’esten- sione di una storia di Gesù di Nazaret, e di Frédéric Manns, sul rapporto tra Gesù e il tempio di Gerusalemme.

Con lo studio sulle fonti gesuane, canoniche e apocrife, Jossa cerca di anco- rare la storia di Gesù sul breve ministero galilaico riportato nel Vangelo di Mar- co e conclusosi nella drammatica esecuzione avvenuta a Gerusalemme.

Nello stesso ambito della gesuologia, Manns si propone di rivalutare il rap- porto tra Gesù e il tempio, giungendo a considerarlo meno negativo di quanto si pensi. Le polemiche di Gesù sono rivolte piuttosto alla strumentalizzazione del

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tempio, mentre resta il suo valore simbolico che lo riconosce come imprescindi- bile luogo di culto. Le fonti giudaiche successive confermano il duplice versante, polemico e positivo, attuato da Gesù nei confronti del tempio e del suo signifi- cato nel giudaismo del I secolo.

Stimolante è il contributo di Michael Krupp sulle Toldot inerenti Gesù il Nazareno nella tradizione giudaica. L’autore si sofferma in particolare sul manoscritto MS Krupp 2016, di origine caucasica, per indagare sulle modalità con cui la vicenda storica di Gesù è stata recepita nella storia delle tradizioni giudaiche.

Al Vangelo di Matteo sono dedicati gli studi di A. Landi sulle citazioni di compimento in Mt 1–2, di M. Weber sul miracolo dei pani in Mt 14,13-21 e di R. Palazzo sul ruolo narrativo di Mt 16,17-19 nell’economia redazionale matteana. Con la trattazione delle citazioni di compimento nel vangelo dell’infanzia mat- teano, Landi non si limita a identificare le fonti profetiche riportate e adattate da Matteo, ma ne evidenzia le ricadute o le ridondanze cristologiche ed ecclesiolo- giche veicolate nell’intreccio narrativo dell’intero vangelo.

Mediante un’ermeneutica ecclesiologica M. Weber interpreta il brano di Mt 14,13-21: in esso risalta una profonda convivialità che culmina nell’episodio dell’ultima cena. Di conseguenza il ministero pastorale è essenzialmente diaco- nale e caritativo, improntato al pathos, al sympathos e all’empathos, mediante i quali il regno di Dio si rende concreto e visibile.

Sincronico è l’approccio con cui Palazzo si sofferma sulla pericope di Mt 16,13-20, intesa come climax narrativo verso cui tende quanto precede e da cui si diparte il racconto matteano. Al di là delle discutibili questioni diacroniche che hanno concentrato l’attenzione dei commentatori, nell’economia dello scritto Pietro svolge un ruolo di rilievo sulla conoscenza e sul tipo di rivelazione con- cessa ai discepoli nella sequela di Gesù di Nazaret.

Come ponte tra Matteo e Luca è articolato il contributo di Santi Grasso sull’ermeneutica delle beatitudini, interpretate nell’orizzonte della morte e risur- rezione. Dopo essersi soffermato sul genere del macarismo, che caratterizza le beatitudini evangeliche, Grasso sposta la chiave interpretativa dall’orizzonte esclusivamente morale e cristologico a quello escatologico, che valuta le condi- zioni di sofferenza e di prova in cui si trovano i destinatari delle beatitudini nel prospetto della risurrezione di Cristo e dei credenti.

Sul Vangelo di Luca si sofferma il saggio di Cosimo Pagliara, dedicato all’a- scensione di Gesù, anticipata in Lc 9,51, compiuta in Lc 24,51 e reiterata in At 1,1-22. Per l’autore, l’evangelista ha riletto il percorso dell’análēmpsis di Gesù seguendo il modello elianico della tradizione giudaica. Di conseguenza, l’ascen- sione non rappresenta soltanto il momento culminante della vicenda terrena di Gesù, bensì assorbe la sua salita a Gerusalemme e le vicende ultime della sua passione, fino alla risurrezione.

Marcello Del Verme offre un’annotazione filologica e storica su Lc 18,12, relativa al pagamento delle decime nel giudaismo palestinese. A differenza di diverse versioni correnti, l’autore propone di tradurre il passo lucano con: «Io

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digiuno due volte la settimana e pago le decime su tutto ciò che acquisto». Così resa, la proposizione offre uno squarcio sul pagamento delle decime nell’asso- ciazione volontaria, cui appartiene il fariseo della parabola, in contrasto con il pubblicano che ignora la normativa sulle decime nell’acquisto dei beni.

Infine, il confronto sulle «confessioni» di Marta, in Gv 11, e di Pietro, in Mt 16, ha stimolato la ricerca di Giuseppe Ghiberti. Anche se distanti tra loro per cronologia e ambiente, le due confessioni dimostrano che non è sufficiente una professione verbale per giungere a una fede consolidata, ma è necessario il coin- volgimento della sequela che scaturisce dalla grazia divina.

2. La seconda area di ricerca parte dalle tensioni tra il Paolo persecutore e apostolo negli Atti e nelle lettere paoline di Alessandro Sacchi. L’autore si pro- pone di delineare, mediante gli Atti e le lettere paoline «autentiche», le ragioni fondamentali che hanno portato Paolo a passare da persecutore ad apostolo di Cristo, tra cui un ruolo decisivo è da attribuire alla dimensione apocalittica del movimento cristiano delle origini.

Il contributo di Romano Penna approfondisce il complesso rapporto tra il linguaggio rivelativo e la storia della salvezza nella Lettera ai Romani. L’autore dimostra che l’ancoraggio storico impedisce di trasferire l’azione rivelativa della giustizia divina al futuro escatologico, mentre è sugli eventi e i personaggi della storia della salvezza, menzionati in Romani, che si decide la manifestazione della giustizia divina.

Alla nota pericope di Rm 13,1-7 sono dedicate le riflessioni di Gaetano Di Palma sulla cosiddetta «teologia politica» di Paolo. Il contesto storico-letterario, che evidenzia il fine del bene per quanti detengono un’autorità civile, dimostra il realismo con cui Paolo chiede ai cristiani di Roma di essere sottomessi alle auto- rità imperiali appellandosi alla coscienza più che al timore del potere costituito.

Con il contributo di Pasquale Basta su 1Cor 5–6 ci si addentra in una let- tera in cui le citazioni dirette, indirette e le allusioni all’Antico Testamento risul- tano abbondanti. L’autore dimostra che nella sezione dedicata al caso dell’ince- stuoso, al ricorso ai tribunali pagani e alla fornicazione, Paolo segue la normati- va deuteronomistica, servendosi dello stesso sistema argomentativo, che viene trasferita nella comunità cristiana.

Il saggio di Joan Maria Vernet Mateu si sofferma su 1Cor 12,31–13,7, ovve- ro sulla prima parte dell’elogio dedicato alla carità, sottolineando che Paolo si rivela maestro non soltanto della fede, ma anche dell’agape intesa come «via pri- vilegiata» per valorizzare i carismi e i ministeri nella comunità cristiana.

Il retroterra giudaico, evidenziato già nel contributo di Basta, è bilanciato, in un certo senso, dal detto proverbiale di origine greca in 1Cor 15,33b, su cui si sofferma Leonardo Giuliano. La sentenza, che rimanda anzitutto a un frammen- to di Euripide, ripreso da Menandro, è scelta da Paolo per sottolineare che le cat- tive frequentazioni corrompono i buoni costumi dei corinzi.

Ad alcune iscrizioni provenienti da Efeso è dedicato il contributo di Rena- te Pillinger: le fonti trattate si rivelano importanti per cogliere l’ambiente cul-

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tuale e ministeriale pagano e cristiano che si è sviluppato a Efeso nei primi seco- li dell’era cristiana.

Sul rapporto tra ecclesiologia e contesto politico è incentrata la riflessione di Antonio Pitta sulla Lettera ai Filippesi: senza delineare una teologia politica teorica, Paolo chiede a cristiani di Filippi di «comportarsi da cittadini» degni del- l’evangelo e di mirare a una cittadinanza superiore, che fronteggia gli ostacoli provenienti dall’ambiente romanizzato della cittadina macedone.

Il duplice versante filologico e retorico-letterario permette ad Alfio Mar- cello Buscemi di concentrare l’attenzione sulla complessa proposizione di Col 1,24, in cui il rapporto con i patimenti di Cristo si riversa nella missione di Paolo a favore del corpo ecclesiale. La proposizione prosegue nel tracciato delle asser- zioni paoline in cui gli apostoli sono scelti come ambasciatori per Cristo, chia- mati a offrire alla Chiesa la loro missione, segnata dalla partecipazione alla pas- sione di Cristo.

Con pertinenza il cardinale Albert Vanhoye rileva che l’appropriazione originale del Sal 109(110), con i due oracoli sul sacerdozio di Melchisedek e l’in- tronizzazione del Signore alla destra di Dio, rappresenta una delle fonti più auto- revoli a cui ricorre l’autore della Lettera agli Ebrei per dimostrare la cristologia sacerdotale di Cristo. La ripresa del salmo in diversi momenti dell’omelia cri- stiana serve a sottolineare l’identità e la funzione sacerdotale unica di Cristo, che continua a essere sommo ed eterno sacerdote nella sua condizione gloriosa, tran- sitata per il suo sacrificio nella passione.

Anche Vincenzo Scippa indugia sulla Lettera agli Ebrei, soffermandosi sulla menzione di Barak nell’ampio elogio della fede di Eb 11,32. Tale originale menzione e l’omissione di Debora si spiegano nell’orizzonte prefigurale che anche la fede incerta di Barak assume rispetto alla novità della fede cristologica nella Lettera agli Ebrei.

Il tessuto sapienziale della Lettera di Giacomo induce Angelo Passaro ad approfondire l’ermeneutica della riformulazione o della deuterosi che caratteriz- za lo scritto neotestamentario. I tracciati sapienziali di Ben Sira, di Proverbi e di Qoelet sono riversati da Giacomo nella sua lettera per incoraggiare i destinatari a fondare la loro adesione a Cristo nella sapienza d’Israele.

La complessa pericope di Ap 11,3-13, dedicata alla visione dei due testi- moni, induce Thomas Vitulski a valutare la funzione che il brano svolge nell’e- conomia unitaria dell’Apocalisse. L’attenzione conferita al tempo intermedio rispetto a quello escatologico porta l’autore del saggio a considerare interpolati i versetti di Ap 11,10-13 benché, nello stesso tempo, siano capaci di attualizzare il messaggio dell’Apocalisse in una fase redazionale successiva.

Con l’apporto di Michele Ciccarelli la parabola dei nostri contributi si estende agli scritti sub-apostolici. La tipologia del «capro espiatorio», che affon- da le sue radici nelle istituzioni anticotestamentarie e giudaiche, è implicitamen- te assunta negli scritti neotestamentari per essere esplicitata nell’Epistola di Bar- naba e nell’Adversus Marcionem di Tertulliano. Se nelle prime riprese neotesta- mentarie la tipologia risulta insufficiente per descrivere la passione e la morte di

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Gesù, nel suo approdo diventa pertinente, poiché è integrata con il rituale del «farmaco», diffuso nel contesto ellenistico del I e del II secolo cristiano.

3. Nella speranza di aver colto in breve i nuclei essenziali dei saggi qui rac- colti, diverse e arricchenti emergono le metodologie che li caratterizzano: dia- cronica, sincronica, storica, archeologica, retorica, narrativa e intertestuale, fino alla storia degli effetti e dell’interpretazione.

Nel corso della redazione del volume, encomiabile si è rivelata la collabo- razione del dottor Giuseppe Falanga nel rivedere i contributi e omologarli sul versante tipografico e metodologico: a lui la gratitudine più viva. Un ringrazia- mento doveroso ai due decani della Sezione S. Tommaso d’Aquino che si sono alternati nella fase di organizzazione e produzione del volume: i professori Gae- tano Castello e Gaetano Di Palma, tra l’altro curatore anch’egli di questo volu- me. Di riflesso, la nostra gratitudine va al Gran Cancelliere della Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale, il cardinale Crescenzio Sepe, che segue con sollecitudine le sorti di quest’istituzione accademica, e all’arcivescovo Carlo Liberati, pastore della Chiesa che è in Pompei e dalla quale proviene don Cesa- re Marcheselli-Casale.

Il titolo della raccolta – La Parola di Dio non è stata incatenata, tratto dalla Seconda lettera a Timoteo – ben si attaglia alle aree di ricerca del festeggiato come ai contributi che qui gli sono dedicati, nella speranza di gratificare il desti- natario e di arricchire in maniera originale la ricerca neotestamentaria.

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Bibliografia selezionata di Cesare Marcheselli-Casale

1. LIBRI E MONOGRAFIE

1975 La preghiera in s. Paolo, M. D’Auria, Napoli 1975 [Dissertatio].

1979 Modlibta u Sv Paula, Velehrad-Krestauská Akademie 1979 [traduzione in ceco della Dissertatio].

1985 Chiese in fermento. Le due lettere a Timòteo. La Lettera a Tito, ElleDiCi, Torino-Leumann 1985.

1988 Risorgeremo, ma come? Risurrezione dei corpi, degli spiriti o dell’uomo? Per un contributo allo studio della speculazione apocalittica in epoca greco-romana dal II sec. a.C. al II sec. d.C., introduzione del prof. dr. J. MAIER (Supplementi alla Rivista Biblica 18), EDB, Bologna 1988.

1991 Il caso Drewermann. Psicologia del profondo: un nuovo metodo per leg- gere la Bibbia?, Piemme, Casale Monferrato 1991.

1992 Von Drewermann lernen. Die Bibel auf der Couch, Benzinger Verlag, Zürich 1992 [edizione svizzera].

1994 Von Drewermann lernen. Die Bibel auf der Couch, Goldmann Taschen- buch Verlag, München 1994 [edizione tedesca].

1995 Le Lettere pastorali a Timòteo e a Tito, introduzione, traduzione e com- mento (Studi sulle origini cristiane 13), EDB, Bologna 1995. «Vangelo secondo Luca», introduzione, note e commento, in La Bibbia, Piemme, Casale Monferrato 1995, 2419-2507.

2005 Lettera agli Ebrei, nuova versione, introduzione e commento (I libri biblici – Nuovo Testamento 16), Ed. Paoline, Milano 2005.

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Bibliografia selezionata di Cesare Marcheselli-Casale

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2010

2.

1982 1994

3.

1976

1977

1978

1979

1980

Le Lettere pastorali raccontano: la loro storia, la loro struttura, il loro messaggio (Paolo, Timoteo e Tito si raccontano), Borla, Roma 2010.

LIBRI A CURA DI

Parola e Spirito. Studi in onore di Settimio Cipriani (Miscellanea per il 60° compleanno), 2 voll., Paideia, Brescia 1982.

Oltre il racconto. Esegesi ed ermeneutica: alla ricerca del senso, M. D’Au- ria, Napoli 1994.

ARTICOLI SCIENTIFICI E DI ALTA DIVULGAZIONE

«Come risorgeranno i morti? Osservazioni su alcuni dati letterari di 1Henoch», in Asprenas 23(1976)2, 182-208. «Dio nella conoscenza dell’uomo. Studio di struttura letteraria compa- rata tra Sap 13,1-9; Rm 1,18-25; At 14,15-17; 17,22-31. Loro uso nelle costituzioni conciliari Dei Filius (Vat. I) e Dei verbum (Vat. II)», in Asprenas 23(1976)3-4, 263-285.

«Beati i miti (Mt 5,5a). Studio di storia della redazione», in Asprenas 24(1977)2, 119-145. «Il sabato in Israele. Sintesi storico-letteraria. Contenuto teologico», in Asprenas 24(1977)3, 231-265.

«Sabato ebraico e domenica cristiana», in Parole di Vita (1977)4, 34-50.

«La celebrazione di Gesù Cristo Signore in Fil 2,6-11. Riflessioni lette- rario-storico-esegetiche sull’inno cristologico», in Ephemerides Carmeli- ticae 1(1978), 3-42. «Cristo Gesù Signore, servo di Jahweh o giusto abbassato-esaltato? Con- siderazioni esegetiche su Fil 2,6-11 e Is 52,13–53,12», in Asprenas 25(1978)4, 361-379.

«Per una pastorale della confessione», in Presbyteri (1979)12, 611-613. «La ricerca di Dio nei segni dei tempi in Mc 1,21–3,6 parr: dai segni di Gesù al Gesù segno dei suoi segni», in Asprenas 26(1979)2, 123-143.

«La ricerca di Dio nei segni dei tempi. Studio di struttura tematico-let- teraria su Mc 1,21–3,6 parr.», in Quaerere Deum (Atti della XXV Setti- mana biblica), Paideia, Brescia 1980, 289-313.

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Bibliografia selezionata di Cesare Marcheselli-Casale

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1981 «La ricerca di Dio nei segni dei tempi: il matrimonio, un ministero per il regno dei cieli. Studio esegetico-teologico», in Rivista di Letteratura e Storia ecclesiastica (1981)1-3, 5-38. «Il servo di Jahweh, Profeta e Messia. Saggio di Kritikform su Dt-Is 42,1a-4c», in Asprenas 28(1981)1, 3-28.

«Il vangelo di Paolo (Considerazioni esegetico-teologiche sulla Lettera ai Romani e sul Corpus Paulinum)», in Parole di Vita (1981)3, 182-198.

1982 «La struttura letteraria di Col 1,14b.15-20a.b.1.2. La celebrazione cul- tuale del primato-servizio di Gesù Cristo Signore», in C. MARCHESELLI- CASALE (ed.), Parola e Spirito. Studi in onore di Settimio Cipriani, Pai- deia, Brescia 1982, I, 497-519.

«“Credo nello Spirito Santo”. Sul congresso internazionale di Pneuma- tologia (Roma-Città del Vaticano, 22-26 marzo 1982)», in Asprenas 29(1982)2, 163-177. «Il cuore dell’uomo di fronte all’evento della Parola. Gesù di Nazaret si confronta con la tradizione giudaica. Note di esegesi e teologia su Mc 7,1-23», in Asprenas 29(1982)3, 203-221.

1983 «La comunità cristiana di Colossi esprime la sua fede in Gesù Cristo. Rilevazioni di cristologia progressiva in Col 1,14.15-20», in Rivista Bibli- ca (1983)1, 273-291. «Bartolo Longo di fronte alla Bibbia. Per un primo approccio metodo- logico all’uso della sacra Scrittura negli scritti longhiani», in Atti del Con- vegno storico «Bartolo Longo e il suo tempo», Edizioni Storia e Lettera- tura, Roma-Pompei 1983, II, 169-206.

«Veri e falsi dottori a Creta ed Efeso. Un problema pastorale sempre attuale», in Una Hostia. Studi in onore del card. Corrado Ursi (Miscella- nea per il 75° compleanno), M. D’Auria, Napoli 1983, 45-68. «Veri e falsi dottori a Creta ed Efeso. Un tentativo di individuazione», in Timoteo e le sue lettere, introduzione di mons. C.F. RUPPI, Vivere in, Roma 1983, 87-116.

«Le lettere dalla prigionia», in Parole e vita. Una introduzione alla Bib- bia, ElleDiCi, Torino-Leumann 1983, 289-298. «Le Lettere pastorali», ivi, 299-304.

1984 «Editoriale. Armando Rolla al servizio della Bibbia», in Asprenas 31(1984)4, 337-345.

«Proiezioni di risurrezione corporale nell’AT. Suggerimenti di analisi strutturale su Is 58,8-12; Sal 16,9-11; Ez 37,1-14», in «Letture cristiane dell’AT. Studi in onore di Armando Rolla», in Asprenas 31(1984)4, 367- 382.

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Bibliografia selezionata di Cesare Marcheselli-Casale

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«Zaccheo (Lc 19,1-10) e il cieco di Gerico (Lc 8,35-43: cf. Mt 20,29-34)», in La storia di Gesù (Fascicolo 52), Rizzoli, Milano 1984, 1225-1244 [con commento artistico].

1985 «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete. Per un contributo alla TG e RG della fonte Q: Mt 11,2-6; Lc 7,18-23», in Testimonium Christi. Scritti in onore di Jacques Dupont, Paideia, Brescia 1985, 257- 288.

«Gesù piange su Gerusalemme. Il discorso escatologico nel Vangelo di Luca», in Ianuarius. Rivista diocesana di Napoli (1985)11, 628-635.

1986 «Luca racconta... Annotazioni in margine a H. Schürmann [Il Vangelo di Luca. I. 1,1-9,51, Paideia, Brescia 1983]», in Ecclesiae Sacramentum. Studi in onore di Alfredo Marranzini (Miscellanea per il 65° complean- no), Laurenziana, Napoli 1986, 137-155.

«Satana o mistero di iniquità? Personalisti e simbolisti: il confronto con- tinua», in Asprenas 33(1986)4, 373-395.

1989 «Der christologische Hymnus: Kol 1,15-20. Im Dienste der Versöhnung und des Friedens», in Teresianum [già Ephemerides Carmeliticae] (1989)1, 3-21. «Verso una ricomprensione di Paolo di Tarso?», in A. IANNIELLO (ed.), Studi in onore di mons. Luigi Diligenza, Raffaele Fabozzi, Aversa (NA) 1989, 65-86.

1992 «Il segreto messianico (Mc)», in A. PITTA (ed.), L’identità di Gesù di Nazaret e del suo discepolo nel Vangelo di Marco. Atti della VI Settima- na biblica diocesana (1991), Lucera (FG) 1992, 33-39. «L’identità del discepolo nel Vangelo di Marco», ivi, 41-52.

1993 «Il caso Drewermann in Italia. Alcune significative reazioni», in Aspre- nas 40(1993)2, 163-188.

1994 «Dio, l’uomo, il male. L’interpellante prospettiva di Eugen Drewer- mann», in Vivens homo (1994)1, 1-36. «La preghiera universale in 1Tm 2,1-12 e il canone esegetico di Rabbi Hillel», in C. MARCHESELLI-CASALE (ed.), Oltre il racconto. Esegesi ed ermeneutica: alla ricerca del senso, M. D’Auria, Napoli 1994, 29-48.

«Lc 7,36-50: l’episodio della donna innominata. Tecnica della verbalizza- zione e analisi transazionale: due strumenti capaci di produrre esegesi?», ivi, 209-222. «Deposito e trasmissione della fede in epoca sub-apostolica alla luce di recenti studi sulle Lettere pastorali», in Studi storici e religiosi [Capua] 3(1994)1, 5-43.

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Bibliografia selezionata di Cesare Marcheselli-Casale

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«Esegesi ed ermeneutica: un binomio che torna a far parlare di sé. La consistente provocazione scientifica di Eugen Drewermann», in G. COF- FELE (ed.), Colloquio su Eugen Drewermann, Libreria Ateneo Salesiano, Roma 1994, 17-54.

«Gesù di Nazaret, il Risorto-Asceso, centro vitale della comunità eccle- siale protocristiana. Considerazioni intorno al valore pasquale di 1Tm 3,16. Rivisitazione del tema attraverso una selezione di studi del tren- tennio postconciliare», in M.M. MORFINO (ed.), Miscellanea biblica in memoria di P. Silverio Zedda (Theologica. Annali della Pontificia facoltà della Sardegna III/1994), Piemme, Casale Monferrato 1994, 235-276. «Da “gente” a “casa di Dio” a “Chiesa di Gesù Cristo” a “popolo di sua conquista”: un cammino faticoso, ma sempre carico di promesse», in V. ZOCCALI (ed.), Memoria e profezia. Nel XX anniversario di fondazione, Reggio Calabria 1994, 65-89.

1995 «“Opere tutte del Signore, benedite il Signore” (Dn 3,57)», in «Il San- tuario luogo d’incontro tra i bisogni dell’uomo e la protezione di Dio. Atti del XXX Convegno nazionale dei rettori dei santuari d’Italia (Pom- pei, 21-24 novembre 1994)», in Rivista di Cultura mariana (1995)1, 23-44. «Una discussione su Eugen Drewermann», in «Secolarizzazione e ritor- no del sacro», in Filosofia e Teologia 9(1995)3, 609-619.

1996 «Il rinnovamento dell’evangelizzazione nelle Lettere pastorali a Timò- teo e a Tito», in CENTRO DI AZIONE LITURGICA (ed.), Liturgia e nuova evan- gelizzazione. Atti della XLVI Settimana liturgica nazionale (Termoli, 21- 25 agosto 1995), Ed. Liturgiche, Roma 1996, 32-71.

«Archeologia ed esegesi», relazione al Congresso in onore di P. Virgilio Corbo ofm (Potenza, 5-6 dicembre 1994), in Theologia Viatorum. Anna- li dell’Istituto teologico di Basilicata (1996)1, 55-85. «Rassegna di studi sull’apocalittica», in Asprenas 43(1996)1, 67-78.

1997 «Tracce del mebaqqer di Qumran nell’epìskopos del NT? Per uno “sta- tus quaestionis”», in R. PENNA (ed.), Qumran e le origini cristiane. Ricer- che storico-bibliche 9(1997)2, 177-210. «Ispirazione biblica», in Grande enciclopedia illustrata della Bibbia, Piemme, Casale Monferrato 1997, I, 198-202.

1998 «Gesù di Nazaret, messia di Israele? Verso un dialogo sempre più costruttivo tra cristiani ed ebrei», in R. FABRIS (ed.), La parola di Dio cre- sceva (Atti 12,24). Miscellanea in onore di C.M. Martini nel suo 70° com- pleanno, EDB, Bologna 1998, 521-539.

1999 «Analisi letteraria e strategia retorica: su 1Tm e su 1Tm 4,1-16. Contri- buto allo status quaestionis sulla esegesi delle Lettere pastorali», in G. DE

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Bibliografia selezionata di Cesare Marcheselli-Casale

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VIRGILIO (ed.), Il deposito della fede. Timoteo e Tito. Atti del Congresso di Termoli (1-3 settembre 1997), EDB, Bologna 1999, 19-38. «La fede e le opere», in La Bibbia per la famiglia, San Paolo, Milano 1999, 312-315.

2000 «Gesù di Nazaret, messia di Israele? O messia da Israele per Israele? Un punto qualificato del dialogo tra cristiani ed ebrei», in G. CASTELLO (ed.), Gesù di Nazaret e il dialogo ebraico-cristiano. Atti del Convegno dei docenti della Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale, Sezione S. Tommaso (16-17 febbraio 1998), Napoli 2000, 41-76.

2001 «“Ecco venuto il momento in cui vi svelo apertamente il mio segreto”. Analisi retorica de Il triplice trionfo della istituzione a pro dei figli dei carcerati. Discorso pronunziato dall’avv. comm. Bartolo Longo il 23 maggio 1895, terzo anniversario della benefica istituzione», in Atti del Congresso su Bartolo Longo (Pompei, 13-15 novembre 1998), Pontificio Santuario di Pompei, Pompei 2001, I, 517-554.

«“Allora si mise a riflettere su la sua situazione e (si) disse...”. Una dif- ficile interrelazione familiare spiazzata, si rilancia (su Lc 15,11-32)», in E. FRANCO (ed.), Mysterium Regni, Mysterium Verbi. Studi in onore di mons. Vittorio Fusco (Supplementi alla Rivista Biblica 38), EDB, Bolo- gna 2001, 355-390.

2002 «La risurrezione dei corpi. Escatologia e antropologia tra ebraismo e cri- stianesimo», in M. BORSARI (ed.), Altrimondi. Strategie di immortalità e identità religiosa, FSC, Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Modena 2002, 49-88.

«Istituzione e carisma nella Chiesa. Lettere pastorali a Timoteo e a Tito», in C. GHIDELLI – A. GIRLANDA (edd.), La Bibbia nelle nostre mani, San Paolo, Milano 2002. «Risorgeremo, ma come? Dal noto all’ignoto (1Cor 15,35-53)», in Paro- le di Vita (2002)4, 17-24.

2003 «Uno spaccato originale nella Chiesa delle origini. Rm 16,1-2.3-16», in V. SCIPPA (ed.), La Lettera ai Romani. Esegesi e teologia (Biblioteca teolo- gica napoletana 24), Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale – Sezione S. Tommaso d’Aquino, Napoli 2003, 111-136.

2006 «Morte e risurrezione corporale nelle lettere del NT», in S. PANIMOLLE (ed.), Dizionario di spiritualità biblico-patristica, Borla, Roma 2006, XLIV, 288-378.

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2007 «Salvezza integrale dell’umanità: risurrezione», in Escatologia e missio- ne (Studi per la missione: 4° Corso), Pontificia unione missionaria, Roma 2007, 3-14 [tradotto in inglese, francese, spagnolo, portoghese].

2008 «Cristo e la sua Chiesa: ricerca di senso e missione di speranza», in Esca- tologia e missione (Studi per la missione: 4° Corso), Pontificia unione missionaria, Roma 2008, 3-17 [tradotto in inglese, francese, spagnolo, portoghese].

«“Chi nega la risurrezione [...], non avrà parte al mondo futuro”. Lin- guaggio e immagini di risurrezione nel giudaismo rabbinico», in N. CIOLA – G. PULCINELLI (edd.), Nuovo Testamento: teologie in dialogo culturale. Scritti in onore di Romano Penna nel suo 70° compleanno, EDB, Bolo- gna 2008, 463-477.

2009 «Dopo la morte il vuoto? Linguaggio e immagini di risurrezione e di stile di vita oltre la morte nei manoscritti di Qumran e nei frammenti di recente pubblicazione», in G. DI NAPOLI – G. MANNA (edd.), Le ragioni della speranza. Scritti in memoria di mons. Rocco De Leo, Plectica, Saler- no 2009, 23-66.

«Abele. Ombratile tipologia sacerdotale, prefigurazione del Cristo Redentore», in A. PITTA (ed.), Tempio, culto e sacerdozio nel cristianesi- mo delle origini. XII Convegno di studi neotestamentari e anticocristiani (Fara Sabina, 13-15 settembre 2007) (Ricerche Storico Bibliche 2), EDB, Bologna 2009, 221-253.

2010 «Ecclesiologia delle Lettere pastorali (1 e 2Tm, Tt)», in G. CALABRESE – P. GOYRET – O. PIAZZA (edd.), Dizionario di ecclesiologia, Città Nuova, Roma 2010, 499-515. «Pasqua e servizio, per dare senso alla storia: Gv 13,1-15 (16.20; 21-30; 31-38)», in Fondazione Pauciullo-Della Valle. Attività, Ercolano (NA) 2010, 5-18.

«Areopago della missione: rivisitazione biblico-teologica», in Areopaghi della missione contemporanea (Studi per la missione), Pontificia unione missionaria, Roma 2010, 3-17 [tradotto in inglese, francese, spagnolo, portoghese].

Strategia e passione pastorali [di un hêgouménos solerte]. Dalla Lettera agli Ebrei, Albano (Roma) 2010: http://www.webdiocesi.chiesacattoli- ca.it/cci_new/s2magazine/index1.jsp?idPagina=32165.

2011 «Benedetto Dio per la sua ininterrotta progettualità di redenzione (Ef 1,3a-10e)», in P. MARTINELLI – L. BIANCHI (edd.), In caritate veritas. Luigi Padovese. Vescovo cappuccino, vicario apostolico dell’Anatolia. Scritti in memoria, EDB, Bologna 2011, 403-415.

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«La Cura Morum e i cataloghi socio-familiari. Testi cristiani di fine primo secolo e la classicità greco-romana», in G. DI PALMA (ed.), La sfida educativa. Letture teologiche e prospettive, Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale – Sezione S. Tommaso d’Aquino, Napoli 2012. «Il Sommo Sacerdote, i sacerdoti, il popolo sacerdotale», in A. TERRAC- CIANO (ed.), Il sacerdozio ministeriale. Atti del Seminario nell’Anno sacer- dotale (2009-2010), Verbum Ferens, Napoli 2011 [in corso di stampa].

4. RECENSIONI E NOTE CRITICHE

1975 J. CABA, Dai vangeli al Gesù storico, Ed. Paoline, Roma 1974, in Asprenas 22(1975)1, 102-105.

W.D. DAVIES, Capire il Sermone sul monte, Claudiana, Torino 1975, in Asprenas 22(1975)4, 446-448.

1977 G. FERRARO, L’ora di Cristo nel quarto vangelo, Herder, Roma 1974, in Asprenas 24(1977)3, 324-327.

1978 «Il Vangelo di Matteo. Riflessioni a proposito della recente opera di L. Sabourin [Il Vangelo di Matteo. Teologia ed esegesi, 2 voll., Ed. Paoline, Roma 1976-1977]», in Asprenas 25(1978)4, 179-192.

1979 G. RAVASI, Quale Dio è così vicino? Fede e storia nella preghiera d’Israe- le, Àncora-USMI, Milano-Roma 1976, in Parole di Vita (1979)2, 78. L. CERFAUX, Quelli di Corinto, Città Armoniosa, Reggio Emilia 21979, ivi, 79-80.

1980 S. CIPRIANI, Nutriti della Parola. Riflessioni biblico-liturgiche. Ciclo C, Ed. Paoline, Roma 1979, in Asprenas 27(1980)1, 99-100.

1981 «Le parabole del Vangelo di Marco (4,1-34). Annotazioni di metodolo- gia neotestamentaria e rilevazioni di contenuto a proposito del recente volume di V. Fusco [Parola e regno. La sezione delle parabole (4,1-34) nella prospettiva marciana, Morcelliana, Brescia 1980]», in Rivista Bibli- ca (1981)3-4, 405-415.

«S. Paolo nella letteratura teologica italiana. Rassegna bibliografica: 1. Biografie», in Parole di Vita (1981)3, 230-238. «S. Paolo nella letteratura teologica italiana. Rassegna bibliografica: 2. Teologia di s. Paolo», in Parole di Vita (1981)5, 389-394.

1982 «S. Paolo nella letteratura teologica italiana. Rassegna bibliografica: 3. Monografie», in Parole di Vita (1982)1, 61-74.

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Bibliografia selezionata di Cesare Marcheselli-Casale

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«S. Paolo nella letteratura teologica italiana. Rassegna bibliografica: 4. Commentari», in Parole di Vita (1982)5, 59-67. «Uno scritto neotestamentario sempre stimolante: la Lettera di Giaco- mo. Osservazioni in margine al recente libro di M. Cimosa [A confronto conlaparola.LaLetteradiGiacomo,ElleDiCi,Torino-Leumann1980]», in Asprenas 29(1982)1, 67-72.

1985 «Un libro. Un problema [nota sull’opera di M. ADINOLFI, Il femminismo della Bibbia, Antonianum, Roma 1981]», in Parole di Vita (1985)5, 370- 378.

1986 P.C. BORI, Il vitello d’oro. Le radici della controversia antigiudaica, Borin- ghieri, Torino 1983, in Archiv für Kulturgeschichte 68(1986), 139-140. «Glossolalia: estasi o profezia? A proposito dello studio di V. Scippa [La Glossolalia nel NT. Ricerca esegetica secondo il metodo storico-critico e analitico-strutturale, M. D’Auria, Napoli 1982]», in Teresianum 37(1986)1, 205-210.

«Il racconto di Giovanni: in cammino verso il Padre [nota sull’opera di V. PASQUETTO, Da Gesù al Padre, Teresianum, Roma 1983]», in Asprenas 33(1986)1, 79-91. E. BISER, Paolo, l’ultimo testimone della risurrezione, Morcelliana, Bre- scia 1984, ivi, 93-95.

«Sagrada Biblia. Santos Evangelios (Introduzione, Testo latino Neovol- gata, versione e commento), Universidad de Navarra 1983», in Asprenas 33(1986)2, 201-202.

1987 G. SCHNEIDER, Gli Atti degli apostoli. I. 1,1–8,40, Brescia 1985, in Aspre- nas 34(1987)4, 451-453.

E. RAVAROTTO, Grammatica elementare greca per lo studio del Nuovo Testamento.Nozioni-Esercizi-Vocabolario,Antonianum,Roma1994,ivi, 449-451. P. DACQUINO, Storia del matrimonio alla luce della Bibbia, ElleDiCi, Leu- mann-Torino 1984, ivi, 457-462.

H. SCHLIER, La Lettera ai Romani, Paideia, Brescia 1982, ivi, 453-456.

1988 J. CARMIGNAC, Nascita dei vangeli sinottici, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1986, in Asprenas 35(1988)1, 168-170. «Perlustrando la Palestina. Luoghi e paesaggi della Bibbia. Geografia, storia e itinerari della Terra santa in una recente opera di grande inte- resse scientifico [O. KEEL – M. KÜCHLER, Orte und Landschaften der Bibel, Einsiedeln-Göttingen 1982-1984, I-II]», in Asprenas 35(1988)2, 253-267.

K. SPRONK, Beatific Afterlife in Ancient Israel and in the Ancient Near East, Neukirchen-Vluyn 1986, in Asprenas 35(1988)3, 402-406.

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Bibliografia selezionata di Cesare Marcheselli-Casale

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1989 «Gesù di fronte alla sua morte e risurrezione. Rassegna critica di alcuni studi recenti», in Asprenas 36(1989)3, 399-405.

1996 «Rassegna di studi sull’apocalittica», in Asprenas 43(1996)1, 67-78. EGERIA, Diario di viaggio, introduzione, traduzione e note a cura di E. GIANNARELLI, Ed. Paoline, Milano 1992, ivi, 122-123.

1997 «La proposta di Drewermann. Dall’esegesi della Parola alla Parola per la vita», in Asprenas 44(1997)4, 575-582.

2009 M. CICCARELLI, La sofferenza di Cristo nella Epistola agli Ebrei. Analisi di una duplice dimensione della sofferenza: soffrire-consoffrire con gli uomini e soffrire-offrire a Dio, EDB, Bologna 2008, in Rivista Biblica (2009)1, 115-118.

F. URSO, La sofferenza educatrice nella Lettera agli Ebrei, EDB, Bologna 2007, ivi, 118-121.

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Cesare Marcheselli-Casale un fecondo e valido neotestamentarista

ARMANDO ROLLA

Scorrendo l’elenco delle pubblicazioni di Cesare Marcheselli-Casale, intendo far restare non solo il loro elevato numero (7 libri, 2 miscellanee da lui curate, 69 articoli scientifici e di alta divulgazione, 13 dei quali pubblicati nella rivista Asprenas della Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale – Sezio- ne S. Tommaso, e 38 recensioni e note critiche), ma soprattutto la considerevole mole dei suoi quattro libri principali su cui fra poco fermerò la mia attenzione, e che assommano a ben 2530 pagine. A parte gli scritti di occasione, questi quattro libri non sono nati di getto, ma, come annota lo stesso autore, la loro elaborazio- ne ha richiesto parecchi anni di ricerche. Meritano quindi tutta l’attenzione per il loro carattere scientifico.

Dei libri del Nuovo Testamento Marcheselli-Casale ha approfondito soprattutto le Lettere pastorali e la Lettera agli Ebrei in due volumi massicci, preceduti e seguiti da numerosi articoli in riviste e miscellanee. Le Lettere pasto- rali a Timoteo e a Tito (EDB, Bologna 1995) commentano il testo delle tre lette- re versetto per versetto secondo i migliori orientamenti dell’esegesi attuale, ispi- rata principalmente al metodo storico-critico, e lo integrano con numerosi excur- sus ed esaustiva bibliografia. Sull’origine di queste lettere Marcheselli-Casale adotta una posizione molto equilibrata, in quanto cerca di conciliare nova et vete- ra. Egli ritiene che i personalia di 1-2 Timoteo siano storicamente attendibili, però si riferirebbero all’attività di Paolo durante i suoi viaggi missionari descrit- ti dagli Atti degli apostoli, non dopo la sua liberazione dalla prima prigionia romana, come afferma l’opinione tradizionale. Le Lettere pastorali avrebbero avuto due fasi: la prima ad opera di Paolo e la seconda ad opera di un autore- redattore, dopo la morte dell’apostolo. Nella prima fase queste lettere erano realmente destinate a Timoteo e a Tito; invece nella seconda fase (la stesura attuale) i due discepoli di Paolo hanno solo una funzione vicaria, in quanto rap- presentano i pastori delle chiese di Efeso e di Creta. Nel suo ultimo volume Le Lettere pastorali raccontano (Borla, Roma 2010), Marcheselli-Casale riprende e approfondisce questi suoi orientamenti critici (parte I), allarga la ricerca alla dispositio rhetorica (lógos, éthos, páthos, sympáthos) e strutturale del testo delle Lettere pastorali individuandone tesi, tema e temi (parte II) per poi rilevarne e svilupparne l’armonico e attuale messaggio (parte III).

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Nella Lettera agli Ebrei (Ed. Paoline, Milano 2005) Marcheselli-Casale adotta lo stesso procedimento seguito per le Lettere pastorali; privilegia sempre il metodo storico-critico, però, ispirandosi al documento della Pontificia com- missione biblica del 1993 su L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, impiega ampiamente l’analisi strutturale e l’analisi retorica (antica!) e, saltuariamente, anche l’analisi sociologica e socio-culturale. Secondo Marcheselli questa lettera sarebbe un trattato destinato ai cristiani di origine ebraica, che al momento in cui ricevono la lettera sono ormai ellenizzati. Chi sia l’autore «solo Dio lo sa» (Ori- gene); certamente non è Paolo, «perché vocabolario, stile, contenuto si oppongo- no all’attribuzione paolina» (p. 24). Alcune idee del commento collimano con quelle adottate nell’attuale dialogo ebraico-cristiano. Innanzitutto, è rifiutata decisamente la teoria della sostituzione della Chiesa a Israele, che per tanto tempo ha dominato la teologia cristiana appoggiandosi anche sulla Lettera agli Ebrei. Infatti, anche in questa lettera l’Antico Testamento e il suo culto non sono sostituiti dal Nuovo Testamento e dal culto cristiano, ma lo preparano e vi tro- vano il loro completamento. Contrariamente agli esegeti e teologi odierni, che sostengono la validità a tutt’oggi dell’alleanza sinaitica, Marcheselli-Casale, in accordo con il documento della Pontificia commissione biblica del 2001 dal tito- lo Il popolo ebraico e le sue sacre Scritture nella Bibbia cristiana, introduce una distinzione molto significativa: conserva la sua validità l’alleanza-promessa di Abramo, mentre l’alleanza-patto al Sinai con Mosè è scaduta con l’avvento di Cristo.

A parte la preghiera in s. Paolo, a cui ha dedicato qualche articolo e, soprat- tutto, la sua tesi di dottorato in teologia, pubblicata presso l’editore napoletano D’Auria nel 1975, Marcheselli-Casale ha affrontato a più riprese il tema fonda- mentale della risurrezione dei morti. Tra le sue ormai numerose pubblicazioni su questo spinoso argomento, il primo posto spetta senz’altro al massiccio volume Risorgeremo, ma come? Risurrezione dei corpi, degli spiriti o dell’uomo? (EDB, Bologna 1988), dedicato soprattutto allo studio dettagliato dei brani apocalittici dell’Antico Testamento e degli scritti giudaici di epoca greco-romana (200-70 a.C.). Pur adottando un tono interlocutorio, come del resto è la sua abitudine, Marcheselli-Casale ritiene innanzitutto che tutti questi scritti privilegino il moni- smo antropologico secondo il quale la retribuzione ultraterrena coinvolge l’uo- mo intero nella risurrezione, anziché la sola anima come sostiene il dualismo antropologico d’origine greca. In secondo luogo, egli pensa che la modalità della risurrezione contempli tre elementi: la restituzione corporea, la riunificazione dell’anima con il corpo e la trasformazione dell’intero essere umano.

Trascurando numerosi interventi minori, meritano d’essere segnalati anco- ra cinque studi sulla risurrezione, piuttosto consistenti, che ricordo nella loro suc- cessione cronologica: Proiezioni di risurrezione corporale nell’Antico Testamen- to (1984); La risurrezione dei corpi. Escatologia e antropologia tra ebraismo e cri- stianesimo (2002); Morte e risurrezione nella Bibbia (2006); «Chi nega la risurre- zione... non avrà parte nel mondo futuro». Linguaggio e immagini di risurrezio- ne nel giudaismo rabbinico (2008); Dopo la morte il vuoto? Linguaggio e imma-

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gini di risurrezione e di stile di vita nei manoscritti di Qumran e nei frammenti di recente pubblicati (2009).

I reiterati e prolungati soggiorni in Germania hanno consentito a Marche- selli-Casale di conoscere l’enorme impatto culturale di un sacerdote della dioce- si di Paderborn. È Eugen Drewermann, un uomo poliedrico (teologo, esegeta, curatore d’anime e, soprattutto, psicanalista) e poligrafo (ha pubblicato finora una cinquantina di volumi fra cui l’opera fondamentale di 1500 pagine Psicolo- gia del profondo ed esegesi, 1984-1989). In Italia è quasi uno sconosciuto, invece in Germania è uno degli autori più letti ma, anche, più controversi. È compren- sibile che l’esegeta Marcheselli si sia subito interessato di lui come cultore della Bibbia alla luce della psicologia del profondo. Frutto di questo interesse, oltre a vari interventi minori in convegni e in articoli, è il grosso libro «Il caso Drewer- mann». Psicologia del profondo: un nuovo metodo per leggere la Bibbia? (Piem- me, Casale Monferrato 1991; con due traduzioni tedesche). Il mondo accademi- co tedesco (esegeti, teologi e psicologi) ha giudicato Drewermann in maniera piuttosto negativa, rimproverandogli scarsa scientificità, giudizi sommari, disso- luzione naturalistica della fede cristiana, identificazione fra religione e psicolo- gia, fra autorealizzazione umana e redenzione, ricaduta nello gnosticismo, ten- denza docetista e altro ancora.

Invece nel suddetto libro Marcheselli-Casale ritiene che il metodo della psicologia del profondo, di ascendenza psicanalitica, che Drewermann adotta per interpretare la Bibbia, abbia il suo diritto di cittadinanza fra i vari nuovi metodi escogitati dall’esegesi contemporanea; infatti, verrà approvato, con le debite riserve, anche dalla Pontificia commissione biblica nel sopraccitato documento del 1993. Per questo il suddetto libro, pur non risparmiando alcuni rilievi negati- vi, evidenzia tutti i pregi del nuovo metodo drewermanniano e respinge decisa- mente le ingiuste valutazioni negative, lanciate dal mondo accademico tedesco contro Drewermann.

Marcheselli-Casale ha anche commentato ampiamente il Vangelo di Luca per la Bibbia-Piemme; invece, a più riprese e in articoli per lo più occasionali, si è limitato a studiare passi isolati specialmente dei Vangeli di Marco e Luca e ad analizzare, anche qui più volte, gli inni cristologici incorporati nelle lettere pro- topaoline e deuteropaoline.

I numerosi viaggi che Marcheselli-Casale ha compiuto nei paesi biblici e il suo prolungato soggiorno in Israele per l’insegnamento in Istituti teologici loca- li gli hanno consentito di conoscere e documentare molte cose che riguardano l’ambiente biblico. È un peccato che finora egli abbia pubblicato solo due arti- coli sull’archeologia biblica. Mi risulta però che abbia in cantiere un libro docu- mentario sui viaggi di s. Paolo. Speriamo di averlo presto in libreria.

Non c’è bisogno di dire che Marcheselli-Casale ha tutte le carte in regola perché i suoi libri e i suoi articoli, sia sotto l’aspetto formale (il suo stile è sem- pre limpido e, spesso, anche cattivante) sia sotto l’aspetto contenutistico, meriti- no la fiducia di coloro che si occupano degli studi biblici in modo serio.

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Per finire, un voto. Se, con tutti i suoi impegni scolastici nella Sezione S. Tommaso d’Aquino della Pontificia facoltà teologica di Napoli, nei due Istituti teologici di Gerusalemme (Studium biblicum franciscanum, Antonianum/Roma, e Istituto teologico S. Paolo, UPS/Roma), nei vari Istituti superiori di scienze reli- giose della Campania, Marcheselli-Casale è riuscito a darci tante pubblicazioni sulla Bibbia, ora che ha raggiunto l’emeritato e conserva ancora intatte tutte le sue notevoli energie fisiche e psichiche, potrebbe moltiplicare i suoi scritti così validi per la comune causa biblica a cui abbiamo consacrato la nostra esistenza. Glielo augura di tutto cuore un suo antico maestro!

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La sacra Scrittura anima della teologia* BRUNO FORTE

Il rapporto fra teologia e sacra Scrittura è così decisivo per il pensiero della fede, che non a caso il Novecento teologico conobbe presto un’appassionata polemica proprio riguardo a esso: ne furono protagonisti il giovane Karl Barth – che aveva da poco pubblicato la seconda, radicalmente innovativa edizione del suo commento a La Lettera ai Romani di Paolo (1922) – e il suo maestro berli- nese, ultimo grande corifeo della teologia liberale, Adolf von Harnack. Questi aveva rivolto pubblicamente Quindici domande a quei teologi che disprezzano la teologia scientifica, indirizzandosi di fatto all’antico allievo. Barth aveva replica- to con Quindici risposte al professor von Harnack, che a sua volta gli rispose con una lettera aperta, cui seguirono un’ulteriore replica di Barth e un intervento conclusivo di Harnack.1 Il maestro berlinese rimproverava ai «detrattori della teologia scientifica fra i teologi» (Verächter der wissenschaftliche Theologie unter den Theologen) l’aver abdicato al metodo storico-critico, il solo in grado di evi- tare il rischio di confondere «un Cristo immaginario con quello reale», oltre che di procurare alla teologia dignità e rispetto fra le scienze. Era convinzione del professore di Berlino che chi trasforma «la cattedra teologica in pulpito» com- promette anche la continuità fra l’umano nei suoi gradi più elevati e il divino, aprendo la strada alla barbarie e all’ateismo. Una teologia dipendente dalla Scrittura sarebbe forse pure edificante, ma di certo poco scientifica e del tutto incapace di parlare a intelligenze libere e adulte.

Nelle sue risposte – non prive della veemenza del neofita – Barth punta l’in- dice contro quel mondo teologico «cui è diventato estraneo e inaudito il concet- to di un oggetto normativo, davanti all’unica normativa del metodo». Dove si rico- nosce correttamente il primato dell’Oggetto puro, della Parola divina nelle paro- le con cui si comunica agli uomini, lì ogni soggettivismo è fugato e la teologia si incontra al livello più alto e fecondo con la predicazione, perché entrambe si rico- noscono al servizio della rivelazione di Dio. Arbitrio e soggettività si insinuano, al contrario, lì dove il primato è dato alle parole degli uomini piuttosto che all’auto- comunicazione divina. Ogni continuità fra al-di-qua e al-di-là va rifiutata: fra i due

* Testo della Prolusione per l’anno accademico 2010-2011, tenuta alla Facoltà di scienze bibliche e archeologiche di Gerusalemme (8 novembre 2010).

1 Il tutto in Le origini della teologia dialettica, a cura di J. MOLTMANN, Brescia 1976, 375-402.

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mondi ci sarà sempre «una relazione dialettica, che rimanda a un’identità che non può essere compiuta, e perciò neanche affermata». Il contingente resta solo un pallido rimando all’eterno: una teologia che non dipendesse dalla parola di Dio non sarebbe neanche teologia. E poiché il Dio vivente sta e resta oltre ogni cat- tura umana, vera teologia sarà sempre luminosa tenebra, oscurità rischiarata dalla sola luce della fede, generata dalla Parola della rivelazione.

L’abisso fra i due teologi è quello fra due epoche: l’Ottocento liberale e borghese, ormai sulla via del tramonto, e la rampante «teologia dialettica» nove- centesca, che Barth inaugura mettendosi in ascolto dell’apostolo Paolo nella Let- tera ai Romani. Rispetto all’appello finale di Harnack al suo interlocutore per- ché ammetta che «mentre suona il proprio strumento, Dio ne ha anche altri», la posizione del giovane teologo resta tranciante: «Tutto è terribilmente relativo», solo Dio merita ascolto e obbedienza. Qualche anno più tardi Barth ribadirà la medesima tesi nel suo importante saggio su Anselmo d’Aosta, interpretato come il testimone dell’assoluto primato di Dio sull’intelligenza indagante: «Una scien- za della fede che negasse o mettesse in dubbio la fede [...] smetterebbe non sol- tanto ipso facto di essere credente, ma pure di essere scientifica. Le sue negazio- ni fin da principio non sarebbero affatto migliori di una disputa di pipistrelli e civette con le aquile sulla realtà dei raggi del sole a mezzogiorno».2 La teologia, insomma, sta o cade con l’ascolto obbediente della parola di Dio, e perciò la que- stione del suo rapporto con la sacra Scrittura è per essa veramente decisiva.

Se ne occuperà in tutta la sua rilevanza il concilio Vaticano II: recependo i risultati del ressourcement biblico, patristico e liturgico dei decenni che lo aveva- no preceduto, il concilio produce come frutto maturo la costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei verbum. In essa, al n. 24 – nell’ambito del capitolo finale, dedicato a «La sacra Scrittura nella vita della Chiesa» – si afferma:

La sacra teologia si basa come su un fondamento perenne sulla parola di Dio scritta, inseparabile dalla sacra Tradizione; in essa vigorosamente si consolida e si ringiovani- sce sempre, scrutando alla luce della fede ogni verità racchiusa nel mistero di Cristo. Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio; sia dunque lo studio delle sacre pagine come l’anima della sacra teologia.3

2 K. BARTH, Fides quaerens intellectum. La prova dell’esistenza di Dio secondo Anselmo nel contesto del suo programma teologico, Brescia 2001, 73s; la prima edizione tedesca è del 1931.

3 «Sacra Theologia in verbo Dei scripto, una cum Sacra Traditione, tamquam in perenni fundamen- to innititur, in eoque ipsa firmissime roboratur semperque iuvenescit, omnem veritatem in mysterio Christi conditam sub lumine fidei perscrutando. Sacrae autem Scripturae verbum Dei continent et, quia inspiratae, vere verbum Dei sunt; ideoque Sacrae Paginae studium sit veluti anima Sacrae Theologiae» (CONCILIO VATI- CANO II, costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei verbum [DV] 24: EV 1/907). In nota si citano a questo punto Leone XIII (enciclica Providentissimus Deus, 18 novembre 1893: EB 114), e Benedetto XV (enciclica Spiritus Paraclitus, 15 settembre 1920: EB 483). Il numero si conclude con le seguenti afferma- zioni: «Eodem autem Scripturae verbo etiam ministerium verbi, pastoralis nempe praedicatio, catechesis omnisque instructio christiana, in qua homilia liturgica eximium locum habeat oportet, salubriter nutritur sancteque virescit» («Anche il ministero della parola, cioè la predicazione pastorale, la catechesi e ogni tipo di istruzione cristiana, nella quale l’omelia liturgica deve avere un posto privilegiato, trova in questa stessa parola della Scrittura un sano nutrimento e un santo vigore»).

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La portata di questo testo è immediatamente percepibile se si pensa alla polemica nata a partire dalla Riforma contro l’aridità della teologia delle scuole, che riduceva l’uso della sacra Scrittura ai cosiddetti dicta probantia, asserviti al primato dell’argomentazione concettuale. Così, il giovane Lutero, nelle tesi 19 e 20 della Disputatio di Heidelberg (1518), non aveva esitato a contrapporre il vero teologo, che dipende totalmente dalla rivelazione contenuta nella Scrittura, al falso teologo, che specula in termini solo umani: «Non può dirsi veramente teo- logo chi scruta le profondità invisibili di Dio pensando di conoscerle attraverso ciò che è stato creato, ma solo chi di Dio conosce ciò che è si è reso visibile e rivolto a noi come di spalle attraverso la passione e la croce».4

Nel testo citato della Dei verbum il Vaticano II afferma con chiarezza l’as- soluto primato della Parola rivelata su ogni conoscenza della fede: come osserva- va già Joseph Ratzinger in un celebre commento al testo conciliare,5 se l’uso della metafora del «fondamento» mostra la solida continuità che il riferimento norma- tivo alla Scrittura dà al pensiero della fede, il carattere statico di questa immagi- ne è arricchito e dinamicizzato dai due verbi roboratur («si consolida») e iuvene- scit («si ringiovanisce»), che mostrano come la teologia non sia un edificio costrui- to una volta per sempre, ma richieda continuo impegno di approfondimento e di crescita sulla base del fondamento scritturistico. La terza immagine adoperata dal concilio, poi, quella dello studio delle Scritture come anima sacrae Theologiae, che il decreto Optatam totius dello stesso Vaticano II espliciterà al n. 16,6 trae dalle premesse poste le conseguenze decisive di un metodo teologico dove non si muova dal presente per giustificare più o meno forzatamente tesi attuali ricor- rendo al passato fontale, ma – esattamente al contrario – si parta dalla Bibbia, letta nel suo contesto, per lasciarsi provocare a nuove questioni e farsi illuminare sui percorsi appropriati per rispondervi, solo così cogliendo la vera ricchezza della Tradizione ecclesiale e dello sviluppo del dogma. Come si vede, il testo di Dei ver- bum 24 evoca una complessità di riflessioni ben più ampia di quella che la densa brevità delle espressioni usate potrebbe far pensare. È questa ricchezza che vor- rei esplorare, evocandone la portata in alcuni punti essenziali. Raccoglierò quan-

4 «Non ille digne Theologus dicitur, qui invisibilia Dei per ea, quae facta sunt, intellecta conspicit, sed qui visibilia et posteriora Dei per passiones et crucem conspecta intelligit» (D. Martin Luthers Werke [Weimarer Ausgabe], 1, 354, 17s).

5 Cf. J. RATZINGER, «Dogmatische Konstitution über die göttliche Offenbarung. Kommentar zum II Kapitel», in Lexicon für Theologie und Kirche, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1986, Band 13, 515-528 (1a ed. 1967).

6 «Nell’insegnamento della teologia dogmatica, prima vengano proposti i temi biblici; si illustri poi agli alunni il contributo dei padri della Chiesa orientale e occidentale nella fedele trasmissione ed enuclea- zione delle singole verità rivelate, nonché l’ulteriore storia del dogma, considerando anche i rapporti di que- sta con la storia generale della Chiesa. Inoltre, per illustrare integralmente quanto più possibile i misteri della salvezza, gli alunni imparino ad approfondirli e a vederne il nesso per mezzo della speculazione, aven- do s. Tommaso per maestro; si insegni loro a riconoscerli presenti e operanti sempre nelle azioni liturgiche e in tutta la vita della Chiesa; ed essi imparino a cercare la soluzione dei problemi umani alla luce della rive- lazione, ad applicare le verità eterne alla mutevole condizione di questo mondo e comunicarle in modo appropriato agli uomini contemporanei» (CONCILIO VATICANO II, decreto sulla formazione sacerdotale Opta- tam totius 16: EV 1/807).

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to vorrei offrire alla riflessione comune e al dibattito critico in dieci tesi, dal carat- tere necessariamente evocativo e bisognoso di approfondimento.

1. «IN PRINCIPIO ERAT VERBUM» (GV 1,1): IL PRIMATO DELLA PAROLA DI DIO

Il presupposto necessario della conoscenza della fede è la parola del Dio vivente, risuonata nella storia. La fede nasce dall’ascolto (cf. Rm 10,17), prestato all’autocomunicazione divina, compiutasi in eventi e parole. Deus dixit – Dio ha parlato: sta qui l’inizio di ogni possibile assenso credente, come pure di ogni conoscenza riflessa dell’esperienza di fede, e perciò il «fondamento» di ogni teo- logia, quale intelligenza del suo contenuto noetico, teoria critica della prassi cri- stiana ed ecclesiale. L’obbedienza della fede alla rivelazione non è facile posses- so, ma ascolto profondo (oboedientia da ob-audio = yp-akoé), accoglienza di ciò che sta sotto e oltre (ob-, ypó-) le parole dell’autocomunicazione divina. Si obbe- disce veramente alla Parola soltanto quando la si ascolta «oltre-passandola», ascoltando, cioè, quanto sta al di là di essa e da cui essa proviene. Nella Chiesa delle origini questo al di là della Parola fu designato spesso col nome di Silen- zio:7 ricorrendo a questa terminologia, si potrebbe affermare che vera accoglien- za della Parola è l’ascolto del Silenzio che la supera e da cui essa è originata. Cre- dere è assentire al Verbo uscito dal divino Silenzio! Il Figlio rimanda al Padre, la Parola al Silenzio, il Rivelato nel nascondimento al Nascosto nella rivelazione. Se, dunque, «la sacra teologia si basa come su un fondamento perenne sulla paro- la di Dio scritta» (DV 24), attingere a questa fonte è compito proprio e origina- rio della conoscenza della fede, che dovrà scrutarne l’abissale profondità, rima- nendo non di meno letteralmente «appesa» alla parola di Dio e insieme aperta al Silenzio da cui essa proviene e a cui schiude. Così facendo la teologia «vigo- rosamente si consolida e ringiovanisce sempre», scrutando «ogni verità racchiu- sa nel mistero di Cristo» (DV 24). Obbedire alla Parola è per la conoscenza della fede un sempre nuovo entrare attraverso di essa negli abissi del divino Silenzio. Questo itinerario nel Silenzio, scrutato grazie alla Parola e in obbedienza a essa, caratterizza la cognitio fidei tanto nel suo aspetto teologico, quanto in quello mistico. All’origine del pensiero della fede sta sempre la Parola, che Dio ha rivol- to agli uomini come ad amici! Anche così, in principio erat Verbum!

2. LA DIALETTICA DELLA RIVELAZIONE: IN ASCOLTO DELLA PAROLA E DEL SILENZIO DI DIO

Il doppio significato della parola re-velatio emerge qui in tutta la sua den- sità: nel togliere il velo (re-velare, dove il re- dice l’abolizione) c’è un infittirsi del

7 Cf. IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Ad Magnesios 8,2, in F.X. FUNK, Patres apostolici, 2 voll., Tübingen 21901, I, 236. L’edizione accolta dal Migne in PG 5,669s premette la negazione all’espressione «procedente dal Silenzio (Sighé)», riferita al Verbo, il Figlio Gesù Cristo. Come osserva Funk quest’aggiunta – presente solo in alcuni codici – è spuria, introdotta con evidente intento antignostico, dato l’uso della gnosi di parlare della divina Sighé.

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medesimo velo (re-velare, dove il re- dice la ripetizione dell’atto); nel rivelarsi un ostendersi e un velarsi. L’ascolto credente raggiunge il Rivelato per andare grazie a esso e attraverso di esso verso il Nascosto: l’ypakoé, l’obbedienza della fede, tende a ciò che sta al di là della Parola (ypō = sotto, oltre, dietro); l’oboedientia è ascolto proteso all’al di là del versetto (ob = verso, indicativo del moto a luogo, oltre che dello scopo, del fine ultimo). La Parola è la mediazione, il Silenzio è la profondità nascosta al di là di essa, la meta ultima dell’obbedienza della fede pre- stata al Verbo. Senza la Parola non si darebbe accesso al Silenzio; senza il Silen- zio la Parola non rinvierebbe a un altro mondo e a un’altra patria, e tutto sareb- be risolto nello svelamento pienamente compiuto. Solo in quanto rinvia all’eter- no Silenzio la Parola esige l’obbedienza della fede; solo comunicandosi nella Parola l’al di là del detto si fa accessibile e provoca la risposta dell’intenzionalità credente, come apertura del cuore verso le insondabili profondità di Dio. In que- sto senso si comprende come le parole scritte della revelatio Dei possano conte- nere la Parola eterna rivolta agli uomini per la salvezza di chiunque creda: «Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio» (DV 24). L’ispirazione è la provenienza dall’eterno Silenzio della Parola, detta nelle parole della rivelazione. Proprio così queste parole sono norma normans di ogni conoscenza della fede, che sarà sempre norma normata dal Verbo venuto dal divino Silenzio ad abitare le parole della rivelazione: si comprende allora l’esortazione del Vaticano II, per cui «lo studio delle sacre pagine» deve esse- re «come l’anima della sacra teologia» (DV 24), chiamata a percorrere incessante- mente la dialettica della Parola e del Silenzio, propria dell’autocomunicarsi del Dio vivo, obbedendo così tanto al contenuto, quanto alla forma della rivelazione.

3. LA TRIPLICE VIA DELLA CONOSCENZA TEOLOGICA SUB VERBO DEI

Il rapporto fra la Parola della rivelazione e l’al di là di essa, sua origine e destino, è dunque decisivo per l’intelligenza della fede, che è la teologia: come concepirlo? La forma in cui pensarlo deve tener conto della continuità e insie- me della differenza fra i due termini da correlare, la Parola e il Silenzio: dove non si affermasse la continuità, il Silenzio resterebbe inaccessibile e la Parola vuota; dove non si tenesse conto della differenza, il Silenzio sarebbe risolto nella Parola. Occorre, pertanto, che il modo di pensare il rapporto neghi e affermi nello stesso tempo, e insieme neghi e affermi la negazione e l’affermazione a un più alto livello. È la triplice via del pensiero della fede in ascolto della rivelazio- ne, divenuta classica a partire da Dionigi l’Areopagita: via negationis, via affir- mationis, via eminentiae.8 Se la prima via attraverso la negazione intende affer- mare la differenza, la seconda attraverso l’affermazione intende evidenziare la continuità: la terza via rappresenta un superamento delle prime due, perché con-

8 Cf. De divinis nominibus VII/3: PG 3,869-872, con la parafrasi di Pachimere, che apre il passaggio alla dottrina scolastica dell’analogia: PG 3,885-888.

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giunge i poli nell’indissolubile continuità e nell’irriducibile distinzione del rap- porto di causalità e di proporzione. La teologia, in quanto esercizio consapevo- le della triplice via che muove dalla Parola verso l’abissale Silenzio della sua ulteriorità e della sua provenienza, dice tacendo e tace affermando: è perché Dio si è rivelato velandosi, che il teologo osa parlare del suo Silenzio; è perché c’è la Parola, che è possibile accedere con cautela e modestia al silenzioso Inizio. Già queste idee liberano la teologia da ogni presunzione razionalistica e «logocen- trica» e mostrano la necessità del suo radicamento nella contemplazione orante della Parola rivelata. Lungi dall’essere esercizio di dominio e di forzatura sulle «sacre pagine», la teologia sarà tanto più fedele al suo compito quanto più si porrà in ascolto di esse e della divina profondità che vi è celata. Una teologia dalla Scrittura sacra è per sua natura «teo-logica», «mistica» e «spirituale», in quanto si lascia «toccare» dall’autocomunicazione della Trinità santa e in parti- colare dall’azione dello Spirito che introduce alla verità tutta intera, trascendendo ogni umana cattura.

4. LA VIA NEGATIONIS: DALLA PAROLA AL SILENZIO

Il rapporto fra la Parola, che abita le parole della rivelazione, e il Silenzio, cui essa rimanda, è percorso anzitutto dalla via negativa: il Silenzio, cui la Parola schiude, si offre come la Non-Parola, la differenza rispetto a ciò che specifica il Verbo in quanto tale. Come la Parola ha il carattere di «venuta» e quindi di pros- simità immediata al nostro mondo, di dicibilità nell’orizzonte del nostro linguag- gio e perciò di comunicazione che rende possibile agli uomini di divenire «figli nel Figlio», così il Silenzio al di là del Verbo ha il carattere di «pro-venienza» nascosta, di profondità lontana, eppur congiunta, di tenebra irriducibile, presen- te in ogni comunicazione della luce divina. È qui che si comprende la preferen- za che il linguaggio della fede ha spesso dato ai termini «apofatici» per parlare di Dio, quasi a evocare l’ulteriorità irriducibile del Dio che viene nelle sue paro- le. Questo linguaggio negativo ha radice già nel Nuovo Testamento, dove rispet- to al Figlio, che si è fatto visibile, il Padre è qualificato come il Dio invisibile: «Egli è immagine del Dio invisibile» (Col 1,15). Se la Parola è presenza e comu- nicazione dell’infinito e dell’eterno nelle coordinate dello spazio e del tempo, il Silenzio è tenebra, l’invisibile al di là del visibile, da cui l’immagine viene e a cui rimanda. La via negativa della teologia conduce così alla tenebra intesa sia come assenza, sia come eccesso di luce.9 La negazione, cioè, afferma la distinzione fra

9 Cf. GREGORIO DI NISSA, Vita di Mosè II, 163. Mosè – secondo Gregorio – è colui che ha conosciuto sul monte santo la «tenebra luminosa» dell’esperienza mistica del divino (II, 163), perché è stato «l’arden- te innamorato della bellezza» (II, 231), che non ha mai cessato di avanzare verso la visione di Dio, supe- rando ogni approdo raggiunto per negazione e sete di ulteriore profondità: «Vedere Dio significa non saziarsi mai di desiderarlo [...] né il progredire del desiderio del bene è impedito da alcuna sazietà» (II, 239). Proprio in questa continua crescita Mosè è stato «modello di bellezza», che ci insegna a testimoniare come lui ha fatto «l’impronta della bellezza che ci è stata mostrata» (II, 319).

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i termini a partire da quello che si è reso accessibile a noi: con ciò essa non svuo- ta la consistenza dell’Altro, ma vi si approssima con la cautela e la modestia di un superamento della Parola vissuto in obbedienza alla Parola stessa: «Chi vede me, vede il Padre» (Gv 14,9; cf. 12,45). Il negare appare così come un più alto affermare: la via negativa si rivela complementare a quella positiva. Il Silenzio non si sposa al mutismo del non dire, ma al tacere eloquente del celebrare, all’a- dorante stare nell’apertura verso la Trascendenza. Il tacere responsabile di ciò di cui si è consapevoli di non poter parlare è già un affermare silenzioso e raccolto, un rinvio, nutrito di meraviglia, al Mistero santo. La teologia dalla Scrittura sa di dire tacendo e di tacere dicendo: essa evoca, non cattura; schiude, non imprigio- na; si avvicina al «fuoco divorante» che non si consuma, senza pretendere di appropriarsene. Proprio così, la teologia sub verbo Dei risulta libera da ogni pre- tesa assoluta e motiva l’attitudine critica della fede pensata nei confronti di ogni razionalità che voglia essere totalizzante e quindi di ogni cattura ideologica. La teologia nutrita di Scrittura è anti-ideologia: essa alimenta la resistenza critica a ogni forma di totalitarismo prodotto dalle pretese ideologiche.

5. LA VIA AFFIRMATIONIS: LE PAROLE DEL DIVINO SILENZIO

Se la via negativa della teologia si eleva verso l’al di là del versetto per negazione, la via positiva procede verso il Silenzio elevando al massimo grado le perfezioni della Parola: essa afferma la continuità nella distinzione, l’indissolubi- le unità della Parola e della sua Origine eterna. Suo fondamento è la certezza che l’insondabile profondità del Silenzio al di là del Rivelato si è resa accessibile, sia pure se nel nascondimento: «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unige- nito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18). Il Figlio eterno riman- da all’eterno Padre, il divino Generato al divino Generante, Dio al Dio, la Luce alla Luce. Il Silenzio oltre la Parola della rivelazione è l’eterno Silenzio, il divino Silenzio, la Persona divina consostanziale al Figlio. La Parola fatta carne riman- da al Dio presso cui sta da sempre (cf. Gv 1,1). Il Silenzio al di là del Verbo è divi- no e rivelatore, pur rimanendo nascosto come silente Inizio. Come qualifica la via affirmationis questo divino Silenzio? Partendo dalla consegna del Figlio per amore nostro (cf. Gal 2,20 e Rm 8,32), è la perfezione dell’amore a caratterizza- re Colui che pronuncia la Parola nell’eterno e la invia nel tempo (cf. 1Gv 4,8s). Perciò, la conoscenza di questo Dio nascosto, che si rivela nel gesto del supremo amore che è la consegna del Figlio, si compie nell’amore: «Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore [...]. Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell’amore, dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1Gv 4,8.16). La continuità fra Parola e Silenzio, affermata dalla via positiva, è dunque tutt’altro che estrinseca: essa è necessaria della libe- ra necessità dell’amore. La via positiva eleva dalle parole della Scrittura alla Parola detta per purissimo dono, e da essa al Silenzio del gratuito inizio dell’a- more, alla sorgiva pienezza che si irradia per gratuità assoluta. La via affirmatio-

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nis sfocia allora nella constatazione del primato dell’avvento divino: l’ascendere umano è frutto del divino discendere; la fede accoglie la Parola e in essa ascolta il Silenzio, perché il Silenzio si è detto nella Parola, pur restando in essa celato. Mentre la via negativa mostra l’inesorabile incompiutezza di ogni esodo umano che sfocia nella tenebra al di là di ogni luce e nel silenzio al di là di ogni parola, la via affermativa mostra l’infinita benignità dell’Amore, che gratuitamente si offre come sorgente della luce al di là di ogni tenebra e fonte della parola al di là di ogni silenzio, come pura e sorgiva autocomunicazione divina, che supera l’a- bisso e raggiunge la notte e il silenzio del mondo come Tenebra luminosa e Ini- zio di ogni vita. La conoscenza della fede, nutrita dalla Parola «trasgredita» lungo i sentieri del Silenzio in continuità obbediente con essa, mostra qui tutta la sua carica «performativa»: chi conosce la divina Bellezza nell’umile suo offrirsi nel frammento è da questa Bellezza redento e trasfigurato. La teologia così intesa si offre come cammino di santità e servizio di santificazione per l’intero popolo di Dio.

6. LA VIA EMINENTIAE: NEL SILENZIO DI DIO

È la via dialettica a riassumere e superare le altre due, perché riconosce fra la Parola e il Silenzio un rapporto che è insieme di continuità e di distinzione, una sorta di «eminenza» del Silenzio sulla Parola, in quanto Origine e Destino, e della Parola sul Silenzio, in quanto Verbo della comunicazione e della partecipa- zione della vita divina agli uomini. La continuità fra il Generante e il Generato mostra la reciproca immanenza della Parola e del Silenzio: «Io sono nel Padre e il Padre è in me» (Gv 14,11). La Parola dimora nel Silenzio: essa rinvia alla sua origine e alla sua patria, domandando di essere continuamente trascesa nella direzione delle insondabili profondità di Dio, da cui proviene e da cui è avvolta. Perciò accogliere la Parola significa ascoltare il Silenzio in cui essa dimora e dal quale è eternamente generata. Ma anche il Silenzio dimora nella Parola: il Verbo non è solo avvolto dal Silenzio, ma lo porta anche in sé. La Parola presenta le stigmate del Silenzio! Anche per questo c’è un ineliminabile nascondimento nella rivelazione, di cui sono segno supremo l’oscurità e il silenzio della Croce, l’abbandono del Figlio, in cui l’agonia e la morte della Parola si uniscono all’i- naudito silenzio di Dio: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). Il Cristo abbandonato è la Parola fatta silenzio, il luogo in cui nell’infini- ta lontananza si rivela l’infinita comunione del Verbo col Silenzio divino, il suo farsi uno col Padre nell’obbedienza di amore. Paradossalmente, perciò, proprio il silenzio di Dio, sperimentato nel dolore senza misura dell’abbandono, rivela la comunione del Padre col Figlio, fattosi silenzio nella morte per amore nostro. L’unità, tuttavia, non elimina la distinzione: il Silenzio dell’origine resta altro rispetto al Verbo pronunciato nell’eternità e mandato nella storia; la Parola non è il Silenzio. La distinzione sta proprio nel loro relazionarsi: senza la sua prove- nienza eterna la Parola si ridurrebbe a evento del tempo e non sarebbe avvento

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dell’Eterno; senza la sua venuta nel Verbo il Silenzio resterebbe muto e inacces- sibile. Il Verbo sta dunque fra due Silenzi, quello dell’Origine e quello della Destinazione, il Padre e lo Spirito Santo, gli altissima Silentia Dei. La rivelazione è l’avvento della Parola, che procede dal Silenzio e porta in sé il Silenzio, a esso schiudendo: presenza che rinvia all’assenza, e assenza che dà profondità e spes- sore eterno alla presenza. L’obbedienza della fede alla Parola si apre così sui sen- tieri inesauribili del divino Silenzio, ai quali conduce solo Colui che dal Silenzio procede, «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6).10 La teologia come teoria critica della Parola rivelata apre in tal modo la ragione umana di cui si serve al Miste- ro divino che l’avvolge: lungi dall’escludersi reciprocamente o dal confondersi, fede e ragione mostrano la loro complementarità dialettica precisamente nell’e- sercizio della conoscenza della fede, obbediente alla rivelazione divina. Appesa alla Parola, obbediente a essa, in ascolto del divino Silenzio, la teologia non è alternativa all’interrogazione della ragione, ma – stimolata da essa – la apre ai sen- tieri abissali del Mistero, silenzioso e raccolto, davanti a cui sta appunto – aperto e interrogativo – lo «stupore della ragione» (F. Schelling).

7. ECCLESIA CREATURA VERBI: LA PAROLA NELLA CHIESA

L’ascolto della Parola e del Silenzio di Dio, cui apre la dialettica della rive- lazione e l’accoglienza della fede, non si compie nella solitudine dell’io, ma nella comunione del noi, nell’unità della Chiesa suscitata dalla Parola e continuamen- te vivificata dallo Spirito: la Chiesa è la casa della Parola, la comunità della sua trasmissione e della sua interpretazione, promossa e garantita dalla guida dei pastori, a cui Dio ha voluto affidare il suo popolo. La lettura fedele della Scrit- tura, perciò, non è opera di navigatori solitari, ma va vissuta nella barca di Pie- tro: accompagnato dalla Chiesa madre, nessun battezzato deve sentirsi indiffe- rente alla parola di Dio; ascoltarla, annunciarla, lasciarsene illuminare per illu- minare gli altri è compito che riguarda tutti, ciascuno secondo il dono ricevuto e la responsabilità che gli è affidata. Tutti nel popolo di Dio sono chiamati a esse- re Chiesa generata dalla Parola (Ecclesia creatura Verbi) e Chiesa che annuncia la Parola (Ecclesia ancilla Verbi)! Colui che attualizzerà la presenza salvifica del Signore Gesù, garantendo attraverso il ministero apostolico della predicazione e la testimonianza dell’intero popolo di Dio la fedele trasmissione ed esegesi della Parola, sarà lo Spirito Santo, memoria potente del Signore, che abilita i discepo- li alla testimonianza: «Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annun- zierà le cose future» (Gv 16,13). Questa permanente attualizzazione del Cristo Gesù nel suo popolo, operata dallo Spirito Santo specialmente attraverso il mini- stero e l’accoglienza della parola di Dio, è ciò che in senso teologico si definisce «Tradizione»: essa non è la semplice trasmissione materiale di quanto fu donato

10 Cf. H.U. VON BALTHASAR, «Parola e silenzio», in ID., Verbum caro, Brescia 1968, 141-162.

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all’inizio agli apostoli, ma la presenza attiva del principio fontale – il Signore Gesù, datore di Spirito Santo – all’intera storia della comunità da lui radunata. La Tradizione è la comunione dello Spirito Santo nella sua dimensione tempo- rale, la continuità da lui stabilita fra l’esperienza della fede apostolica, vissuta nell’originaria comunità dei discepoli, e l’esperienza attuale del Cristo procla- mato nella Chiesa: si potrebbe dire che la Tradizione è la «storia» dello Spirito nella storia della sua Chiesa. In questo senso, la Chiesa non esiste né mai esisterà senza la parola di Dio, ma a sua volta la Parola non ci raggiungerà mai veramente senza la Chiesa: Scriptura sola, numquam sola – la Scrittura nella sua sovrana autorità di Parola fontale e normativa non vivrà mai da sola, ma nella Chiesa e per la Chiesa. E la Chiesa – creatura della Parola – vivrà a sua volta di essa e al suo servizio. Proprio per questo, il testo di Dei verbum 24, dopo aver affermato che «la sacra teologia si basa come su un fondamento perenne sulla parola di Dio scritta, inseparabile dalla sacra Tradizione», aggiunge: «Anche il ministero della parola, cioè la predicazione pastorale, la catechesi e ogni tipo di istruzione cristia- na, nella quale l’omelia liturgica deve avere un posto privilegiato, trova in questa stessa parola della Scrittura un sano nutrimento e un santo vigore». Proviamo a capire come.

8. CONTEMPLATA ALIIS TRADERE: L’ASCOLTO CHE FRUTTIFICA

Il termine ultimo dell’accoglienza della Parola rivelata non è – come si è visto – la Parola stessa, ma attraverso di essa la Persona del Padre, il Dio nasco- sto nel silenzio, resosi accessibile nell’incarnazione del Figlio. È per questo che l’accoglienza della Parola è dinamismo, che deve continuamente trascendersi: se è ascolto del Silenzio, da cui la Parola procede, in cui riposa e a cui rinvia, l’in- sondabile profondità di questo divino Silenzio motiva l’inesauribile ricerca che attraverso il Verbo tende ad andare al di là del Verbo. È su questa via che lo Spi- rito guida i credenti alla verità tutta intera (cf. Gv 16,13), attualizzando la memo- ria del Cristo e insegnando ogni cosa: «Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,26). L’accoglienza della Parola, in quanto ascolto del divino Silenzio in essa nascosto, ha come primo frutto l’uscita da sé verso le profondità di Dio, l’esperienza contemplativa del mistero divino. È come se l’a- more «estatico» di Dio, per il quale egli esce dal silenzio e si comunica nella Parola, suscitasse un amore di risposta, parimenti «estatico», bisognoso di uscire dal chiuso del proprio mondo, per immergersi nei sentieri senza fine del Silenzio, cui conduce l’evento di rivelazione. È per ciò che ascoltare il Silenzio è perma- nere nel santuario dell’adorazione, lasciandosi amare dal Dio silenzioso e attrar- re a lui attraverso l’insostituibile e necessaria mediazione del Verbo: «Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6b); «Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato» (Gv 6,44). La comunicazione della Parola di vita, contenuta nelle «sacre pagine», avviene dunque sotto l’azione

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dello Spirito e nel dinamismo del suo dono: essa obbedisce alla regola del con- templata aliis tradere, dell’agire come frutto di contemplazione amorosa dell’au- tocomunicarsi divino. Si comprende qui la profonda corrispondenza fra il meto- do della lectio divina, così come è attestato nella tradizione spirituale, e la strut- tura dialettico-trinitaria dell’autocomunicazione divina: se la lectio propriamen- te detta scandaglia il senso letterale, e dunque le parole in cui la rivelazione si trasmette, la meditatio va dalle parole alla Parola che Dio indirizza ai suoi, men- tre l’oratio muove dalla Parola del Figlio al divino Silenzio del Padre, nell’azio- ne incessante dello Spirito che grida «Abba», invocazione del Figlio tesa verso il Silenzio del Padre, fino a «nascondersi» con lui in Dio (Col 3,3). La contempla- tio, infine, è l’atto col quale l’orante si lascia restituire dal Dio vivo alle scelte e ai gesti della storia in cui è chiamato a realizzare la propria vocazione e missio- ne. Così la Parola nutre la fede, la teologia e la vita dei credenti, e li rinvigorisce nella comunione della Chiesa madre.

9. LA PAROLA RENDE LIBERI: IL RUOLO DELLA «DECISIONE»

La libera «autodestinazione» di Dio per l’uomo nel dono della rivelazione non forza mai, però, l’accoglienza della creatura: il segno di credibilità non è mai costrizione alla fede. La parola di Dio perciò è veramente accolta solo quando l’a- pertura «implicita» della creatura al Mistero si fa «esplicita» consegna all’Eterno: è qui che si coglie un aspetto decisivo per l’efficacia della predicazione e dell’a- scolto, la decisione della libertà che passa all’assenso, senza il quale non potrà compiersi l’incontro fra l’esodo umano e l’avvento di Dio. Se all’iniziativa divina non corrisponde una consapevole e responsabile «autodestinazione» dell’uomo per il Dio che si rivela, la gratuita «autodestinazione» di Dio per l’uomo cui si rivela resta luce non accolta dalle tenebre, parola cui risponde il silenzio dell’in- differenza o del rifiuto e si fa pietra di scandalo, duro ceppo di condanna. L’a- scolto conduce sulla soglia del Mistero, ma è solo con l’audacia della libertà che ci si affida a esso, per sperimentarne le meraviglie. È qui che, nell’accoglienza della Parola, si inseriscono «la grazia di Dio che previene e soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità» (DV 5: EV 1/877). Si realizza così una convergenza di motivi esterni e di aiuti inte- riori, che rendono la Parola di rivelazione accessibile all’accoglienza della libertà umana, senza togliere a essa il rischio e l’audacia, perché non manchi la gratuità della risposta. La «donazione» di Dio nella sua Parola richiede, insomma, che le corrisponda – in una forma sia pur solo analogica e del tutto asimmetrica, e tut- tavia piena e vera – la «donazione» del cuore dell’uomo all’Eterno. Attraverso la Parola entrata nella storia la creatura umana si schiude al Mistero, verso il quale sospinge l’originaria «destinazione» degli esseri, e ne sperimenta l’inesauribile profondità e bellezza. Accogliere la Parola è «ripeterla» in se stessi, lasciandosi condurre dall’autodonazione di Dio al dono di sé, che è «dire» e «fare» la Parola

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del Signore: «Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascol- tatori, illudendo voi stessi. Perché, se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto allo specchio: appena si è osservato, se ne va, e subito dimentica com’era» (Gc 1,22-24). La «decisione» per il Dio che viene è momento decisivo perché il ministerium Verbi dia frutto nella vita personale e nelle relazioni con gli altri. Frutto dell’ascolto è la pratica della vita, il vissuto della fede e della carità: l’uditore della Parola che non l’ac- colga nel sincero dono di sé resta prigioniero del proprio mondo, chiuso nell’eso- do in cui si rispecchia, non aperto alla novità dell’avvento, che sola compie il mira- colo del nuovo inizio della vita e del mondo. «Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come ascoltatore sme- morato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la felicità nel prati- carla» (Gc 1,25). L’accoglienza operosa della Parola trasforma l’uomo nel profon- do, lo libera nella forza della verità, lo fa discepolo del Signore: «Se rimanete fede- li alla mia parola, sarete davvero miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31s). La riflessione critica sulla Parola, che è la teologia, non rea- lizza il suo compito se non apre all’agire della vita nuova nella carità: solo acco- gliendo la Parola nella verità della donazione di sé a Dio e agli uomini, il discepo- lo si lascia «dire» dal Padre nel Figlio come vivente parola della carità divina rivol- ta all’umile concretezza delle situazioni della storia.

10. LA CONOSCENZA DELLA FEDE COME COGNITIO VESPERTINA

L’accoglienza della Parola prepara e anticipa così nel tempo penultimo l’ultimo tempo, quando le parole scompariranno, accolte nell’unica Parola, abbracciata dal Silenzio della Patria, dove risuonerà infine il cantico nuovo dei redenti dal sangue dell’Agnello: la conoscenza della fede, alimentata da un’au- tentica teologia dalla Scrittura, è e resta cognitio vespertina, conoscenza nella penombra della sera e nella provvisorietà del tempo che passa. La cognitio matu- tina apparterrà a un altro tempo e a un’altra patria, quella che non passerà mai. Verso di essa tende come caparra e anticipazione la teologia nutrita dalla Paro- la venuta nelle parole. Lo esprime bene questo testo di un grande testimone del Novecento teologico, che non poco ispirò il concilio Vaticano II, Karl Rahner:

Allora Tu sarai l’ultima parola, l’unica che rimane e non si dimentica mai. Allora, quando nella morte tutto tacerà e io avrò finito di imparare e di soffrire, comincerà il grande silenzio, entro il quale risuonerai Tu solo, Verbo di eternità in eternità. Allora saranno ammutolite tutte le parole umane; essere e sapere, conoscere e sperimentare saranno divenuti la stessa cosa. Conoscerò come sono conosciuto, intuirò quanto Tu mi avrai già detto da sempre: Te stesso. Nessuna parola umana e nessun concetto starà tra me e Te. Tu stesso sarai l’unica parola di giubilo dell’amore e della vita, che ricol- ma tutti gli spazi dell’anima.11

11 K. RAHNER, Tu sei il silenzio, Brescia 61988, 34s.

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La riflessione nutrita dall’ascolto della Parola e del Silenzio di Dio ha come ultimo frutto la tensione propria della speranza, quell’anticipazione dell’é- schaton nel cuore e nella vita degli uomini che rende il credente testimone del senso della vita e del tempo. La parola della fede obbediente alla Parola della rivelazione è in tal senso profezia e la condizione del teologo – nutrita dall’a- scolto della rivelazione – è anche e propriamente quella del testimone del futu- ro di Dio, colto come orizzonte ultimo di attesa per la vita e per la storia degli uomini. Proprio così, come fa capire un altro, straordinario maestro della fede pensata, s. Agostino, la teologia dalla parola di Dio è al tempo stesso scuola di umiltà ed esercizio di speranza, cammino consapevole e libero dalle parole verso la Parola e per essa e con essa verso l’ultimo Silenzio di Dio: «Quando dunque arriveremo alla Tua presenza, cesseranno queste molte parole, che diciamo senza giungere a Te; Tu resterai, solo, tutto in tutti, e senza fine diremo una sola paro- la, lodandoTi in un unico slancio, divenuti anche noi una sola cosa in Te».12 La teologia fondata sulla sacra Scrittura si protende al suo ultimo orizzonte e alla patria della promessa di Dio, quando il logos umano costruito in obbedienza al Logos divino pronunciato nella storia si tradurrà per sempre nell’hymnos della lode e della gioia rivolto senza fine all’Agnello immolato e risorto per noi.

12 De Trinitate 15,28,51.

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Parte Prima Vangeli e tradizioni

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Il linguaggio neotestamentario della risurrezione CLAUDIO DOGLIO

L’evento pasquale di Gesù fu espresso dai testimoni oculari con l’abituale terminologia giudeo-ellenistica per indicare la risurrezione. Essi compresero che quell’evento coincideva con l’intervento decisivo di Dio che, risuscitando i morti, dà principio a un mondo nuovo; ed è per questo che l’annuncio della risurrezio- ne di Cristo fu l’elemento iniziale e decisivo nella missione apostolica. In tutto il NT rimangono tracce abbondanti di questa primitiva predicazione sulla risurre- zione: secondo l’uso giudaico e la traduzione dei LXX, per parlare di risurrezio- ne la comunità cristiana antica adopera i verbi greci za,w, avni,sthmi e evgei,rw, nelle varie forme delle loro coniugazioni e con alcuni composti e derivati. In questa continuità lessicale, un elemento di novità che merita di essere osservato è l’uso abbondante e costante del sostantivo astratto avna,stasij per indicare la risurre- zione.

1. L’USO DEL SOSTANTIVO avna,stasij

Non esiste termine corrispondente nell’ebraico biblico e solo in modo mar- ginale questa parola greca compare nella versione dei LXX;1 Filone Alessandri- no non la adopera mai e Giuseppe Flavio la impiega raramente, solo in senso profano.

La più antica attestazione di avna,stasij nella lingua greca classica ricorre in Eschilo2 e, con molti significati differenti, è adoperata circa sessanta volte nei vari scritti della letteratura ellenica. Il significato base, dato dalla preposizio- ne/avverbio avna, e dalla radice verbale di i[sthmi, indica un «cambiamento di dire- zione, di posizione o di atteggiamento». Negli autori classici viene quindi ad assu- mere i seguenti significati:

1 È presente nel titolo del Sal 65 (forse aggiunta cristiana) e in Dn 11,20 senza corrispettivo ebrai- co, così come nelle due ricorrenze di 2Mac (7,14; 12,43); in Sof 3,8 e in Lam 3,63 traduce dall’ebraico un infi- nito costrutto di qwm. Il sostantivo e;gersij in due casi rende un infinito costrutto di qwm (Gdc 7,19; Sal 138,2) e una volta non ha corrispondente ebraico (Esd 5,62).

2 «avndro.j dV evpeida.n ai-mV avnaspa,sh| ko,nij / a[pax qano,ntoj( ou;tij evstV avna,stasij – Quando invece la polvere si è intrisa del sangue di un uomo, una volta che sia morto, non c’è ritorno» (Eumenidi 647-648).

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Vangeli e tradizioni

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a) cacciata o distruzione;3 b) insurrezione;4 c) partenza o emigrazione;5 d) innalzamento, di statue o edifici;6 e) il sorgere, in senso comune di chi si alza o si sveglia,7 e in senso religio-

so per indicare il ritorno in vita di un morto.8 Nell’uso linguistico greco del I secolo, dunque, sembra evidente che il ter-

mine avna,stasij non sia un termine né tecnico né religioso per indicare la risurre- zione; il suo significato, molto fluttuante, esprime un generico cambiamento di posizione o di atteggiamento.9

Invece nel NT questa parola compare 42 volte e sempre, tranne un caso, con il significato teologico di risurrezione dai morti. I testi scritti, da soli, non pos- sono spiegare questo uso: la comprensione di tale fenomeno si ha invece inse- rendo le formule letterarie all’interno di un contesto vitale di persone che, aven- do vissuto un’esperienza straordinaria, l’hanno posta al centro del loro linguag- gio e della loro vita. Il linguaggio cristiano della risurrezione si comprende, dun- que, come prodotto della comunità cristiana giudeo-palestinese sulla base della dottrina della risurrezione comunemente diffusa nel giudaismo del I secolo, ma soprattutto in forza dell’incontro trasformante con il Cristo risorto.

Pertanto, il sostantivo avna,stasij, derivato dalla radice verbale di avni,sthmi, assume nel NT il ruolo di termine tecnico per designare sia la credenza giudaica nella risurrezione dei morti sia l’evento pasquale di Gesù; di fronte all’unica ricorrenza di un termine corrispondente, cioè e;gersij, derivato dal verbo evgei,rw e adoperato in Mt 27,53, e dell’analogo composto evxana,stasij, presente in Fil 3,11, si può affermare che avna,stasij è praticamente l’unico modo nominale che la primitiva comunità cristiana di lingua greca ha scelto per designare il fatto della risurrezione.

L’analisi delle ricorrenze neotestamentarie di tale termine ci permette di coglierne il senso e il valore teologico.10 In un solo caso la parola viene adopera- ta come nome d’azione, senza riferimento alla risurrezione dei morti;11 in tutte le altre ricorrenze del vocabolo, esso appare chiaramente inserito nella tradizione

3 ESCHILO, Agamennone 589; DEMOSTENE, Contro Filippo 2,1; DIODORO SICULO 4,37; POLIBIO 2,21,9. 4 ERODOTO 9,106; TUCIDIDE 2,14,2. 5 TUCIDIDE 1,133; DIONE CASSIO 38,31,2. 6 DEMOSTENE, Per l’esenzione a Leptine 72; PLUTARCO, Sulla malignità di Erodoto 873a.

7 SOFOCLE, Filottete 276. 8 SOFOCLE, Elettra 137-138; LUCIANO, Sulla danza 45. 9 Cf. A. OEPKE, «avna,stasij», in GLNT I, 998-1000; E. FASCHER, «Anastasis-Resurrectio-Aufer-

stehung», in ZNW 40(1941), 166-229, in particolare 174-187; S.E. PORTER, «Resurrection, the Greeks and the New Testament», in S.E. PORTER et al. (edd.), Resurrection (JSNT SS 186), Sheffield 1999, 52-81.

10 Le 42 presenze si suddividono in modo uniforme in tutti i settori del NT: Mt 4x, Mc 2x, Lc 6x, Gv 4x, At 11x, Paolo 8x, Eb 3x, 1Pt 2x, Ap 2x.

11 Lc 2,34: nella benedizione di Simeone viene annunciato che Gesù è posto eivj ptw/sin kai. avna,sta- sin pollw/n in Israele. I due sostantivi astratti in -sij indicano le azioni di «cadere» e «alzarsi» e possono essere intesi come sinonimi di rovina e salvezza.

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C. DOGLIO – Il linguaggio neotestamentario della risurrezione

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giudaica che crede nel Dio che risuscita i morti e, in modo speciale, viene appli- cato al caso eccezionale di Gesù.

2. LA RISURREZIONE DEI MORTI

Il riferimento generale alla risurrezione dei morti è un dato di fede ben attestato nel NT (32x). Nei sinottici il termine avna,stasij compare soprattutto nel contesto della disputa di Gesù con i sadducei,12 dove il Maestro sostiene con forza la verità della risurrezione contro coloro che abitualmente nel giudaismo respingevano tale dottrina.13

Giovanni adopera quattro volte il termine in due diverse circostanze: nel discorso che segue la guarigione del paralitico14 e poi nel racconto della riani- mazione di Lazzaro.15 Fra l’altro è importante notare che per due volte il quarto evangelista unisce i termini risurrezione e vita, caratterizzando così il primo tra- mite il secondo.

Negli Atti degli apostoli l’insegnamento della risurrezione è strettamente legato alla persona di Gesù e all’ostilità che l’annuncio cristiano su questo argo- mento ha provocato, da parte dei sadducei e degli intellettuali ellenisti. Contro i predicatori cristiani si ergono soprattutto le autorità religiose di Gerusalemme, per lo più di tendenza sadducea: essi si preoccupano del fatto che i discepoli annuncino «in Gesù la risurrezione dai morti (evn tw/| VIhsou/ th.n avna,stasin th.n evk nekrw/n)» (At 4,2), dal momento che «i sadducei dicono che non c’è risurrezione (avna,stasin)» (At 23,8). Nella sua difesa a Cesarea, davanti al procuratore Felice, Paolo riassume così la sua fede giudeo-cristiana: «Nutro in Dio la speranza, con- divisa pure da costoro, che ci sarà una risurrezione (avna,stasin me,llein e;sesqai) dei giusti e degli ingiusti» (At 24,15); e proprio in questa credenza egli identifica il motivo della sua persecuzione: «A motivo della risurrezione dei morti (peri. avnasta,sewj nekrw/n) io vengo giudicato oggi davanti a voi!» (At 24,21). Anche i dotti pensatori di Atene si oppongono alla dottrina della risurrezione: «Poiché evangelizzava Gesù e la risurrezione (to.n VIhsou/n kai. th.n avna,stasin)» (At 17,18), Paolo viene preso per un predicatore di divinità straniere, ma quando lo sento- no parlare di avna,stasin nekrw/n (At 17,32), lo deridono e non vogliono più ascol- tarlo.

12 Mt 22,23.28.30.31; Mc 12,18.23; Lc 20,27.33.35.36.

13 Un’altra ricorrenza isolata in Luca si colloca in un detto con cui Gesù annuncia la ricompensa escatologica alla generosità «nella risurrezione dei giusti (evn th/| avnasta,sei tw/n dikai,wn)» (Lc 14,14).

14 Gesù annuncia che la propria opera, in continuazione con quella del Padre, segna l’intervento escatologico di Dio nella storia, caratterizzato secondo l’attesa giudaica dalla risurrezione dei morti: «Viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno: quanti fecero il bene per una risurrezione di vita (eivj avna,stasin zwh/j) e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna (eivj avna,stasin kri,sewj)» (Gv 5,29).

15 Marta si fa interprete della fede tradizionale: «So che risorgerà nella risurrezione (evn th/| avnasta,sei) nell’ultimo giorno» (Gv 11,24); ma Gesù le contrappone la novità della sua presenza, che rende attuale ciò che era atteso per la fine dei tempi: «Io sono la risurrezione e la vita (h` avna,stasij kai. h` zwh,)» (Gv 11,25).

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Vangeli e tradizioni

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Nell’epistolario paolino l’espressione avna,stasij nekrw/n ricorre con fre- quenza nel grande discorso sulla risurrezione che l’apostolo svolge scrivendo ai corinzi (1Cor 15,12.13.21.42): di fronte alla mentalità ellenista che trova difficile tale idea, Paolo ribadisce con forza il valore della dottrina, confermata e avvalo- rata dalla risurrezione stessa di Cristo, fondamento di tutta la fede cristiana. A Timoteo ricorda l’errato insegnamento di Imeneo e Fileto, i quali «hanno devia- to dalla verità, dicendo che la risurrezione (th.n avna,stasin) c’è già stata» (2Tm 2,18), riducendola così a un semplice fatto morale e spirituale. Inoltre, la Lettera agli Ebrei parla di avna,stasij nekrw/n secondo l’ottica giudeo-cristiana, conside- randola uno dei punti fondamentali della dottrina (Eb 6,2).16

Infine l’Apocalisse adopera due volte la parola avna,stasij con l’originale qualifica di prima: «Questa è la prima risurrezione (au[th h` avna,stasij h` prw,th)» (Ap 20,5) – afferma l’autore – dopo aver annunciato la vita e il regno di alcuni morti, e proclama beato «colui che ha parte nella prima risurrezione (o` e;cwn me,roj evn th/| avnasta,sei th/| prw,th|)» (Ap 20,6), giacché costui non sarà danneggia- to dalla seconda morte. La novità dell’espressione, rispetto all’uso dell’AT e del NT, è evidente e richiede uno studio a parte per chiarirne l’oscuro significato.17

3. LA RISURREZIONE DI GESÙ CRISTO

Oltre a questo impiego conforme alla tradizione giudaica, il NT adopera nove volte il termine avna,stasij per parlare esplicitamente della risurrezione di Gesù, non come di un nuovo caso di morto che recupera la vita terrena, ma come dell’evento decisivo con cui Dio ha inaugurato i tempi escatologici.

Soprattutto gli Atti adoperano questa terminologia, principalmente in for- mulazioni kerygmatiche che Luca ha derivato probabilmente dall’ambiente pao- lino per presentare il ruolo determinante degli apostoli come testimoni della risurrezione di Cristo. Il compito dell’apostolo, esplicitato nel momento dell’ele- zione di uno che prenda il posto di Giuda, è quello di «essere testimone della sua risurrezione (ma,rtura th/j avnasta,sewj auvtou/)» (At 1,22); e infatti proprio così viene riassunta l’attività apostolica iniziale: «Essi rendevano la testimonianza della risurrezione del Signore (to. martu,rion th/j avnasta,sewj tou/ kuri,ou)» (At 4,33). Nel discorso programmatico Pietro, recando come prove alcuni argomen- ti biblici, parla di Davide come profeta che «previde la risurrezione di Cristo e ne parlò (peri. th/j avnasta,sewj tou/ Cristou/)» (At 2,31); ugualmente Paolo, al capo opposto dell’opera, concludendo la sua difesa di fronte al re Agrippa, afferma che si è compiuto semplicemente quanto i profeti e Mosè dichiararono che dove-

16 Nella carrellata sugli esempi di fede degli antichi l’autore allude anche ai casi delle donne che, grazie all’intervento di Elia ed Eliseo, «riebbero vivi i loro morti in virtù della risurrezione (evx avnasta,sewj)» (Eb 11,35a) e di coloro che si lasciarono torturare a morte nella convinzione «di partecipare a una miglio- re risurrezione (krei,ttonoj avnasta,sewj)» (Eb 11,35b).

17 Cf. C. DOGLIO, Il primogenito dei morti. La risurrezione di Cristo e dei cristiani nell’Apocalisse di Giovanni (Supplementi alla Rivista Biblica 45), EDB, Bologna 2005, 299-322.

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C. DOGLIO – Il linguaggio neotestamentario della risurrezione

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va accadere, «che cioè il Cristo sarebbe morto, e che, primo per risurrezione dei morti (prw/toj evx avnasta,sewj nekrw/n), avrebbe annunziato la luce al popolo e ai pagani» (At 26,23).

Oltre alla trattazione generale di 1Cor, Paolo adopera ancora il termine avna,stasij a proposito di Cristo scrivendo ai romani e ai filippesi. All’inizio della Lettera ai Romani l’apostolo sembra conservare, all’interno del saluto introdut- tivo, un’antica formula kerygmatica sul Cristo, scandita in due momenti: «Nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti (evx avnasta,sewj nekrw/n)» (Rm 1,4). Il secondo momento della vicenda di Cristo, quel- lo decisivo, è determinato dalla risurrezione, che viene partecipata, in modo sacramentale, a coloro che credono in lui: «Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione (kai. th/j avnasta,sewj)» (Rm 6,5). La sorte del Cristo è resa possibile anche per coloro che lo accolgono. Nella Lettera ai Filippesi, inoltre, Paolo esprime tutto il suo desiderio di conoscere il Cristo e «la potenza della sua risurrezione (th.n du,namin th/j avnasta,sewj auvtou/)» (Fil 3,10), «nella speranza di giungere alla risur- rezione dei morti (eivj th.n evxana,stasin th.n evk nekrw/n)» (Fil 3,11).18

Infine, la Prima lettera di Pietro conserva due formulazioni kerygmatiche complete, che mostrano come l’espressione si sia imposta nel linguaggio teologi- co e liturgico della comunità cristiana. La benedizione iniziale ha il tono di una sintesi di storia della salvezza con l’accento sull’evento decisivo: «Sia benedetto Dio [...] egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti (dia. avnasta,sewj VIhsou/ Cristou/ evk nekrw/n), per una speranza viva» (1Pt 1,3). E anche la catechesi sul battesimo trova nella risurrezione di Cristo il proprio fon- damento: «Il battesimo è [...] invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo (diV avnasta,sewj VIhsou/ Cristou/)» (1Pt 3,21).

Nell’Apocalisse invece non troviamo nessuna esplicita menzione della risurrezione di Cristo. Ma l’assenza del sostantivo astratto applicato direttamen- te a Gesù è comune alla maggioranza dei libri neotestamentari; infatti la man- canza del termine avna,stasij non comporta l’assenza della dottrina, soprattutto per il fatto che la tradizione biblica giudaica preferisce usare i verbi che espri- mono l’azione, piuttosto che i nomi dell’azione. La ricerca sui verbi di risurre- zione nel NT conferma tale assunto.

4. I TERMINI DI «RIALZAMENTO-RISVEGLIO»

Secondo l’uso giudaico, gli autori cristiani parlano abitualmente di risurre- zione adoperando in senso metaforico i comuni verbi avni,sthmi e evgei,rw, usando

18 È questo l’unico caso, in tutto il NT, in cui compare il termine composto evxana,stasij, con lo stes- so significato del semplice avna,stasij.

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talvolta con senso forte il verbo za,w e impiegando anche altre espressioni imma- ginifiche per indicare l’esaltazione. Possiamo quindi raccogliere in tre gruppi i modi verbali usati nel NT per esprimere la risurrezione:19

– verbi di rialzamento-risveglio, – verbi di vita-vivificazione, – verbi di esaltazione-glorificazione. Nonostante le differenti etimologie e i diversi significati concreti, di fatto

nell’uso metaforico i verbi avni,sthmi e evgei,rw si corrispondono come sinonimi, per indicare l’azione di svegliarsi e alzarsi. A questi verbi viene spesso aggiunta un’indicazione di provenienza che serve per collegare l’immagine quotidiana alla rappresentazione corrente dell’aldilà: l’espressione evk nekrw/n (dai morti), usata solo nel greco del NT, richiama infatti non solo la condizione di tutti i defunti, paragonati a dormienti, ma anche il loro soggiorno (in ebraico: še’ôl; in greco: a;|dhj), immaginato miticamente come luogo sotterraneo.20 Proprio in base a que- sta immagine il concetto di risurrezione è legato a quello di risveglio (dal sonno della morte) e di risalita (dagli inferi); il verbo avni,sthmi, dunque, assume anche il significato di venir-su dallo še’ôl ed è perciò sostituito talvolta in senso transitivo dal verbo avna,gw (condurre-su, far risalire),21 composto con la stessa preposizione avna, che indica sia il movimento dal basso verso l’alto sia la ripetizione di un gesto.

Nei vari testi, biblici ed extrabiblici, che adoperano questa terminologia di risurrezione si nota spesso la giustapposizione dei due verbi in parallelismo sino- nimico e, nelle traduzioni, il facile passaggio dall’uno all’altro. Anche nel NT si verifica tale fenomeno.22 Un’analisi comparata delle ricorrenze di questi due verbi mostrerà ulteriormente la loro stretta affinità.

Il verbo avni,sthmi ricorre nel NT 108 volte, ma solo in 37 casi ha un valore teologico di risurrezione; negli altri casi conserva il significato comune.23 Lo stes- so vale anche per evgei,rw, con qualche differenza nelle proporzioni, giacché su 143

19 Cf. J. DELORME, «La résurrection de Jésus dans le langage du Nouveau Testament», in H. CAZELLES et al. (edd.), Le langage de la foi dans l’Écriture et dans le monde actuel (LD 72), Paris 1972, 101-182; A. DÍEZ- MACHO, La resurrección de Jesucristo y la del hombre, Madrid 1977, 234-261; A. RODRIGUEZ, «El vocabulario neotestamentario de Resurrección, a la luz del Targum y literatura intertestamentaria», in EstBib 38(1979), 97-113.

20 P. HOFFMANN, Die Toten in Christus. Eine religionsgeschichtliche und exegetische Untersuchung zur paulinischen Eschatologie, Münster 1966, 180-185 («Die neutestamentliche Formel evk nekrw/n»).

21 L’espressione avna,gein evk nekrw/n non si trova nei LXX, ma compare talvolta la formula avna,gein evx a;|dou (min-še’ôl), in genere per rendere dall’ebraico l’hiphil del verbo ‘lh (1Sam 2,6; 28,8.11; Sal 29,4; Tb 13,2; Sap 16,13); nel NT invece è presente in due passi importanti che riguardano proprio la risurrezione di Gesù (Rm 10,7; Eb 13,20). Senso analogo è espresso dalla formula avpo. nekrw/n poreu,esqai di Lc 16,30.

22 Un esempio chiaro lo troviamo in Mc 5,41-42. L’evangelista, narrando un miracolo di risurrezio- ne compiuto da Gesù, riporta anche le precise parole aramaiche pronunciate da lui: «taliqa koum»; quindi traduce l’imperativo di ~wq con il greco e;geire e poi, per mostrare l’effetto della parola di Gesù, afferma che «subito la fanciulla si alzò (avne,sth)»; adoperando l’altro verbo, mostra evidentemente di sentirlo come sino- nimo.

23 La distribuzione delle ricorrenze si può così riassumere: Mt 4x, Mc 17x, Lc 27x, Gv 8x, At 45x, Paolo 5x, Eb 2x, Catt 0x, Ap 0x. Compaiono inoltre due composti dello stesso verbo, mai usati però in senso teologico: evxani,sthmi (3x: Mc 12,19; Lc 20,28; At 15,5) e evpani,sthmi (2x: Mt 10,21; Mc 13,12).

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ricorrenze 86 volte indica il superamento della morte.24 Alla netta preferenza per il sostantivo avna,stasij non fa dunque riscontro un eguale primato del verbo avni,sthmi: evgei,rw infatti è decisamente più adoperato nel NT per parlare della risurrezione. Entrambi questi verbi hanno valore transitivo e intransitivo e, quin- di, anche all’interno delle ricorrenze con senso teologico dobbiamo distinguere queste due possibilità.

5. NEI VANGELI E NEGLI ATTI

I vangeli sinottici adoperano avni,sthmi 47 volte, ma solo 18 volte per signi- ficare la risurrezione e sempre con valore intransitivo.25 Invece evgei,rw ricorre 73 volte con 31 casi di riferimento alla risurrezione e quasi sempre, tranne una volta, con valore intransitivo.26 I contesti narrativi in cui ricorrono questi due verbi sono gli stessi, al punto che in passi paralleli si scambiano facilmente; tali ambiti possono essere ridotti a quattro: detti in cui si parla della risurrezione di qualcu- no,27 racconti di morti risuscitati da Gesù,28 annunci pre-pasquali della sorte che attende il Cristo a Gerusalemme29 e, infine, la proclamazione dell’avvenuta risur- rezione di Gesù stesso.

24 Le presenze di evgei,rw sono così distribuite: Mt 36x, Mc 19x, Lc 18x, Gv 13x, At 12x, Paolo 41x, Eb 1x, Catt 2x, Ap 1x. Alcuni suoi composti non hanno significato di risurrezione: diegei,rw (6x), evpegei,rw (2x); altri invece assumono valore teologico: sunegei,rw (3x: Ef 2,6; Col 2,12; 3,1) e evxegei,rw (2x: Rm 9,17; 1Cor 6,14).

25 Matteo lo usa davvero poco (1x in senso teologico e 3x in senso comune), Marco in modo equili- brato (9x in senso teologico e 8x in senso comune), mentre Luca lo predilige (8x in senso teologico e 19x in senso comune).

26 Matteo dimostra di preferirlo decisamente (15x in senso teologico e 21x in senso comune), Marco si tiene ancora in posizione equilibrata (7x in senso teologico e 12x in senso comune), mentre Luca lo usa chiaramente meno (9x in senso teologico e 9x in senso comune).

27 I detti di Gesù in cui si accenna alla risurrezione riguardano i segni da lui compiuti per indicare la vicinanza del Regno (Mt 11,5 = Lc 7,22: nekroi. evgei,rontai), le opere affidate da compiere ai suoi discepoli (Mt 10,8: nekrou.j evgei,rete), la diversa sorte che in futuro attende la sua generazione incredula e i niniviti (Mt 12,41 = Lc 11,32: avnasth,sontai) e la regina del sud (Mt 12,42 = Lc 11,31: evgerqh,setai); nella disputa coi sad- ducei, inoltre, Gesù prospetta la condizione futura dei risorti (Mc 12,23.25: avnastw/sin; Mc 12,26 = Lc 20,37: evgei,rontai). Nella parabola del povero Lazzaro si parla di un morto che risorge (Lc 16,31: avnasth|/). Altri detti sulla risurrezione riportano opinioni correnti sul conto di Gesù, ritenuto uno degli antichi profeti risorto (Lc 9,8.19: avne,sth) oppure Giovanni Battista tornato dai morti (Mt 14,2 = Mc 6,16 = Lc 9,7: hvge,rqh; Mc 6,14: evgh,gertai).

28 I racconti sinottici di risurrezioni compiute da Gesù sono due, uno di triplice tradizione e uno esclusivo di Luca. Nella narrazione triplice, relativa alla figlia di Giairo, questi verbi compaiono come impe- rativo detto alla ragazza (Mc 5,41 = Lc 8,54: e;geire), e come indicativo aoristo di esecuzione (Mc 5,42 = Lc 8,55: avne,sth; Mt 9,25: hvge,rqh), mentre nel racconto del figlio della vedova di Nain, compare solo il verbo all’imperativo (Lc 7,14: evge,rqhti).

29 I tre annunci della passione di Gesù costituiscono un elemento molto importante e antico della tradizione cristiana: in essi l’accenno alla risurrezione è costante e rimarcato con diverse sfumature lingui- stiche e variazioni redazionali. Nel primo annuncio Matteo si accorda con Luca (Mt 16,21 = Lc 9,22: evger- qh/nai) contro Marco (Mc 8,31: avnasth/nai); nel secondo Luca non ha riferimento alla risurrezione e gli altri due adoperano verbi diversi (Mt 17,23: evgerqh,setai; Mc 9,31: avnasth,setai); nel terzo annuncio infine sono Marco e Luca ad accordarsi (Mc 10,34 = Lc 18,33: avnasth,setai) contro Matteo (Mt 20,19: evgerqh,setai). Dun- que Matteo adopera sempre evgei,rw, Marco sempre avni,sthmi e Luca una volta l’uno e una volta l’altro. Il preannuncio della risurrezione compare ancora nei Vangeli di Matteo e Marco: al termine dell’episodio

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L’annuncio dell’avvenuta risurrezione di Gesù si riduce in tutti e tre i sinot- tici alla formula hvge,rqh, proclamata, con alcuni ritocchi redazionali, dall’angelo apparso alle donne vicino al sepolcro:

Mc 16,6: Mt 28,6: Mt 28,7: Lc 24,6:

hvge,rqh( ouvk e;stin w-de ouvk e;stin w-de\ hvge,rqh ga.r kaqw.j ei=pen hvge,rqh avpo. tw/n nekrw/n ouvk e;stin w-de( avllV hvge,rqh

Luca poi aggiunge un’autentica professione di fede della comunità aposto- lica (Lc 24,34: o;ntwj hvge,rqh o` ku,rioj kai. w;fqh Si,mwni), mentre la finale di Marco introduce il racconto delle apparizioni con una sintetica espressione participiale (Mc 16,9: avnasta,j) e ricorda poi la difficoltà di credere a quelli che lo avevano visto «risorto» (Mc 16,14: evghgerme,non). Matteo inoltre nel racconto della morte di Gesù ha aggiunto una particolare narrazione apocalittica degna di nota:

I sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono (hvge,rqhsan). E uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione (meta. th.n e;gersin auvtou/), entrarono nella città santa e apparvero a molti (Mt 27,52-53).30

Nella varietà letteraria delle formule e delle narrazioni, il costante e comu- ne riferimento al kerygma apostolico è chiaramente evidente.

Nel quarto vangelo i verbi avni,sthmi e evgei,rw compaiono rispettivamente 8 e 13 volte con lo stesso significato e senza particolari preferenze: rispetto ai sinot- tici la frequenza è minore, ma soprattutto va notato che l’uso è quasi sempre in senso teologico e spesso con valore transitivo.31 Caratteristica di Giovanni è la sottolineatura del potere divino che ha Gesù di risuscitare i morti:

Come il Padre risuscita i morti (evgei,rei tou.j nekrou,j) e dà la vita (zw|opoiei/), così anche il Figlio dà la vita (zw|opoiei/) a quelli che vuole (Gv 5,21).

L’espressione giovannea che lega il potere della risurrezione al dono della vita è particolarmente importante, giacché anche in altri contesti ribadisce il ruolo divino di Gesù.32

della trasfigurazione con l’ingiunzione di Gesù a non rivelare nulla finché il Figlio dell’uomo non sia risor- to (Mc 9,9: avnasth|/; Mc 9,10: avnasth/nai; Mt 17,9: evgerqh/|) e durante il cammino verso il Getsemani con la pro- messa di Gesù di precedere i suoi in Galilea dopo essere risorto (Mt 26,32 = Mc 14,28: meta. de. to. evgerqh/nai, me). Luca invece, con atteggiamento retrospettivo, nei racconti delle apparizioni pasquali fa ricordare come fosse già stato annunciato che egli doveva risorgere (Lc 24,7.46: avnasth/nai).

30 Infine ancora Matteo ha premesso al racconto della visita mattutina al sepolcro una scena ironi- camente anticipatrice, in cui i capi giudei ricordano a Pilato l’annuncio di Gesù: «Dopo tre giorni risorgerò» (Mt 27,63: evgei,romai) e temono che i suoi discepoli possano poi dire: «È risuscitato dai morti» (Mt 27,64: hvge,rqh avpo. tw/n nekrw/n).

31 In senso comune è usato evgei,rw in Gv 5,8; 7,52; 11,29; 13,4; 14,31 e avni,sthmi solo in Gv 11,31.

32 Nel tempio di Gerusalemme Gesù afferma che, se i giudei lo abbatteranno, egli in tre giorni lo farà sorgere (Gv 2,19: evgerw/); per accrescere l’effetto il narratore ripete il verbo in forma di domanda sor- presa (Gv 2,20: evgerei/j) e quindi spiega il senso del detto: Gesù parlava del tempio del suo corpo, ma lo capi- rono solo dopo che egli fu risorto (Gv 2,22: hvge,rqh evk nekrw/n). Con lo stesso valore transitivo Giovanni insi- ste nel ricordare che Lazzaro era colui che Gesù aveva fatto risorgere (Gv 12,1.9.17: o]n h;geiren evk nekrw/n);

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Nonostante tale predilezione per il valore transitivo dei verbi di risurre- zione, Giovanni tuttavia non ne ignora l’uso intransitivo.33

Le numerose ricorrenze di questi verbi negli Atti degli apostoli non devo- no trarre in inganno, perché la grande maggioranza di esse ha senso comune. Come nel terzo vangelo, anche negli Atti Luca dimostra di preferire l’uso di avni,sthmi a quello di evgei,rw;34 mentre a differenza del Vangelo, questi due verbi vengono impiegati con valore transitivo, riproducendo probabilmente formule di fede comuni nell’ambiente catechistico apostolico.35 L’uso delle radici ver- bali pare indifferente e Luca, da abile costruttore di testi equilibrati, sembra aver ripartito in modo eguale le ricorrenze delle due formule kerygmatiche principali.36 All’uso comune nel giudaismo invece possono avvicinarsi le altre ricorrenze.37

6. NELLA LETTERATURA PAOLINA

Nel caso di Paolo il confronto fra l’uso dei due verbi è decisamente spro- porzionato.38 Gli unici due casi in cui Paolo adopera il verbo avni,sthmi per parla- re di risurrezione si trovano nel suo scritto più antico, la Prima lettera ai Tessa- lonicesi;39 per il resto, invece, l’apostolo per parlare di risurrezione si serve del verbo evgei,rw, sia con valore transitivo sia con valore intransitivo. L’evento pasquale è ricordato due volte con la formula intransitiva in aoristo passivo (Cristo.j hvge,rqh: Rm 4,25; 6,4); ma a Paolo interessa soprattutto il fatto che Cri- sto sia ora il Risorto e per questo lo nomina più volte con il participio sostanti- vato (o` evgerqei,j: Rm 6,9; 7,4; 8,34; 2Cor 5,15). Per lo stesso motivo, nella ricca catechesi sulla risurrezione rivolta ai corinzi, Paolo ripete per sette volte l’e-

con altra radice verbale, ma non con altro significato, Gesù proclama per ben 4x, nel discorso sul pane di vita, che egli farà risorgere il suo discepolo nell’ultimo giorno (Gv 6,39.40.44.54: avnasth,sw auvto,n).

33 A Marta Gesù garantisce che il fratello risorgerà (Gv 11,23: avnasth,setai) ed ella conferma di cre- dere in questo (Gv 11,24: avnasth,setai); dopo la visita al sepolcro vuoto l’evangelista nota che i discepoli non avevano ancora compreso la necessità della risurrezione (Gv 20,9: dei/ auvto.n evk nekrw/n avnasth/nai) e, infine, concludendo i racconti delle apparizioni, annota che esse avvennero «essendo egli risorto dai morti» (Gv 21,14: evgerqei.j evk nekrw/n).

34 Negli Atti avni,sthmi ricorre 45x, ma solo in 10 casi con senso teologico, mentre evgei,rw è presente 12x e in 7 casi riguarda la risurrezione.

35 Gli Atti conoscono tuttavia anche la forma intransitiva nelle formule con l’infinito aoristo, elabo- rate dall’autore stesso: la adopera Pietro parlando a Cornelio (At 10,41: meta. to. avnasth/nai auvto.n evk nekrw/n) e anche Paolo nella prima catechesi a Tessalonica (At 17,3: avnasth/nai evk nekrw/n).

36 Dodici volte ricorre l’espressione in cui si afferma che Dio «risuscitò Gesù dai morti»: sei volte con il verbo avni,sthmi (At 2,24.32; 3,26; 13,33.34; 17,31) e altre sei volte con evgei,rw (At 3,15; 4,10; 5,30; 10,40; 13,30.37).

37 «Dio risuscita i morti» (At 26,8: o` qeo.j nekrou.j evgei,rei); così pure l’imperativo rivolto da Pietro a una donna morta (At 9,40: avna,sthqi) e poi il gesto con cui la fa alzare (At 9,41: avne,sthsen auvth,n).

38 Alle 5 ricorrenze di avni,sthmi, di cui solo 2 con valore teologico, si contrappongono le 41 presenze di evgei,rw, in 38 casi con riferimento alla risurrezione; a esse bisogna aggiungere l’uso teologico dei compo- sti evxegei,rw (1x) e sunegei,rw (3x).

39 Dapprima l’apostolo riporta una formula kerygmatica: «Noi crediamo che Gesù morì e risuscitò (VIhsou/j avpe,qanen kai. avne,sth)» (1Ts 4,14); e su tale affermazione fonda l’insegnamento che anche i morti in Cristo risorgeranno (1Ts 4,16: avnasth,sontai).

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spressione Cristo.j evgh,gertai (1Cor 15,4.12.13.14.16.17.20),40 sottolineando con l’uso del perfetto il valore permanentemente attuale del suo stato; così in quello che pare il suo testamento spirituale ricorre la formula sintetica: VIhsou/n Cristo.n evghgerme,non evk nekrw/n (2Tm 2,8).

Un altro modo abituale di Paolo per evocare la risurrezione di Gesù Cri- sto si avvicina alle formule transitive presenti negli Atti: con queste l’apostolo attira l’attenzione su Dio come il responsabile attivo della nuova esistenza del Cristo.41 In forza di questa fede Paolo può affermare che anche noi saremo oggetto dell’azione di Dio che risuscita: kai. h`ma/j su.n VIhsou/ evgerei/ (2Cor 4,14).42 La tradizione paolina poi ha voluto precisare che già nel presente, in modo sacra- mentale attraverso il battesimo, i discepoli partecipano alla risurrezione di Cri- sto e per esprimere tale idea viene introdotto il verbo composto sunegei,rw:43 in contesto battesimale, dunque, il linguaggio tecnico della risurrezione subisce una rilevante variazione, perché esso è impiegato in senso metaforico sacramentale.44

Nei rimanenti libri del NT i verbi di risurrezione hanno scarso rilievo.45 Solo la Prima lettera di Pietro, nonostante l’esiguità delle ricorrenze, conserva tracce significative della predicazione antica sulla risurrezione:46 l’espressione adoperata infatti riprende in modo evidente le formule transitive presenti negli Atti e in Paolo, aggiungendo anche l’immagine dell’esaltazione, in modo da pre- sentare l’evento pasquale di Cristo come l’intervento glorificante di Dio.

7. UNO SGUARDO SINTETICO

Nell’ambito dunque di questo vocabolario l’annuncio della risurrezione di Cristo si presenta con alcune sfumature dovute alla scelta del verbo, dell’uso

40 Sulla base di questa certezza, l’apostolo fonda la dottrina della risurrezione dei morti, concen- trando tutte le ricorrenze di questo uso in 1Cor 15 (evgei,rontai: vv. 15.16.29.32.35; evgei,retai: vv. 42.43.44; evgerqh,sontai: v. 52).

41 Paolo propone in questi casi una formula tradizionale di fede (Rm 10,9: o` qeo.j auvto.n h;geiren evk nekrw/n; 1Cor 15,15: h;geiren to.n Cristo,n). Perciò fa spesso riferimento a Dio come a Colui che ha risuscita- to Gesù dai morti (o` evgei,raj VIhsou/n evk nekrw/n): Rm 4,24; 8,11; 1Cor 6,14; 15,15; 2Cor 4,14; Gal 1,1; Ef 1,20; Col 2,12; 1Tm 1,10.

42 Un’affermazione simile compare anche in 1Cor 6,14 con il verbo evxegei,rw, mentre in senso più generale Dio è presentato come Colui che risuscita i morti (2Cor 1,9).

43 «Dio ci ha fatto con-risorgere e con-sedere (sunh,geiren kai. suneka,qisen) nei cieli in Cristo» (Ef 2,6); «Con-sepolti con lui (suntafe,ntej auvtw/|) nel battesimo, in lui anche siete con-risorti (sunhge,rqhte)» (Col 2,12); «Se siete con-risorti con Cristo (sunhge,rqhte tw/| Cristw/|)...» (Col 3,1).

44 Proprio nella liturgia del battesimo ha origine la singolare formula «Per questo sta scritto: “Sve- gliati (e;geire), o tu che dormi; risorgi dai morti (avna,sta evk tw/n nekrw/n) e Cristo ti illuminerà”» (Ef 5,14).

45 La Lettera agli Ebrei adopera avni,sthmi solo quando riflette sull’annuncio biblico di un sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek (Eb 7,11.15) e impiega una volta sola evgei,rw, nella rassegna degli antichi esempi di fede, laddove attribuisce ad Abramo la convinzione, diffusa nel giudaismo, che Dio sia «capace anche di risuscitare dai morti (evk nekrw/n evgei,rein)» (Eb 11,19). La Lettera di Giacomo ignora il linguaggio della risurrezione e l’unica ricorrenza di evgei,rw indica una possibile guarigione del malato (Gc 5,15).

46 In un passaggio di forte colorito innico celebrativo, presentando il ruolo redentivo del Cristo, l’au- tore ricorda che «Dio lo ha risuscitato dai morti (qeo.n to.n evgei,ranta auvto.n evk nekrw/n) e gli ha dato gloria» (1Pt 1,21).

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transitivo o intransitivo e del tempo verbale. In sintesi possiamo ridurre a cinque le formule presenti nel NT per dire la risurrezione di Cristo:

1) avni,sthmi, 2) avni,sthmi,

3) evgei,rw, 4) evgei,rw, 5) evgei,rw,

intransitivo, aoristo: transitivo, aoristo:

intransitivo, aoristo: intransitivo, perfetto: transitivo, aoristo:

VIhsou/j avpe,qanen kai. avne,sth47 o` qeo.j avne,sthsen VIhsou/n evk nekrw/n48 hvge,rqh (evk nekrw/n)49

Cristo.j evgh,gertai50 o` qeo.j h;geiren VIhsou/n evk nekrw/n51

L’analisi di tutte le ricorrenze ci ha mostrato che i verbi di risveglio-rialza- mento per parlare di risurrezione sono termini ambigui e imprecisi. L’uso cor- rente nel mondo greco non era affatto favorevole al significato teologico e l’im- piego abituale nel giudaismo non corrispondeva bene alla nuova situazione che i cristiani dovevano annunciare.

Innanzitutto il passaggio dal senso comune al senso teologico lascia sem- pre un certo margine di ambiguità: per un greco del I secolo infatti l’espressione avna,stasij Cristou/ non era affatto chiara e l’affermazione che «Cristo si è sve- gliato o si è alzato» poteva avere semplicemente un significato fisico e banale. La compresenza dell’uso in senso teologico e in senso comune in tutti gli ambiti del NT rivela che tale terminologia non era affatto esclusiva e univoca, come invece accade nelle nostre lingue moderne per parole come risurrezione e risorgere. Di fronte ad alcuni passi l’esegesi si trova in gravi difficoltà, perché non riesce a discernere quale dei due sensi sia inteso dall’autore: quando, ad esempio, viene citato a proposito di Gesù il detto di Dt 18,15 in cui Mosè annuncia che Dio susciterà un altro profeta e la forma causativa del verbo qwm viene tradotta con avnasth,sei (At 3,22; 7,37), questa terminologia si deve intendere in riferimento alla risurrezione oppure no? Il fatto che siano possibili entrambe le interpreta- zioni e che nessuna delle due sia facilmente dimostrabile, indica un tipo di ambi- guità che questo modo di esprimersi presentava.

Un correttivo importante e necessario per evitare il senso banale si rivela l’aggiunta dell’elemento formulare evk ne,krw/n: con questo particolare si presenta il punto di provenienza del risorto e si precisa così l’ambito di significato. Se colui che si alza o si sveglia viene fuori dal mondo dei morti, diventa evidente l’uso tra- slato della terminologia.52 In questo senso però il linguaggio cristiano è molto

47 1Ts 4,14; cf. Mc 16,9; Gv 20,9; At 10,41; 17,3. 48 At 2,24.32; 3,26; 13,33.34; 17,31. 49 Mt 27,64; 28,6.7; Mc 16,6; Lc 24,6.34; Gv 2,22; 21,14; Rm 4,25; 6,4.9; 7,4; 8,34; 2Cor 5,15. 50 1Cor 15,4.12.13.14.16.17.20; 2Tm 2,8. 51 At 3,15; 4,10; 5,30; 10,40; 13,30.37; Rm 4,24; 8,11; 10,9; 1Cor 6,14; 15,15; 2Cor 4,14; Gal 1,1; Ef 1,20;

1Ts 1,10; Col 2,12; 1Tm 1,10; 1Pt 1,21. 52 Nel NT l’espressione verbale risuscitare dai morti ricorre 44x (Mt 4x; Mc 4x; Lc 4x; Gv 6x; At 7x;

Paolo 16x; Eb 2x; Catt 1x; Ap 0x) con queste varianti: evgei,rein avpo. nekrw/n (3x); evgei,rein evk nekrw/n (27x); avni-

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simile all’uso del giudaismo, che attendeva la risurrezione dei morti come even- to escatologico e universale, e proprio per tale somiglianza si evidenzia un altro tipo di ambiguità.

Infatti il vocabolario di risurrezione basato su avni,sthmi e evgei,rw contiene riferimenti diversi e tali verbi non sono in grado di chiarirne le differenze: con essi si descrivono episodi di rivitalizzazione di un cadavere, si sviluppano ragio- namenti sulla sorte futura di tutti i morti e si presenta anche l’evento pasquale di Gesù Cristo. La stessa terminologia esprime dunque tre differenti fenomeni e, senza un’ulteriore spiegazione, la confusione interpretativa è realmente possibi- le.53 Il pericolo più grave di queste formule è quello di confondere l’evento pasquale di Gesù Cristo con uno dei vari episodi in cui un morto torna alla vita terrena di prima: nel NT le due realtà sono indicate con gli stessi termini e in altri modi gli autori hanno sentito l’esigenza di presentare le differenze. Forse proprio per questo i verbi avni,sthmi e evgei,rw non sono i soli a esprimere la risurrezione; la metafora del risveglio e del rialzamento, il linguaggio mitico della risalita dal mondo dei morti non esauriscono i modi di presentare il mistero del supera- mento della morte.

8. I TERMINI DI «VITA-VIVIFICAZIONE»

Un altro modo espressivo parte proprio dal problema della morte e vi oppo- ne il valore della vita, come bene supremo donato di nuovo da Dio e conservato per sempre. Se il linguaggio del risveglio sottolinea di più il fatto determinante che segna il passaggio da una condizione all’altra, il linguaggio della vita evidenzia piuttosto l’obiettivo del passaggio e lo stato raggiunto. Questo tipo di vocabolario, già utilizzato nell’AT ebraico, nella traduzione dei LXX e nella letteratura interte- stamentaria, trova particolare considerazione anche negli scritti del NT.

Il verbo za,w (vivere) è il cuore di questo campo semantico: intorno vi si col- locano numerosi verbi composti e sostantivi derivati.54 Anche in questo caso ci

sta,nai evk nekrw/n (11x); poreu,esqai avpo. nekrw/n (1x); avnagagei/n evk nekrw/n (2x). Invece la formula col sostan- tivo risurrezione dei/dai morti è presente 15x (Mt 1x; Mc 0x; Lc 1x; Gv 0x; At 5x; Paolo 6x; Eb 1x; Catt 1x; Ap 0x): avna,stasij nekrw/n (9x); avna,stasij tw/n nekrw/n (2x); avna,stasij evk nekrw/n (3x); evxana,stasij evk nekrw/n (1x).

53 La figlia di Giairo risuscitò (avne,sth: Mc 5,42; Lc 8,55; hvge,rqh: Mt 9,25) e Lazzaro è colui che Gesù ha risuscitato (o]n h;geiren evk nekrw/n: Gv 12,1); in futuro i morti risorgeranno (avnasth,sontai: 1Ts 4,16; evgerqh,sontai: 1Cor 15,52); ma anche Gesù nel passato è risorto (avne,sth: 1Ts 4,14; hvge,rqh: Mt 28,6-7), ovvero Dio lo ha risuscitato (o]n h;geiren evk nekrw/n: At 3,15).

54 Il verbo za,w compare 140x, così ripartite nel NT: Mt 6x, Mc 3x, Lc 9x, Gv 17x, At 12x, Paolo 59x, Eb 12x, Catt 9x, Ap 13x. I verbi composti sono: avnaza,w (2x in senso morale: Lc 15,24; Rm 7,9; inoltre com- pare 3x come variante e si trova al posto di za,w in Lc 15,32; Rm 14,9; Ap 20,5); sunza,w (2x in senso teologi- co: Rm 6,8; 2Tm 2,11; 1x in senso comune: 2Cor 7,3;); zw|ogone,w (3x in senso comune: Lc 17,33; At 7,19; 1Tm 6,13); zw|opoie,w (11x: Gv 3x, Paolo 7x, 1Pt 1x; 6x indica la risurrezione); sunzwopoie,w (2x in senso teo- logico: Ef 2,5; Col 2,13). Il sostantivo derivato più importante è senz’altro zwh, (vita) che ricorre ben 135x; compare inoltre anche zw/|on (23x), quasi sempre nell’Apocalisse: Eb 1x, 2Pt 1x, Gd 1x, Ap 20x. Le parole legate alla radice di bi,oj, che indicano ugualmente la vita (bio,w( bi,wsij( biwtiko,j), sono usate sempre in senso fisico e terreno, talvolta addirittura con sfumatura di disprezzo; invece non compaiono nel NT il verbo avna-

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troviamo di fronte a una terminologia comune che viene adoperata, in alcuni casi, con senso teologico: alla vita fisica e terrena, sperimentata comunemente, viene aggiunta l’idea di un’altra vita che supera la realtà terrena e l’ostacolo della morte. Inoltre si parla anche di vita in senso morale e spirituale, intendendo la qualità dell’esistenza nelle sue relazioni fondamentali con Dio e gli altri esseri. Tale ambiguità semantica complica l’analisi e rende difficile, talvolta, determina- re l’intento dell’autore. Accanto al verbo vivere anche il termine zwh, (vita)55 è molto frequente nel NT e ha spesso una particolare valenza teologica: solo rara- mente indica la semplice esistenza fisica e terrena, mentre designa per lo più la realtà stessa di Dio e la sua partecipazione all’umanità nell’opera della reden- zione compiuta da Gesù Cristo. Il dono della vita che Dio ha fatto all’uomo nel tempo è destinato a superare la morte, grazie a un nuovo dono divino che si rea- lizza con la risurrezione.

Senza un’analisi dettagliata delle varie ricorrenze, osserviamo in modo sin- tetico come, adoperando il vocabolario della «vita», l’annuncio pasquale cristia- no voglia sottolineare – in contrasto con la situazione di «morte» – che il Cristo è vivo nonostante la morte, oltre la morte. In questo ambito linguistico il keryg- ma neotestamentario è sostanzialmente unitario, pur conoscendo alcune signifi- cative sfumature sintattiche:

1) coordinazione morte-vita: 2) contrasto morte-vita: 3) uso del participio sostantivato:

Cristo.j avpe,qanen kai. e;zhsen56 evstaurw,qh( avlla. zh/|57 o` zw/n58

Queste formule sono molto più rare di quelle che adoperano i verbi di risveglio-rialzamento e si trovano solo in alcuni ambiti letterari: con esse dunque alcuni autori del NT intendono chiarire il senso della risurrezione di Gesù Cri- sto e sottolineare la sua condizione attuale nonché il suo ruolo di presenza atti- va e operante.

Tuttavia anche l’uso del verbo vivere presenta notevoli ambiguità. Indi- cando innanzitutto la vita fisica e terrena, il passaggio al senso teologico com- porta spesso delle incertezze e può produrre degli equivoci; a questo si deve aggiungere lo stato di difficile separazione fra i riferimenti alla vita spirituale e quelli propri della vita escatologica o ultraterrena. Le difficoltà che gli esegeti

bio,w e il sostantivo avnabi,wsij che ricorrono talvolta negli scritti giudaici in tema di risurrezione. Cf. R. BULT- MANN – G. VON RAD – G. BERTRAM, «za,w», in GLNT III, 1365-1474.

55 Le 135 ricorrenze sono così ripartite: Mt 7x, Mc 4x, Lc 5x, Gv 36x, At 8x, Paolo 37x, Eb 2x, Catt 19x, Ap 17x.

56 Rm 14,9; molto simile è la formula di Ap 2,8: o]j evge,neto nekro.j kai. e;zhsen.

57 2Cor 13,4 (evstaurw,qh evx avsqenei,aj( avlla. zh/| evk duna,mewj qeou/); Rm 6,10 (o] ga.r avpe,qanen( th/| a`marti,a| avpe,qanen evfa,pax\ o] de. zh/|( zh/| tw/| qew/|). A queste espressioni si può accostare anche la formula che, adope- rando il verbo zw|opoie,w al passivo, sottolinea piuttosto l’intervento divino ed è presente solo in 1Pt 3,18 (qanatwqei.j me.n sarki,. zwopoihqei.j de. pneu,mati).

58 Eb 7,25; Ap 1,18(bis); cf. Lc 24,5; At 1,3; 1Pt 2,4.

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moderni incontrano nello studio di questi passi, si può presupporre, erano avver- tite anche dai lettori e ascoltatori antichi.

Un altro tipo di ambiguità può essere riscontrato nel riferimento alla visio- ne escatologica generale: infatti, la sottolineatura della vita in contrasto con la morte sembra avvicinarsi al linguaggio ellenistico dell’immortalità, usato già nel libro della Sapienza (cf. Sap 2,23; 3,4.9; 5,15). Nonostante la morte, l’uomo conti- nua a vivere, anzi inizia proprio con la morte la vita vera. In queste formulazio- ni la risurrezione come intervento gratuito di Dio sembra non avere spazio e il riprendere vita dopo la morte sembra un fatto normale, dovuto alla stessa natu- ra umana: una tale terminologia infatti corre il rischio di sostituire l’annuncio della risurrezione con quello della sopravvivenza ultraterrena.59

Inoltre la semplice affermazione «Cristo vive» non indica chiaramente di che vita si tratti ed è soggetta a differenti fraintendimenti. Anche nell’AT, in vari racconti dell’ellenismo e del giudaismo e persino nel NT si parla di rianimazioni di cadaveri con l’uso significativo del verbo za,w:60 è chiaro che questa termino- logia applicata al Cristo può far pensare a un prodigioso ritorno alla vita terrena precedente e ridurre l’evento pasquale a uno di questi fatti. Un altro rischio, simile e contrario, causato da questo tipo di linguaggio è quello di proiettare oltre la morte una continuazione della stessa vita terrena. Ma l’ampia gamma di sfumature che ha il verbo vivere può anche provocare un’interpretazione sem- plicemente morale o affettiva e far credere che il Cristo viva nel ricordo o nel cuore dei suoi discepoli. Anche in questi casi dunque è necessario chiarire in altro modo la reale situazione di Gesù Cristo.

9. LE IMMAGINI DI «ESALTAZIONE»

Gli enunciati della fede pasquale, come si è visto, si basano spesso, in modo esplicito o implicito, su opposizioni di significati: all’esplicito contrasto morte/vita bisogna aggiungere quelli impliciti nelle espressioni di risveglio (sonno/veglia) e di rialzamento (sdraiato/in piedi, mondo dei morti/mondo dei vivi). Tutte queste coppie di termini opposti, legati al vocabolario di risurrezione e di vita, si posso- no ridurre a un solo «asse semantico»61 fondamentale: infatti, nonostante le varie sfumature d’immagine, il contrasto è giocato sempre fra la morte e la vita.62

Ma nel NT, per parlare della risurrezione, si incontra anche un altro tipo di linguaggio che, pur non essendo riconducibile a un vocabolario unitario e preci-

59 In alcuni casi la vicinanza parallela delle due terminologie (cf. Gv 5,21; 11,25; Rm 8,11) sembra motivata proprio dal desiderio di mettere in guardia da questo pericolo e indicare la linea di corretta inter- pretazione.

60 Il morto venuto a contatto con le ossa di Eliseo e;zhsen kai. avne,sth (4Re 13,21 LXX); Elia restituì vivo (zw/nta) alla madre il figlio morto (GIUSEPPE FLAVIO, Ant. 8,327); Pietro presentò viva (zw/san) la defun- ta Tabità (At 9,41).

61 Cf. A.J. GREIMAS, Sémantique structurale, Paris 1966, 18-29. 62 DELORME, «La résurrection de Jésus», 125.

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so, esprime un unico e alternativo asse semantico, basato sul rapporto fra umi- liazione ed esaltazione. Non si può semplicemente parlare di schema spaziale, contrapposto a quello temporale della risurrezione, perché alcune di queste for- mule non contengono l’idea di movimento locale e di spostamento dal basso verso l’alto, bensì sottolineano la nuova condizione ottenuta. A seconda delle varie immagini e del differente vocabolario, le opposizioni possono variare e pre- sentarsi come contrasto fra terra e cielo, basso e alto, carne e spirito, disonore e gloria: ma tutte queste sfumature lessicali si possono facilmente raccogliere intorno a un’unica idea cardine, quella del cambiamento di stato con nuova valo- rizzazione della persona.

Accennando in rapida rassegna le principali immagini di esaltazione che si ritrovano nel NT, riconosciamo un primo ambito simbolico che parla del movi- mento verso Dio e dello spostamento spaziale per entrare nel mondo divino (cf. At 1,10.11; Ef 4,8-10; 1Pt 3,22). Soprattutto Giovanni adopera il linguaggio del «cammino» per parlare della risurrezione di Gesù, presentandola come il movi- mento che, superando l’ostacolo della morte, permette di salire al cielo (Gv 3,13; 6,62; 20,17), cioè al mondo di Dio, assicurando quindi l’incontro filiale con il Padre.63 Il pregio di questo linguaggio è quello di chiarire che risurrezione non vuol dire ritorno alla vita terrena, ma anzi ne comporta un radicale superamen- to: lo spostamento nello spazio simbolico, infatti, segnando il passaggio dalla terra al cielo, vuole indicare un profondo cambiamento di vita. Il Cristo risorto, essendo salito al cielo e avendo raggiunto il Padre, si trova in una nuova condi- zione, differente e superiore rispetto a quella terrena di prima. Non compare, tut- tavia, il ruolo di Dio: tale linguaggio infatti mostra il Padre (o il cielo) come la meta del viaggio, ma non come l’artefice dell’esaltazione. Un chiarimento in que- sto senso è offerto dall’uso del verbo avnalamba,nw, che esprime l’azione con cui un soggetto, che sta in alto, prende un oggetto, che sta in basso, portandolo o ripor- tandolo verso di sé:64 derivata da una formula ellenistica (Sir 48,9; 49,14; 1Mac 2,58) legata alla fine di Elia (2Re 2,1-11), questa espressione è usata nel NT per caratterizzare la risurrezione di Gesù (Mc 16,19; At 1,2.11.22; 1Tm 3,16). In tal modo si vuole presentare l’esaltazione di Gesù come l’intervento con cui Dio prende con sé in cielo colui che fu condannato a morte. Assolutizzando le imma- gini, la risurrezione e l’esaltazione sono state considerate eventi successivi, con il rischio di svuotare l’una e l’altra della propria sostanza.65 Invece, una corretta interpretazione, pur distinguendo le espressioni linguistiche, non distingue gli eventi: pertanto si può affermare che un modo neotestamentario abbastanza

63 La forma più semplice propone un viaggio di andata e ritorno (cf. Gv 14,2.3; 16,7), perché Gesù interpreta la propria imminente morte come un cammino verso Dio Padre (Gv 13,1.3; 14,12.28; 16,28).

64 Il verbo semplice contiene l’idea del prendere e dalla preposizione avna riceve la sfumatura di ripe- tizione e di movimento verso l’alto. In questo assomiglia all’importante verbo avni,sthmi, così come il sostan- tivo avna,-stasij (risurrezione) è simile nella forma al derivato sostantivo avna,-lhmyij (assunzione) che nel NT compare una sola volta in Lc 9,51 con significato importante.

65 F.X. DURRWELL, La risurrezione di Gesù, mistero di salvezza, Roma 1993, 124.

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comune di presentare la risurrezione di Gesù è quello di evocarlo come il movi- mento del crocifisso verso il cielo, ovvero la sua assunzione e il suo ingresso nel mondo stesso di Dio.

Un secondo ambito simbolico evidenzia piuttosto la posizione raggiunta dal Cristo risorto e il nuovo importante ruolo ottenuto. Il linguaggio dell’intro- nizzazione contiene ancora l’idea di movimento, ma esprime soprattutto la nuova posizione assunta: Gesù infatti non si è fermato come tutti nello še’ôl, ma è arrivato fino a Dio ed è asceso al trono. L’atto di assidersi sul trono è segno potente di vittoria e di successo, indizio chiaro del conseguimento di una posi- zione di potere che comporta comando e dominio.66 A questo si aggiunge l’ele- mento simbolico del lato destro, che contiene un significato di prestigio e pre- minenza, di onore e particolare riguardo.67 Invece altre formule mostrano sem- plicemente il grande ruolo ottenuto dal Cristo e la carica prestigiosa da lui rico- perta: un altro modo infatti di presentare la condizione del Risorto è quello di indicarne un titolo glorioso. Primo fra tutti è il titolo di Ku,rioj (Signore): solo con la risurrezione infatti Gesù di Nazaret viene riconosciuto come Figlio di Dio e Signore (cf. At 2,36), e tali espressioni sottintendono l’idea della costituzione di Gesù in una posizione nuova e sommamente autorevole.68 Il Cristo risorto è stato costituito in una posizione assolutamente nuova e la risurrezione quindi coincide con il fatto che Gesù assume la carica più importante.69 In questa linea altri importanti titoli cristologici che vengono attribuiti al Risorto per indicare il ruolo nuovo e decisivo da lui assunto sono: «giudice dei vivi e dei morti»70 e «avrchgo,j».71

Inoltre i verbi esaltare (u`yo,w) e glorificare (doxa,zw) esprimono in modo sin- tetico e tecnico l’intervento divino che ha capovolto la situazione e ha cambiato radicalmente lo stato di una persona. L’opera divina che esalta coloro che si tro- vano in basso72 ha soprattutto una prospettiva escatologica e ultraterrena, come

66 A partire dal logion sinottico (Mt 26,64 // Mc 14,62 // Lc 22,69) che interpreta la morte di Gesù come la venuta gloriosa del figlio dell’uomo, l’espressione iniziale del Sal 109(110),1 è stata frequentemen- te adoperata nel NT in senso cristologico e connessa con la risurrezione del Cristo: Mc 16,19; At 2,30; Ef 1,20; Col 3,1; Eb 1,3; 8,1; 10,12; 12,2; Ap 3,21.

67 Cf. At 7,55.56; Rm 8,34; 1Pt 3,22.

68 In questo senso il titolo di Signore diventa estremamente significativo nelle professioni di fede cri- stologica: 1Cor 12,3; Rm 10,9; Fil 2,11. Inoltre in Ap 11,8 ha una valenza forte per caratterizzare l’identità del crocifisso con il risorto. Cf. L. CERFAUX, «Kyrios», in DBS V, 200-228; W. FOERSTER, «ku,rioj», in GLNT V, 1450-1488.

69 Il verbo che ricorre con una certa insistenza nel NT per esprimere questa designazione ufficiale del Cristo è o`ri,zw: i passi più importanti sono Rm 1,3b-4; At 10,42; 17,31; cf. anche Lc 22,22; At 2,23; 17,26; Eb 4,7.

70 In tale forma compare solo in At 10,42; ma si ritrova in altri passi la convinzione che il Cristo Signore abbia il compito di giudice escatologico (Rm 14,9; 2Tm 4,1.8; Gc 5,9; 1Pt 4,5). Fin dalla più antica letteratura cristiana l’immagine viene ripresa dai padri (cf. Ep. Barnaba 7,2; POLICARPO, Fil 2,1; 2Clem 1,1) e diventa espressione tecnica fino a entrare nei Simboli della fede.

71 La formulazione è esplicita in At 5,31: il termine abbastanza raro indica nell’ellenismo l’eroe fon- datore e protettore di una città con la caratteristica di essere l’iniziatore e la guida, colui che apre il cam- mino e porta altri con sé (cf. anche At 3,13; Eb 2,10; 12,2). Analogo è il titolo di a;rcwn (Ap 1,5).

72 Mt 11,23 // Lc 10,15; Mt 23,12 // Lc 14,11 // Lc 18,14; 1,52; Gc 4,10; 1Pt 5,6.

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il giudizio definitivo di Dio sulla storia: in questo senso si applica propriamente alla risurrezione di Gesù, intesa come l’intervento di Dio che ha esaltato il suo servo obbediente.73 Un’ulteriore sfumatura si ha attraverso il concetto biblico di «gloria» (kabôd-do,xa), che viene a designare la stessa essenza divina nella sua manifestazione potente e operante, nonché il riconoscimento umano della realtà divina. La novità neotestamentaria sta nell’attribuire anche al Cristo ciò che è tipico di Dio e questo si verifica proprio a proposito della risurrezione: la condi- zione raggiunta dal Risorto comporta la condivisione della stessa vita divina e la partecipazione al suo essere.74 La gloria dunque come realtà di Dio è la caratte- ristica del Cristo dopo la Pasqua: la gloria nasce dalla sua morte e l’opera com- piuta da Gesù rivela la gloria di Dio. Con questo tipo di espressioni la comunità cristiana primitiva ha presentato un altro aspetto del mistero pasquale di Cristo, arrivando a parlare di partecipazione alla stessa divinità. Ed è proprio questa la prospettiva teologica con cui l’Apocalisse parla del Cristo risorto: l’Agnello che è stato immolato ha ricevuto la stessa gloria di Dio e condivide con lui il trono, l’onore e il governo del mondo (cf. Ap 5,13).

Restano infine alcune formule, particolarmente difficili, in cui il cambia- mento è presentato con il linguaggio teologico che contrappone carne (sa,rx) e spirito (pneu/ma).75 Queste espressioni, liturgiche e bipolari, caratterizzano con terminologia biblica i modi di essere, i livelli o le sfere, in cui si compiono i due eventi di morte e risurrezione; ma il richiamo allo spirito indica pure la forza che ha determinato la risurrezione e anche la potenza acquisita dallo stesso Cri- sto risorto. Secondo Paolo, infatti, è lo Spirito che ha risuscitato Cristo dai morti (cf. Rm 8,11) e, nello stesso tempo, il Cristo risorto in quanto Adamo escatolo- gico è divenuto «spirito datore di vita (pneu/ma zw|opoiou/n)» (1Cor 15,45): fonte egli stesso della vita nuova, è capace di comunicarla a coloro che sono nella carne.

10. CONCLUSIONE

Lo schema comunemente chiamato dell’esaltazione è dunque molto ricco di immagini e di simboli; rispetto alle espressioni più tecniche di risurrezione questo linguaggio è più vago e originale, eppure riesce a presentare in modo più chiaro l’evento unico e fondamentale che ha caratterizzato la morte di Gesù. L’ambiguità delle formule che parlano di risurrezione e di vita viene superata

73 Il testo fondamentale si trova in Fil 2,9 (cf. anche At 2,33; 5,31). In forza dell’ambiguità di questo verbo l’approfondimento teologico giovanneo ha visto nella croce di Gesù contemporaneamente i due aspetti contrastanti di eliminazione e intronizzazione (Gv 3,14; 8,28; 12,32).

74 La risurrezione di Cristo dai morti è operata «dalla gloria del Padre» (Rm 6,4) e ciò significa che Dio «gli ha dato gloria» (1Pt 1,21); infatti il Dio dei padri «ha glorificato il suo servo/figlio Gesù» (At 3,13). Cf. Mt 16,27 // Mc 8,38 // Lc 9,26; 24,26; 1Tm 3,16; Eb 2,9; 5,5. Soprattutto Giovanni adopera il linguaggio della «glorificazione» a proposito della morte di Gesù (ad es. Gv 7,39; 12,16).

75 Tale linguaggio è evidente in due frammenti innici: 1Tm 3,16 e 1Pt 3,18.

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dalle immagini di esaltazione.76 È comunemente riconosciuto che questi diffe- renti schemi vogliono esprimere la stessa azione divina: essi non si contrappon- gono per escludersi a vicenda, ma si integrano e si completano.

La risurrezione mostra un uomo che risale dalla morte, l’esaltazione un uomo che sale al cielo: Dio non risuscita Cristo per esaltarlo in seguito, lo esalta risuscitandolo.77

Se il linguaggio della risurrezione ha il valore di sottolineare l’identità del risorto con il Gesù terreno, le immagini di esaltazione aggiungono il pregio di mostrare la novità grandiosa che si è venuta a creare nella sua vita. Il Cristo risorto infatti è entrato in una condizione assolutamente nuova e ha inaugurato il suo ruolo glorioso che esercita sul mondo intero. Il concetto di gloria, nella sua complessità semantica, può offrirsi come cifra sintetica per indicare la condizio- ne del risorto:

Nella glorificazione convergono la risurrezione di Gesù in seguito alla sua morte e l’e- saltazione in seguito alla sua umiliazione.78

Infatti solo

il concetto di glorificazione distingue nettamente la risurrezione di Gesù da qualsiasi altra possibile risurrezione.79

Così nell’Apocalisse di Giovanni la terminologia della risurrezione pro- priamente non compare, mentre è rilevante il concetto di vita, ed è soprattutto caratteristico l’immenso patrimonio di immagini e simboli legati allo schema del- l’esaltazione e della gloria. Il Cristo glorioso dunque è l’oggetto principale della rivelazione definitiva di Dio, che mostra in lui il Vivente, l’uomo glorificato che resta in stretto legame con l’umanità, essendo capace di rendere partecipi i suoi discepoli della sua stessa vittoria e disposto a offrire loro di condividere con lui il trono stesso del Padre.

76 X. LÉON-DUFOUR, Risurrezione di Gesù e messaggio pasquale (Parola di Dio 7), Cinisello Balsamo 1987, 78.

77 DURRWELL, La risurrezione di Gesù, 94-95.

78 J. CABA, Cristo, mia speranza, è risorto. Studio esegetico dei «vangeli» pasquali (Parola di Dio 8), Cinisello Balsamo 1988, 369.

79 R. PENNA, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria, 1: Gli inizi, Cinisello Balsamo 1996, 194.

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È proprio impossibile scrivere una storia di Gesù?

È veramente impossibile scrivere una storia di Gesù? Non una vita di Gesù, che anche A. Harnack, il più grande esponente della teologia liberale che alla realizzazione di questo compito aveva dedicato la maggior parte dei suoi sforzi, riteneva impresa impossibile (vita Jesu scribi nequit), per l’evidente man- canza, sottolineata già prima di lui da M. Kähler, e ribadita con più forza in seguito da R. Bultmann, di fonti di carattere biografico (i vangeli non sono vite di Gesù), ma una storia, e più esattamente anzi un rapido schizzo storico (come quello famoso che fece a suo tempo H.J. Holtzmann), della sua breve vicenda pubblica (nascita e infanzia sono infatti escluse da questo schizzo)? Di norma anche questo viene ritenuto impossibile dagli studiosi, per una ragione molto semplice e apparentemente indiscutibile: la povertà estrema, e più ancora la natura particolare, delle nostre fonti al riguardo. È vero infatti che conosciamo abbastanza bene le condizioni politiche e religiose della Palestina al tempo di Gesù. Alle opere di Flavio Giuseppe, che restano il documento essenziale per la conoscenza del periodo, si sono aggiunti nel secolo scorso i manoscritti di Qum- ran, che hanno consentito di riempire il vuoto di fonti della storia di Israele per il tempo cosiddetto intertestamentario. Ma sono le fonti su Gesù che creano pro- blemi. La tradizione evangelica canonica, interamente determinata da interessi dogmatici, non storici, né tanto meno biografici, non consente di disegnare le coordinate temporali e spaziali necessarie per fare della vicenda di Gesù una esposizione storica. W. Wrede e K.L. Schmidt hanno distrutto per sempre questa possibilità. Il racconto di Marco non poggia su una reale conoscenza della vicen- da storica di Gesù. E la cornice cronologica e geografica del suo racconto è lar- gamente artificiale. Solo per gli ultimi giorni a Gerusalemme si può tentare sulla base dei vangeli canonici un minimo di ricostruzione storica. E i vangeli apocri- fi non offrono quasi nessuna notizia utile per questa ricostruzione. Benché alcu- ni studiosi ritengano di poter ritrovare in questi vangeli tradizioni e informazio- ni storicamente attendibili, la maggior parte è convinta che ci sia ben poco in essi da utilizzare a questo scopo. La ricerca sul Gesù storico, anche l’attuale cosid- detta terza ricerca che si presenta come squisitamente storica, non teologica, non ritiene infatti quasi mai di poter fare la storia di Gesù. Si limita a presenta- re i vari aspetti della sua personalità (così per esempio G. Theissen: il Gesù cari- smatico, il Gesù profeta, il Gesù guaritore, il Gesù poeta, il Gesù maestro, il

GIORGIO JOSSA

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Gesù fondatore di un culto, il Gesù martire) o le sue prese di posizione nei con- fronti dei diversi aspetti della religiosità del tempo (così per esempio E.P. San- ders e J.P. Meier: Gesù e il Regno, Gesù e la Legge, Gesù e i miracoli, Gesù e il tempio), senza alcuna preoccupazione di inserire quegli aspetti e queste prese di posizione nello sviluppo storico della sua azione e predicazione (e rinunciando quindi anche a darne un’interpretazione complessiva). J.P. Meier e J.D.G. Dunn si preoccupano anzi di escludere esplicitamente questa possibilità.1 Anche a voler accogliere l’ipotesi delle due fonti (il Vangelo di Marco e la fonte Q) per la soluzione della questione sinottica o a voler attribuire valore storico ad alcu- ni vangeli apocrifi (soprattutto il Vangelo di Tommaso), come è oggi opinione prevalente tra gli studiosi, i testi in nostro possesso si presentano con una dimen- sione narrativa così povera e frammentaria e con un carattere dogmatico così evidente che sembra proprio impossibile, anche partendo da quelle fonti, scrive- re una storia di Gesù. Ma una domanda sembra imporsi in maniera abbastanza naturale, almeno a chi sia storico, e non esegeta e teologo, di professione: non c’è paradossalmente (data l’impostazione volutamente storiografica della ricerca attuale) in questa posizione un’ultima resistenza a inserire totalmente Gesù nella storia, e un residuo quindi inconsapevole di impostazione dogmatica? Non si rischia infatti in questo modo di continuare a dare l’impressione che Gesù sia un personaggio fuori del tempo, come volevano in fondo i due grandi storici della teologia liberale J. Wellhausen e A. Harnack, e come hanno sostanzial- mente ripetuto tutti i migliori studiosi della seconda ricerca? Non si mostra insomma una sostanziale carenza di senso storico? Perché ci sono nei vangeli dei punti di svolta così evidenti e significativi (il distacco di Gesù da Giovanni, la decisione di salire a Gerusalemme, l’accenno all’eventualità della morte, il rife- rimento al Figlio dell’uomo) che è impossibile per lo storico non chiedersi se essi siano soltanto una costruzione dei loro autori o abbiano invece qualche fonda- mento nella vicenda storica di Gesù. E non è quindi quest’orientamento in con- traddizione con le premesse metodologiche degli attuali studi storici su Gesù, tutti protesi a ricostruire la figura del Gesù ebreo, pienamente inserito nel con- testo dell’epoca? Quando gli autori della prima e della seconda ricerca sottoli- neavano lo scarso legame, o addirittura il radicale contrasto, di Gesù con la tra- dizione giudaica, questa non era infatti se non l’inevitabile conseguenza dei loro presupposti metodologici. Quando per esempio Wellhausen e Harnack, dopo aver riconosciuto, da grandi storici quali erano, il legame della predicazione di Gesù con quella tradizione, aggiungevano contraddittoriamente che a uno sguardo più attento quel legame appariva però insignificante (Wellhausen: «Gesù non era un cristiano ma un giudeo». E tuttavia «si può ritenere il non giu- daico, l’umano, più caratteristico in lui del giudaico»;2 Harnack: «Non si può comprendere la predicazione di Gesù [...] se non lo si considera nell’insieme

1 J.P. MEIER, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, 2: Mentore, messaggio e miracoli, Brescia 2002, 172-173; J.D.G. DUNN, La memoria di Gesù, 1: Fede e Gesù storico, Brescia 2006, 341.

2 J. WELLHAUSEN, Einleitung in die drei ersten Evangelien, Berlin 21911, 102-103.

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delle dottrine giudaiche del suo tempo». E tuttavia «la predicazione di Gesù ci porterà subito, in pochi ampi passaggi, a un’altezza da cui la sua connessione con il giudaismo appare ormai trascurabile, e dove la più parte dei fili che lo legano alla “storia del suo tempo” divengono privi di importanza»3), la contraddizione era facilmente spiegabile. Nasceva dall’esigenza teologica di quegli autori, in evi- dente contrasto con la loro sensibilità storica, di attribuire a Gesù una grande originalità nei confronti del giudaismo (il Gesù «miracolo divino nel suo tempo» di Wellhausen). Un’originalità che doveva essere cercata in quello che la predi- cazione di Gesù aveva di «eternamente valido», perché semplicemente umano, non in quello che appariva «storicamente condizionato», perché intrinsecamen- te giudaico. E quando gli studiosi di scuola bultmanniana affermavano che il Gesù più autentico era quello che si allontanava e si contrapponeva al giudai- smo del tempo e che per riconoscerlo bisognava perciò nell’esame delle fonti fare affidamento soprattutto sul criterio di discontinuità, che ammette l’autenti- cità dei detti di Gesù solo se privi di qualunque parallelo giudaico, anche questo nasceva soltanto dall’esigenza teologica di affermare con ancora più forza l’ori- ginalità di Gesù, che li portava a dare del giudaismo una valutazione intera- mente negativa e a servirsi della storia solo per confermare questa convinzione. La predicazione di Gesù, interamente fondata sull’idea della misericordia pura- mente gratuita di Dio nei confronti dell’uomo, era la più netta antitesi della pre- tesa giudaica (farisaica) di affermazione di sé implicita nel valore salvifico attri- buito all’osservanza della Legge. E dunque è già con Gesù che nasce quella nuova forma religiosa che sarebbe diventato il cristianesimo. Ma se Gesù è un giudeo, e non può essere realmente compreso se non all’interno della tradizione giudaica, come esattamente intuivano gli storici liberali e giustamente afferma la ricerca attuale, allora i rapporti che ha avuto con gli ambienti giudaici del tempo non possono non avere esercitato una diretta influenza su di lui. Il Gesù che ini- zia la sua attività pubblica come discepolo e collaboratore del Battista nel deser- to meridionale della Giudea non può essere semplicemente lo stesso del Gesù che più tardi annuncia in Galilea la venuta imminente del regno di Dio. Il suc- cesso straordinario delle guarigioni dei malati e degli esorcismi dei demoni, in cui appariva sconfitto il potere di Satana, non può d’altra parte non averlo fatto riflettere ulteriormente sul senso della sua missione e sul valore stesso della sua persona. E se Gesù è rimasto fino all’ultimo un giudeo praticante, la critica degli scribi e dei farisei per quello che a essi appariva un suo comportamento poco rigoroso nei confronti dell’osservanza della Legge non può non averlo spinto a chiarire il suo pensiero sul valore della Legge. Così come l’ostilità crescente delle autorità giudaiche nei suoi confronti non può non averlo messo di fronte al problema dell’eventualità di una morte violenta e della necessità quindi di dare una spiegazione a questa morte all’interno della sua missione. So bene che questo è un modo abbastanza inusuale di presentare la vicenda di Gesù. Se non sono molti, credo, coloro che approverebbero la posizione assunta oggi da G.

3 A. HARNACK, L’essenza del cristianesimo, Brescia 1980, 74-75.

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Gaeta che, riprendendo sostanzialmente le obiezioni di Kähler e di Bultmann (ma anche di J. Ratzinger), propone nuovamente di rinunciare alla ricerca sul Gesù storico per dedicarsi soltanto all’interpretazione dei vangeli,4 ben pochi ammetterebbero tuttavia la possibilità di schizzare addirittura una storia di Gesù. È convinzione comune infatti che si ricadrebbe in tal modo nell’illusione liberale di poter tracciare il processo evolutivo del pensiero di Gesù. E tuttavia non si può impedire allo storico di cercare di comprendere in questo modo quel- la vicenda. I vangeli canonici, anche se non possono essere considerati biografie in senso stretto ma sono indubbiamente opere letterarie e dogmatiche,5 si mostrano del resto interessati all’aspetto biografico della storia di Gesù. E il più antico di questi vangeli, il Vangelo di Marco, non sembra avere un carattere dog- matico così accentuato come quelli successivi di Luca (che fornisce comunque indicazioni storiche preziose), e soprattutto di Matteo e di Giovanni (che pure contiene informazioni storiche di notevole valore). In maniera opportuna si è ricordato recentemente che i dati storici fondamentali di questo vangelo sono riconosciuti attendibili da tutti gli studiosi e costituiscono infatti la base per ogni presentazione della figura di Gesù.6 Forse è ancora possibile allora, fatte alcune osservazioni metodologiche preliminari, formulare qualche ipotesi sullo svilup- po della vicenda di Gesù che non appaia manifestamente infondata.

1. LE FONTI E I CRITERI PER UNA RICERCA STORICA SU GESÙ

Tutto, o quasi, dipende dalla valutazione che diamo del Vangelo di Marco come esposizione storica della vicenda di Gesù. La fonte Q, come è noto, se ci tramanda il più ampio materiale sulla predicazione di Gesù, non offre nessuna ricostruzione della sua vicenda storica; e ancora meno lo fa il Vangelo di Tom- maso. E i Vangeli di Luca e di Giovanni, se contengono indicazioni e informa- zioni preziose, non consentono tuttavia una ricomposizione del quadro generale di quella vicenda). Riconosciuto il Vangelo di Marco come il vangelo più antico, che per primo ha tentato un’interpretazione storica della vicenda di Gesù che è servita da modello agli altri due sinottici, è a esso che ci si deve necessariamente rivolgere per quella ricostruzione. Anche W. Wrede era di questo parere:

Se questa tesi [che Marco è alla base degli altri due sinottici] è corretta, e se il quarto vangelo deve restare fuori discussione in quanto esposizione decisamente tardiva, ricade quasi esclusivamente su Marco l’intero peso della responsabilità per tutti i pro- blemi attinenti al vero e proprio racconto su Gesù, in particolare allo svolgimento e all’evoluzione della sua vita».7

4 G. GAETA, Il «Gesù moderno», Torino 2010.

5 Ma sulle affinità che comunque essi mostrano col genere letterario del bi,oj cf. il bel libro di R.A. BURRIDGE, Che cosa sono i vangeli? Studio comparativo con la biografia greco-romana, Brescia 2008.

6 C. CLIFTON BLACK, «Mark as Historian of God’s Kingdom», in Catholic Biblical Quarterly 71(2009),

64-83. Napoli 1996, 61.

7 W. WREDE, Il segreto messianico nei vangeli. Contributo alla comprensione del Vangelo di Marco,

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Come va valutata dunque l’attendibilità del Vangelo di Marco? Aveva ragione Wrede quando affermava che «gli studi odierni sui vangeli partono quasi tutti dal presupposto che Marco, nello stendere il suo racconto storico, abbia avuto presenti in maniera approssimativamente chiara, anche se non senza lacu- ne, le situazioni reali della vita di Gesù»; ma «quest’ottica e questo procedimento devono essere considerati in linea di principio sbagliati. Bisogna dire apertamen- te: Marco non ha più alcuna visione reale della vita storica di Gesù?»,8 e che in lui la trama dell’esposizione, così com’è, nasce solo quando alle poche indicazioni storiche di carattere generale si aggiungono i più forti elementi di carattere dog- matico?9 Aveva ragione a concludere che «sono questi elementi, e non quelli sto- rici in se stessi, quelli effettivamente dominanti e determinanti, all’interno della narrazione di Marco. Sono essi a conferirgli la sua fisionomia caratteristica. Su di essi si incentra naturalmente l’interesse, a essi si orienta il pensiero dello scritto- re. Perciò resta assodato che in quanto esposizione d’assieme il vangelo non offre più alcuna prospettiva storica sulla vita reale di Gesù. Soltanto residui sbiaditi ne sopravvivono assorbiti in una concezione di fede sovrastorica. In questo senso il Vangelo di Marco appartiene alla storia del dogma»?10 È veramente così? È veramente il Vangelo di Marco una fonte così diversa da tutte le altre fonti sto- riche in nostro possesso da non potere in nessun modo essere presa in conside- razione per una ricostruzione della vicenda di Gesù? O, nonostante il fonda- mento che queste osservazioni indubbiamente hanno, dal testo di Marco (e con l’aiuto comunque degli altri testi, la fonte Q e i Vangeli di Luca e di Giovanni in particolare) è ancora possibile ricavare informazioni attendibili su quelli che sono stati lo svolgimento e l’evoluzione della vicenda storica di Gesù? Sui fatti essenziali di questa vicenda c’è, come ho detto, un accordo sostanziale tra gli stu- diosi. Nessuno dubita seriamente che Gesù sia stato battezzato da Giovanni nel fiume Giordano, abbia annunciato in Galilea la venuta imminente del regno di Dio, abbia frequentato soprattutto ambienti marginali del giudaismo del tempo, abbia compiuto guarigioni ed esorcismi numerosi, abbia discusso l’interpretazio- ne della Legge mosaica, sia venuto a Gerusalemme in occasione di una Pasqua, abbia compiuto un gesto provocatorio nel tempio, abbia consumato un’ultima cena con i discepoli e sia stato condannato a morte da Ponzio Pilato. Può varia- re, e varia ampiamente, l’interpretazione di questi avvenimenti. Ma sulla loro sostanziale attendibilità ci sono pochi dubbi. Lo stesso Wrede, che assumo qui come esempio di una lettura particolarmente acuta e critica di Marco, non aveva difficoltà ad ammetterlo:

Gesù si è presentato in pubblico in qualità di maestro, anzitutto e principalmente in Galilea. Egli è circondato da un gruppo di discepoli, si sposta con loro e li istruisce. Tra di essi alcuni sono particolarmente fidati. A volte si unisce ai discepoli una folla più numerosa. Gesù parla volentieri in parabole. All’insegnamento si affianca l’atti-

8 WREDE, Il segreto messianico nei vangeli, 191. 9 WREDE, Il segreto messianico nei vangeli, 192. 10 WREDE, Il segreto messianico nei vangeli, 193.

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vità taumaturgica. Questa fa scalpore ed egli viene assalito dalla gente. In particola- re, ha a che fare con persone possedute dal demonio. Nei suoi incontri con il popolo non disdegna di entrare in contatto con pubblicani e peccatori. Nei confronti della legge assume un atteggiamento più libero. Si imbatte nell’ostilità dei farisei e del- l’autorità giudaica, che lo spiano e cercano di coglierlo in fallo. Finalmente ci riesco- no, dopo che egli ha raggiunto non solo il territorio della Giudea ma la stessa Geru- salemme. Affronta la passione e viene condannato a morte, con la complicità del- l’autorità romana.11

Il problema è se questi avvenimenti possano essere ordinati in modo tale da trovare un filo che in qualche modo li leghi l’uno all’altro, nel tentativo di stendere un abbozzo (perché solo di un abbozzo ovviamente può trattarsi: anche quello di Holtzmann, che pur riconosceva ben sette stadi della vita di Gesù, occu- pava però solo venti pagine) di vicenda storica. Perché qui ci sono comunque due problemi che vanno tenuti accuratamente distinti, ricordando in particolare la critica di A. Schweitzer alle vite di Gesù liberali per aver legato strettamente l’i- potesi della priorità di Marco di C.H. Weisse con l’idea di un processo evolutivo della coscienza di Gesù. Il primo è se il Vangelo di Marco riveli una precisa strut- tura compositiva; se questa struttura sia grosso modo quella individuata dalla teologia liberale di uno svolgersi del racconto con una progressiva esplicitazione del carattere messianico di Gesù (ricordiamo infatti che secondo Holtzmann «lo stesso ritmo con cui procede la parte esteriore della narrazione guida anche l’in- teriore evoluzione e il progressivo manifestarsi dell’idea messianica»); e se que- sta struttura del racconto corrisponda in maniera sostanzialmente fedele alla vicenda storica di Gesù. Wrede ha contestato radicalmente, e con molto fonda- mento, questa impostazione, sia per le contraddizioni che riteneva di cogliere nel racconto di Marco (ma Wrede non conosceva ancora la storia delle forme e non teneva conto della dipendenza di Marco da fonti, due elementi che avrebbero potuto aiutarlo a riconoscere la struttura del Vangelo di Marco) sia soprattutto per il passaggio metodologicamente scorretto dall’esposizione narrativa di Marco al corso storico degli avvenimenti (la mancata attenzione, oggi invece assolutamente dominante, al momento squisitamente redazionale del lavoro di Marco). E oggi, se alcuni ancora la condividono, molti altri la contestano. Ma c’è un secondo, e diverso, problema, che per il mio scopo è più rilevante di questo: che Marco presenti oppure no questo tipo di struttura, è possibile dal suo rac- conto ricostruire una sequenza credibile di avvenimenti e una evoluzione atten- dibile quindi della vicenda di Gesù, tali da fornircene un quadro complessivo?

11 WREDE, Il segreto messianico nei vangeli, 192. Non molto diversa, anche se ancor più essenziale, è del resto la ricostruzione che fa oggi CLIFTON BLACK, «Mark as Historian of God’s Kingdom», 67-68, che come elementi particolarmente attendibili del Vangelo di Marco elenca i seguenti: «Il legame di Gesù con Giovanni Battista; il compimento da parte di Gesù di atti straordinari di guarigione nei dintorni della Gali- lea; il suo insegnamento in metafore sul “regno di Dio”; il misto confuso di accettazione e rifiuto che generò il suo ministero; momenti chiave del racconto della passione di Marco, in particolare l’attività di disturbo di Gesù nel tempio e qualche collusione giudeo-romana che ha provocato la sua morte a Gerusalemme per crocifissione».

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Non si tratta cioè di chiedersi se l’eventuale struttura del Vangelo di Marco rispecchi fedelmente lo sviluppo degli eventi; se sia legittimo quindi passare immediatamente, come facevano i teologi liberali, dal racconto di Marco alla suc- cessione degli avvenimenti. Ma di chiedersi se, quale che sia la struttura compo- sitiva di Marco, e con l’ausilio ovviamente di altre fonti, è possibile tracciare in maniera attendibile una successione di eventi, e una evoluzione quindi della vicenda di Gesù, che consentano di ricostruirne il quadro complessivo. Una evo- luzione che potrebbe anche aiutare a risolvere certe contraddizioni della tradi- zione evangelica che oggi si spiegano soltanto con l’attività redazionale degli evangelisti; e a ordinare eventualmente in maniera diversa episodi che solo per i suoi scopi kerygmatici la tradizione ha collocato in un determinato contesto cro- nologico e geografico.

Ma su quali basi formulare questa ipotesi? Entra qui in gioco evidente- mente il problema dei criteri di autenticità che vengono adoperati nella ricerca su Gesù. Su quali basi possiamo affermare che determinati elementi del raccon- to di Marco sono storici e non (soltanto) letterari e dogmatici? E su quali basi (che non siano quelle psicologiche così spesso adoperate dai teologi liberali e così duramente contestate da Wrede e da Schweitzer) possiamo completare (e correggere) il suo racconto? Un rapido sguardo alle finalità e ai presupposti metodologici dei tre momenti più caratterizzanti della ricerca storica su Gesù è in proposito estremamente istruttivo. E mostra chiaramente l’insufficienza dei criteri da ognuno di essi adoperati.

La prima ricerca sulla vita di Gesù, quella della cosiddetta scuola liberale del XIX secolo, aveva un intento preciso: mettere da parte il Gesù del dogma e della predicazione ecclesiastica per raggiungere la figura autentica del Gesù sto- rico. Nessuno lo ha detto con maggiore chiarezza di H.J. Holtzmann.

Si tratta semplicemente di chiederci se sia ancora possibile tracciare la figura storica di colui al quale il cristianesimo non solo fa risalire il suo nome e la sua esistenza, ma della cui persona ha fatto altresì il centro della sua peculiare concezione religiosa, e se sia possibile ottenere ciò in un modo che risponda sufficientemente alle esigenze della più progredita scienza storico-critica; inoltre, se sia possibile ricavare, con l’impiego del solo legittimo mezzo di una consapevole critica storica, ciò che questo fondatore della nostra religione fu realmente, ossia l’immagine autentica e fedele della sua essenza; oppure se dobbiamo una volta per tutte rinunziare al raggiungimento di un tale traguardo.12

Il presupposto della ricerca liberale era infatti la contrapposizione dello storico al dogmatico. Il criterio fondamentale da seguire per recuperare la figu- ra storica di Gesù era perciò molto semplice: tutto ciò che nei vangeli canonici appariva espressione di una concezione dogmatica non poteva appartenere alla realtà storica di Gesù ma era frutto della riflessione dell’evangelista. E andava di conseguenza eliminato. Ma è un presupposto del tutto infondato, che nasceva

12 H.J. HOLTZMANN, Die synoptischen Evangelien, Leipzig 1863, 1.

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esclusivamente dal desiderio degli storici liberali di dar vita a una figura di Gesù che non fosse quella dogmatica della predicazione ecclesiastica ma si adattasse invece alla sensibilità religiosa contemporanea. E il presupposto conduceva ine- vitabilmente a conclusioni inaccettabili. Poiché infatti questa sensibilità si orien- tava a una forma di religione puramente etica, in base a questo presupposto gli aspetti profetico-escatologici della predicazione di Gesù venivano o eliminati o radicalmente reinterpretati. «Eternamente valido» era infatti il suo insegnamen- to morale, non la predicazione escatologica, «storicamente condizionata» dal giudaismo contemporaneo. Ricordiamo nuovamente Wellhausen e Harnack: Gesù «non ha nulla in realtà di un entusiasta estatico, e neppure di un profeta»;13 egli «non parlò mai in atteggiamento estatico, e il tono eccitato, profetico, si trova raramente in lui».14 Gesù è stato invece un grande maestro di sapienza, che ha insegnato la più alta moralità. L’uso da parte di Gesù delle categorie giudaiche di messia, figlio dell’uomo e figlio di Dio, non ha perciò valore dogmatico ed escatologico, ma ha il solo scopo di indicare il rapporto del tutto particolare che egli ha col Padre. Ma storico e dogmatico, etico ed escatologico, sono veramente così incompatibili nella figura di Gesù? E una figura di Gesù privata di ogni ele- mento dogmatico ed escatologico risponde veramente alla realtà storica? O la predicazione di Gesù, come avrebbe affermato con la massima forza Schweitzer contro la teologia liberale, conteneva fin dal principio elementi dogmatici ed escatologici? Ciò che nei vangeli è dogmatico deve necessariamente non essere storico, come sosteneva Wrede a proposito in particolare del segreto messiani- co? O dietro un’affermazione dogmatica può esserci anche un fatto storico, come sembra appunto il caso del segreto messianico di Marco?

La «nuova ricerca» sul Gesù storico, quella sostanzialmente della scuola di R. Bultmann, aveva un intento ancora più esplicito di quello della scuola libera- le. Costituita interamente da teologi, non da storici, voleva soprattutto valorizza- re l’originalità, il carattere unico, della predicazione di Gesù. Offriva perciò un quadro assolutamente negativo della spiritualità giudaica al tempo di Gesù. Questa spiritualità si identificava sostanzialmente per essa con l’orientamento farisaico. E l’orientamento farisaico consisteva essenzialmente in una riafferma- zione rigorosa e formale del valore della Legge, mediante il cui adempimento l’uomo si assicurava, con le sue sole forze, la salvezza. Di fronte a questa pre- sunzione umana, che asserviva di fatto l’uomo alle norme della Legge, Gesù avrebbe affermato invece la gratuità assoluta, e interamente liberante, della sal- vezza, intesa come dono di Dio all’uomo indipendentemente dall’osservanza della Legge. Di conseguenza tutto ciò che nella predicazione di Gesù appariva in contrasto con la spiritualità farisaica, così come appunto si credeva che essa fosse (e con gli atteggiamenti della Chiesa successiva, che nelle rigidità di quella spiri- tualità sarebbe spesso nuovamente ricaduta), era considerato autentico. Il crite-

13 WELLHAUSEN, Einleitung in die drei ersten Evangelien, 96. 14 HARNACK, L’essenza del cristianesimo, 87.

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rio principe di autenticità delle parole di Gesù era perciò quello di dissomiglian- za o di discontinuità. Solo ciò che nella predicazione di Gesù appare in contrasto con gli orientamenti del giudaismo contemporaneo e della Chiesa successiva, non potendo essere attribuito a quel giudaismo e a questa Chiesa, è certamente autentico. Ma è facile capire che siamo qui in presenza di un pregiudizio confes- sionale, che suppone a priori la rottura di Gesù col giudaismo, non di un criterio storico, che questa rottura si preoccupi di trovare eventualmente nelle fonti. La prova del resto che determinati detti e fatti di Gesù non abbiano alcun parallelo nel giudaismo a lui contemporaneo è estremamente difficile a darsi, se non addi- rittura impossibile. Non conosciamo il giudaismo in maniera così completa da poter fare con sicurezza un’affermazione simile. E un Gesù così costruito può essere forse affascinante sul piano teologico, per l’originalità che egli mostra nei confronti del giudaismo del tempo, ma, privo com’è di ogni rapporto col conte- sto storico nel quale ha agito, non ha alcuna consistenza storica.

La terza ricerca sul Gesù storico, che si vuole ricerca squisitamente storica, ha perciò capovolto interamente questo orientamento. Per essa Gesù è veramen- te ebreo e solo a partire dal giudaismo può essere veramente compreso. Non quel- lo che in Gesù secondo la tradizione si discosta dal giudaismo, ma quello che appa- re in lui legato al giudaismo, è realmente caratterizzante. Il criterio principe per sta- bilire l’autenticità di detti e fatti di Gesù non può essere quindi quello di disconti- nuità, che valorizza esclusivamente quello che in lui è originale. Il criterio di discontinuità o, come anche si dice, di differenza va sostituito con quello della plau- sibilità, che valorizza invece la coerenza del suo atteggiamento col contesto stori- co nel quale ha vissuto. Ascoltiamo G. Theissen, che ne è il principale sostenitore:

Mentre il criterio della differenza esige una non-derivabilità delle tradizioni di Gesù dal giudaismo, cosa che non può mai essere provata in maniera rigorosa, il criterio della plausibilità rispetto al contesto esige soltanto la prova dell’esistenza di nessi positivi fra la tradizione di Gesù e il contesto giudaico [...]. In essa si esige il contra- rio di ciò che richiedeva il precedente criterio della differenza: quello che non può essere «derivato» dal giudaismo del tempo, verosimilmente non è storico. In altre parole: Gesù può aver detto e fatto soltanto quello che un carismatico giudeo del sec. I avrebbe potuto dire e fare.15

Può sembrare un semplice criterio di buon senso. E apparire perciò molto convincente. Ma in realtà questo criterio ha la stessa unilateralità del preceden- te. Come possiamo essere sicuri che un determinato detto o fatto di Gesù non abbia alcun parallelo nel contesto giudaico del tempo? Non conosciamo così bene il giudaismo del tempo da poterlo affermare mai con sicurezza. E d’altra parte, perché Gesù non avrebbe potuto fare affermazioni che non hanno alcun parallelo nel giudaismo del tempo?16 Era dunque privo di qualunque originalità?

15 G. THEISSEN – A. MERZ, Il Gesù storico. Un manuale, Brescia 42008, 151-152.

16 Anche Theissen in fondo lo ammette: «Beninteso, così operando Gesù può essere finito in con- traddizione con il proprio ambiente. Il giudaismo è pieno di esempi di critica aspra mossa da singole figure

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Non esiste in realtà un criterio privilegiato per garantire l’autenticità di parole e fatti di Gesù. È l’insieme di criteri convergenti che suggerisce alla sen- sibilità dello storico la scelta per o contro l’autenticità.

2. DALLA COMPARSA DI GESÙ IN GALILEA ALLA CONDANNA A MORTE A GERUSALEMME

Il primo elemento che viene in considerazione, e per molti aspetti, ai fini di una ricostruzione storica della vicenda di Gesù, l’elemento decisivo, è il quadro geografico e cronologico del Vangelo di Marco. Ha un valore la sua presentazio- ne della vicenda di Gesù come svoltasi quasi interamente in Galilea, e per un tempo certamente molto breve, o ha ragione Giovanni a collocare gran parte della sua predicazione a Gerusalemme e a farla durare abbastanza più a lungo? Nella prima e nella seconda ricerca era dato semplicemente per scontato quello che per primi F.C. Baur e D.F. Strauss avevano affermato con forza: e cioè che il valore storico dei vangeli sinottici fosse di gran lunga superiore a quello di Gio- vanni. Oggi però, nella terza ricerca, non è più così. Non soltanto si è allargata la documentazione da prendere in considerazione dai vangeli canonici ai vangeli apocrifi, di Tommaso e di Pietro soprattutto, ma anche tra i vangeli canonici non si accetta più quella che è stata polemicamente definita la «tirannia del Gesù sinottico». In particolare vari autori ritengono che il quadro geografico e crono- logico del Vangelo di Giovanni sia più attendibile di quello del Vangelo di Marco. E la ragione più frequentemente addotta per questa convinzione è appunto quel- la appena ricordata di una sua maggiore plausibilità storica.

Questa scelta del quadro geografico e cronologico della vicenda di Gesù non è un aspetto secondario, poco rilevante, dello studio del Gesù storico, ma ha al contrario una grande importanza. Nella ricerca del passato questa importanza era scarsamente avvertita, e ciò ancora una volta si spiega perfettamente con i suoi presupposti. Cercando soprattutto il Gesù diverso, anzi in contrasto, con la spiritualità giudaica del tempo, interessava ben poco a essa collocare con preci- sione la sua predicazione nel contesto storico. Quella predicazione aveva un valore eterno, non condizionato da fattori storici, e si poneva perciò in qualche modo fuori del tempo. È strano invece che la terza ricerca, sempre così attenta a inserire Gesù nel giudaismo dell’epoca, non avverta sufficientemente l’impor- tanza di questa collocazione più precisa nel contesto storico. Eppure bastereb- bero due elementi assolutamente centrali della vicenda di Gesù a mostrarla con evidenza: il rapporto avuto da Gesù con i farisei e le ragioni della sua condanna a morte.

carismatiche e di polemica tra gruppi giudaici». Ma egli aggiunge immediatamente: «Ma tale critica dev’es- sere dimostrabile contestualmente» (THEISSEN – MERZ, Il Gesù storico, 152). Dimostrabile però in che modo? Facendo nuovamente ricorso al contesto storico, come egli sembra suggerire? O mediante il criterio di mol- teplice attestazione, come vorrebbe in particolare J.D. Crossan? O non piuttosto, come io credo, guardando all’orientamento complessivo della predicazione di Gesù?

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G. JOSSA – È proprio impossibile scrivere una storia di Gesù?

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Secondo tutti e quattro i vangeli canonici17 gli avversari principali di Gesù durante la sua predicazione sono stati i farisei. Il ruolo di questi ultimi è natu- ralmente diverso da vangelo a vangelo. La maggior parte degli studiosi è con- vinta per esempio che il Vangelo di Luca abbia nei loro confronti un atteggia- mento meno severo degli altri. In tutti e quattro i vangeli sono comunque i fari- sei gli avversari principali di Gesù. Ma la valutazione precisa di questo dato dei vangeli dipende fortemente da due considerazioni preliminari. La prima, dive- nuta un punto centrale dell’attuale ricerca storica su Gesù, è: i farisei costituiva- no realmente, come dicono i vangeli, il gruppo religioso dominante del giudai- smo del tempo, e il quadro offerto dai vangeli è quindi sostanzialmente credibi- le, oppure questo quadro è pesantemente condizionato dal contesto storico nel quale gli evangelisti scrivevano, che è quello della nascita del movimento rabbi- nico, erede di quello farisaico? In parole più chiare: il ruolo così rilevante dei farisei nella predicazione di Gesù è un dato storico attendibile o sono stati sol- tanto i vangeli a proiettare nella vicenda di Gesù una presenza farisaica che cor- risponde soltanto alla situazione degli evangelisti? Il problema, come è chiaro, è di enorme importanza, perché da esso dipende non soltanto la valutazione del contrasto di Gesù con i farisei, ma anche quella della posizione di Gesù nei con- fronti della Legge. Sono principalmente i farisei, in quanto assertori di una osser- vanza precisa e rigorosa della Legge, a criticare Gesù nei vangeli per il suo com- portamento nei suoi confronti. Se quindi un contrasto di Gesù con i farisei in realtà non c’è stato, anche la critica di Gesù alla Legge ne viene messa in discus- sione. Ma c’è anche una seconda considerazione da fare per valutare quel con- trasto: qualunque sia la sua entità, dove è realmente attendibile una significativa presenza farisaica? C’erano farisei in Galilea, come vuole Marco, o i farisei erano presenti quasi esclusivamente a Gerusalemme? E di conseguenza: quale quadro geografico e cronologico appare più credibile in rapporto a questo problema: quello di Marco o quello di Giovanni? Recentemente è stato soprattutto J.P. Meier a porre il problema e ad affermare che è il quadro di Giovanni ad appari- re più plausibile, perché di una forte presenza dei farisei si può parlare soltanto per Gerusalemme ed è perciò solo a Gerusalemme che Gesù avrebbe potuto scontrarsi con tale intensità con i farisei. Se Marco li colloca invece in Galilea, ciò dipende soltanto dal suo artificiale schema teologico, secondo cui Gesù ha pre- dicato quasi interamente in Galilea e solo nell’ultima settimana della sua vita è stato a Gerusalemme.18 In realtà la posizione di Meier è abbastanza singolare, e piuttosto contraddittoria. Da un lato infatti egli, come la maggioranza degli auto-

17 Ma anche testi apocrifi. Cf., ad esempio, la dura critica mossa a Gesù da un sacerdote fariseo in P.Oxy 840.

18 J.P. MEIER, Un ebreo marginale, 3: Compagni e antagonisti, Brescia 2003, 380: «Così, è forse l’arti- ficiale schema teologico di Marco, secondo il quale Gesù resta in Galilea e lontano da Gerusalemme fino alla settimana fatale e finale della sua vita, che ha necessità di situare in Galilea gran parte dell’interazione con i farisei. Storicamente, è invece probabile che l’interazione con i farisei abbia avuto luogo soprattutto a Gerusalemme e nei suoi pressi, quando Gesù veniva in pellegrinaggio per le grandi feste – proprio come informa il Vangelo di Giovanni».

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ri della ricerca attuale, pur insistendo fortemente sulla figura di Gesù come inter- prete della Legge (il Gesù halakico a cui fa costante riferimento), tende a mini- mizzare la critica di Gesù alla Legge mosaica, e di conseguenza lo scontro di Gesù con i farisei, ritenendo non credibili molti motivi di quello scontro. Dal- l’altro ritiene più plausibile la presentazione del Vangelo di Giovanni che fa sali- re Gesù più volte a Gerusalemme proprio perché questo spiegherebbe meglio il suo contrasto con loro. Resta vero comunque che l’accettazione dell’uno o del- l’altro quadro evangelico è molto rilevante ai fini di una valutazione del rappor- to di Gesù con i farisei, e quindi della sua posizione nei confronti della Legge.

Il secondo elemento riguarda invece la condanna a morte di Gesù. Secon- do tutti e quattro i vangeli canonici essa scaturisce da un concorso di iniziative del sinedrio giudaico e del governatore romano. Anche qui naturalmente le pre- sentazioni dei vangeli sono diverse l’una dall’altra. Il Vangelo di Giovanni dà indubbiamente più peso alla presenza romana di quanto facciano invece i sinot- tici. Sono comunque le autorità giudaica e romana che conducono Gesù alla morte. E nel loro insieme queste autorità sono presenti soltanto a Gerusalemme. L’aristocrazia sacerdotale giudaica è il gruppo più influente della città e il pre- fetto romano governa sulla Giudea, non sulla Galilea. Nella ricerca passata il problema non era molto avvertito perché a condurre Gesù alla morte si pensava fosse stata la sua presa di posizione nei confronti della Legge mosaica, e quindi il suo contrasto con i farisei, ritenuti presenti in Galilea. Ma oggi, come ho detto, questo contrasto con i farisei viene fortemente ridimensionato e a condurre Gesù a morte si ritiene siano stati i sommi sacerdoti, e soprattutto Ponzio Pilato. Ma allora si pone necessariamente il problema della conoscenza che queste autorità, e in particolare Pilato, potevano avere della persona di Gesù e della sua predicazione. A porre questo problema è stata in tempi recenti soprattutto P. Fredriksen. Per lei la condanna di Gesù è motivata dal timore di Pilato di una sua eventuale pretesa messianica, e in particolare dall’agitazione scaturita dalla manifestazione messianica della folla in occasione del suo ingresso in Gerusa- lemme. In Galilea Gesù non aveva avanzato alcuna pretesa messianica. È sol- tanto al momento dell’ultima venuta a Gerusalemme che, ad opera non di lui stesso, ma dei pellegrini al suo seguito, si pone il problema della pretesa messia- nica di Gesù. Ma allora ci si deve necessariamente chiedere come facesse Pilato ad avere conoscenza di Gesù e a preoccuparsi di questa manifestazione della folla nei suoi confronti. E secondo Fredriksen è la presentazione di Giovanni, che fa salire Gesù più volte a Gerusalemme, che spiega questa conoscenza e appare perciò più credibile.19 Anche in questo caso l’argomentazione di Fredrik- sen a me appare molto debole. L’episodio dell’ingresso in Gerusalemme, che pure non è stato certamente così trionfale come affermano i vangeli, è di per sé ampiamente sufficiente a spiegare la conoscenza, comunque assai superficiale, di

19 Cf. P. FREDRIKSEN, Jesus of Nazaret, King of the Jews. A Jewish Life and the Emergence of Chri- stianity, New York 1999, 28-34, 235-241 (235: «Il vantaggio di trarre la missione di Gesù da Giovanni, con i suoi ripetuti soggiorni a Gerusalemme, è che così si può spiegare il fatto che Pilato già sappia chi è Gesù»).

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Gesù da parte di Pilato. E sono stati i sommi sacerdoti a informare il governato- re romano della sua pretesa regale. Se Gesù non aveva mai avanzato pretese messianiche non si capisce bene del resto quale importanza dovrebbe avere una sua precedente conoscenza da parte di Pilato. Resta comunque il fatto che il pro- blema di una maggiore presenza di Gesù a Gerusalemme non è senza importan- za nella valutazione delle circostanze della sua condanna a morte.

Qual è allora il quadro geografico e cronologico della vicenda di Gesù che dobbiamo preferire? È impossibile naturalmente dirlo con certezza, ma io credo che quello di Marco sia decisamente più attendibile di quello di Giovanni. Ci sono vari motivi infatti per preferirlo. Cominciamo anzitutto col dire che la plau- sibilità storica di un detto o di un fatto non può essere un criterio per valutarne l’autenticità. La plausibilità può valere in presenza di una documentazione, come conferma della sua attendibilità, ma non può sostituire la mancanza di docu- mentazione. E di frequenti visite di Gesù a Gerusalemme prima del viaggio che lo ha portato alla morte non abbiamo reale testimonianza. L’indicazione delle diverse feste cui avrebbe partecipato Gesù da parte del Vangelo di Giovanni non ha infatti nessuna consistenza storica. È determinata chiaramente dall’esigenza letteraria e teologica di far agire e predicare Gesù nel contesto storico ritenuto dall’autore più adatto, ma non indica nessun vero sviluppo della sua azione e predicazione.20 Ma in realtà anche la plausibilità storica gioca a favore più di Marco che di Giovanni. Anche la fonte Q ambienta infatti in Galilea la maggior parte della predicazione di Gesù (e non perché la sua redazione è avvenuta in Galilea, ma perché in Galilea si è svolta la predicazione di Gesù) e conferma quindi il quadro di Marco. E se Gesù è stato per un certo tempo discepolo e col- laboratore del Battista, e il Battista ha cominciato a predicare nel 28, e probabil- mente nella seconda metà del 28, non rimane molto tempo per un ministero autonomo di Gesù e per quelle visite a Gerusalemme che sembra supporre il Vangelo di Giovanni. Si insiste sul carattere artificiale dello schema geografico e cronologico di Marco, che sarebbe non meno evidente di quello di Giovanni. Ma non si vede per quale motivo Marco, che fa uscire più volte Gesù dalla Galilea, per farlo andare nei territori di Tiro e Sidone, della Decapoli e di Cesarea di Filippo, non avrebbe dovuto inserire in quello schema anche le eventuali visite di Gesù a Gerusalemme. Possiamo perciò a mio parere essere abbastanza sicuri che il ministero di Gesù ha avuto una durata molto breve (diciamo all’incirca di un anno); che, con le eccezioni accennate sopra, si è svolto prevalentemente in Galilea; e si è concluso tragicamente con l’ultima settimana a Gerusalemme. E possiamo quindi utilizzare anche questo dato per ricostruire lo sviluppo della vicenda di Gesù.

20 Anche Theissen e Merz sono di questo parere: «Il valore storico di questa cronologia giovannea, basata sulle festività menzionate dal Quarto Vangelo, è molto problematico, poiché potrebbe trattarsi di un espediente redazionale per organizzare il materiale» (THEISSEN – MERZ, Il Gesù storico, 195).

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Gesù e il tempio

FRÉDÉRIC MANNS

I vangeli contengono parole1 e azioni2 di Gesù concernenti il tempio. Gli esegeti, adoperando il metodo storico-critico, hanno individuato questi testi, li hanno interpretati e ricercato il loro valore storico.3 Non si tratterà quindi di ripetere quello che già è stato detto. In modo più semplice raccoglieremo i testi giudaici a proposito del tempio per collocare i testi sul tempio nel loro contesto. Ci limiteremo ai testi sul tempio contenuti nel Vangelo di Marco, che passa per essere il più antico.4 Il metodo detto della Third Quest sottolinea l’importanza del giudaismo per interpretare i testi neotestamentari.5 In questa linea si inseri- sce la nostra ricerca.6 Alcuni cliché sull’atteggiamento negativo di Gesù nei con- fronti del tempio devono essere rivisti.

1. IL TEMPIO DI GERUSALEMME

Le fonti che ci permettono di conoscere il terzo tempio di Gerusalemme sono diverse.7 Flavio Giuseppe nella Guerra giudaica 5,184-247 lo descrive con il

1 Mc 13–14 e parr.

2 La purificazione del tempio. Cf. Mc 11,15-17 e parr. Cf. J. MURPHY-O’CONNOR, «Jesus and the Money Changers (Mark 11:15-17; John 2:13-17)», in RB (2000)107, 43-44.

3 C. BOYER, Jésus contre le Temple? Analyse historico-critique des textes, Editions Fides, Saint-Lau- rent 2005.

4 Saranno presi in considerazione alcuni testi del Vangelo dell’infanzia di Luca che provengono dal giudaismo palestinese.

5 M. CSERHATI, Methods and Models in the Third Quest of the Historical Jesus, Durham 2000.

6 Lasciamo da parte le concezioni del tempio nella Bibbia stessa. Dio abita nel santuario (Es 25,8; Lv 26,11-12; 2Sam 7,6). Il tempio è casa di Dio e porta del cielo (Gen 28,17). E anche la tenda come dimo- ra di Dio che corrisponde al modello mostrato a Mosè sulla montagna (Es 25,9.40). Per 1Cr 28,19 Davide consegna al figlio Salomone il modello ricevuto in uno scritto dalla mano di YHWH. In Ben Sira 36,1-22 la manifestazione della gloria di Dio è attestata nel tempio. In Ben Sira 24,1-12 la sapienza di Dio ha preso dimora nella dimora santa. Ben Sira 50,5-21 descrive lo splendore delle cerimonie del tempio. Sap 9,8 affer- ma che esiste un tempio celeste di cui il santuario (naos) è la copia (mimema).

7 Cf. A. PARROT, Le Temple de Jérusalem, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel 1962; F. SCHMIDT, La pen- sée du Temple, de Jérusalem à Qoumrân: identité et lien social dans le judaïsme ancien, Paris 1994; J. BER- NARD, Temple de Jérusalem 1er siècle après Jésus-Christ: confessions divergentes, Lille 1997; E.-M. LAPERROU- ZAZ, Les temples de Jérusalem, Paris 2007; D.D. EDWARDS, Jesus and the Temple: a Historic-Theological Study of Temple Motifs in the Ministry of Jesus, Southwestern Baptist Theological Seminary, Forth Worth, TX 1992; S. LÉGASSE, Le procès de Jésus. La passion dans les quatre évangiles, Paris 1995.

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Vangeli e tradizioni

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temenos aggiunto da Erode il Grande, idumeo d’origine,8 e il naos.9 I pagani potevano entrare nel cortile dei gentili e fare offerte al tempio. Le pietre del tem- pio erano enormi, e avevano fino a 12 metri di lunghezza.10 Inoltre lo storico del I secolo ci informa che quattro famiglie sacerdotali si dividevano il potere nel santuario (Boethus, Anna, Phiabi e Kamith). Anna e i suoi figli rimasero al pote- re per molto tempo.11 Lo stesso Anna riuscì a far salire al potere il suo genero, Caifa. Un segno dell’odio del popolo contro i sacerdoti fu l’atto di bruciare l’ar- chivio del tempio, che conteneva la lista dei debiti del popolo.12

La Lettera di Aristea13 parla del tempio nei paragrafi 92-95. L’autore si meraviglia del silenzio dei sacerdoti, che con grande abilità tagliavano la carne per i sacrifici. E. Bickerman14 definisce i sacerdoti come esperti macellai.

La Mishna consacra alcuni trattati al tempio: Midot descrive le misure del tempio. Tamid parla del sacrificio quotidiano dell’agnello. Questi trattati che non contengono halakoth sono antichissimi, secondo Ginzberg.15 Altri trattati sulle feste, come Pesahim, Bikourim, Succot, ci danno la descrizione della liturgia del tempio. Yoma descrive la liturgia di Kippur con molti dettagli.16 Da notare che la Mishna descrive il tempio quadrato, di 500 cubiti ogni lato, che corrisponde al secondo tempio di Esdra-Neemia. Berakot 4,5, e Tosefta Berakot 3,15-16, dando le norme per l’orientamento della preghiera, si basano su 1Re 8,48 e su Dn 6,11, e ricordano che il tempio era ritenuto il luogo della presenza divina. Nella discus- sione del Talmud di Gerusalemme 4,5, R. Pinchas ammette la corrispondenza tra tempio celeste e tempio terrestre per giustificare il fatto che chi non può indivi- duare la direzione dei punti cardinali possa pregare rivolgendosi verso l’alto. La Mekilta de R. Ismael, Es 15,17 testimonia anch’essa la credenza che il trono di Dio nel tempio sia posto di fronte al trono che è in alto. Il termine «luogo» (maqom) veniva letto «orientato» (mekuvan) basandosi sulla tecnica dell’al tiqra.

La Tosefta Yoma 1,7 afferma che i romani nominavano ogni anno il sommo sacerdote17 e Yoma 8b riconosce che con i soldi le famiglie sacerdotali compra- vano l’ufficio per dodici mesi.18

8 Cf. G. RICCIOTTI, Vita di Gesù Cristo, Milano 1999, §§ 6-12.

9 Cf. L.I. LEVINE, Jerusalem: Portrait of the City in the Second Temple Period (538 B.C.E.-70 C.E.), Jewish Publication Society, Philadelphia, PA 2002; L.H. VINCENT, «Le Temple de Jérusalem d’après la Mish- nah», in RB 61(1954), 5-35; L. RITMEYER, The Quest. Revealing the Temple Mount in Jerusalem, Jerusalem 2006.

10 Guerra 5,224; Ant. 15,392. 11 Ant. 20,198. 12 Guerra 2,17; 426. Non prendiamo in considerazione i testi di Filone di Alessandria sul tempio, per-

ché il tempio è un segno simbolico dell’itinerario del sapiente che passa dal mondo sensibile a quello idea- le e divino, poiché vero tempio di Dio sono il mondo sensibile e l’anima razionale che contempla il mondo delle idee (Mos 2,74-76; Somn I,215; Plant 50; Her 75).

13 A. CATASTINI, «La Lettera di Aristea e i suoi destinatari», in Studi ellenistici 13(2001), 167. 14 E. BICKERMAN, «The Civic Prayer for Jerusalem», in HTR 55(1962), 306. 15 L. GINZBERG, «Tamid. The Oldest Treatise of the Mishnah», in Journal of Jewish Lore and Philo-

sophy 1(1919), 42-44. 16 Cf. P. STEINBERG, Celebrating the Jewish Year: The Fall Holidays, New York 2007. 17 Secondo Nm 35,25 era eletto a vita.

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F. MANNS – Gesù e il tempio

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In molti passi la letteratura apocalittica menziona il tempio in chiave nega- tiva. Per 1Enoch il santuario viene criticato19 perché è contaminato.20 Nel Libro dei sogni 89 la storia della salvezza è presentata in chiave simbolica. Il tempio è considerato come impuro. La vecchia casa è distrutta dalle fiamme e il Signore fa venire una casa nuova.21 Nell’ottava settimana sarà costruita la casa del gran- de Re.22

1En 90,25 afferma che i pastori sono responsabili e saranno puniti. L’auto- re di 1Enoch aspetta la discesa del tempio celeste sulla terra.

Nei manoscritti del Mar Morto viene orchestrata una forte critica al tem- pio.23 All’origine dello scisma qumranico c’è un contrasto circa la purità del sacerdozio gerosolimitano e quindi anche del tempio.24 Il sommo sacerdote viene chiamato «il prete empio».25 Viene accusato di aver rubato ai poveri,26 di aver accumulato ricchezze27 e di aver profanato il tempio di Dio.28

Nel Documento di Levi aramaico è ripresa l’idea biblica della corrispon- denza tra culto terreno e culto celeste.

Il Florilegio (4QFlor I,1-13) annuncia che per la fine dei giorni la casa sarà riedificata. Sarà un miqdash adam, un santuario di uomini, un nome simbolico della comunità che si considerava come santuario.29

4QpNahum 1,11 fa menzione delle ricchezze che ha accumulato il sacer- dote nel tempio di Gerusalemme. Il Rotolo del tempio 29 aspetta la discesa del tempio celeste che Dio creerà secondo l’alleanza che ha stabilito con Giacobbe. Dio santificherà il suo santuario con la sua gloria fino al giorno in cui egli stesso edificherà il suo santuario. Per l’era finale gli esseni aspettavano l’intervento di Dio stesso, che avrebbe edificato un tempio indistruttibile. In attesa di questo periodo la comunità si riteneva come il tempio. Identificava nella componente laicale il «Santo» e nella componente sacerdotale il «Santo dei santi».30 La vita di obbedienza alla Legge era considerata come sacrificio spirituale.31

18 Questa informazione corrisponde al Vangelo di Giovanni, il quale dice che Caifa era sommo sacerdote «di quell’anno».

19 Cf. G.W.E. NICKELSBURG – J.C. VANDERKAM, 1 Enoch: A New Translation Based on the Hermeneia Commentary, Minneapolis 2004.

20 1En 89,73. 21 1En 90,28-29. 22 1En 91,13. 23 G. BOCCACCINI, Enoch and Qumran Origins, Grand Rapids 2005. 24 1QpHab 12,7-9. 25 1QpHab 1,13; 8,9; 9,9; 11,4. 26 1QpHab 8,8-12; 9,4-5. 27 1QpHab 9,4-5. 28 1QpHab 12,8-9. 29 1QS 8,4b-10; 1QS 9,3-6. Cf. D. DIMANT, «4Q Florilegium and the Idea of the Community as a Tem-

ple», in A. CAQUOT – M. HADAS-LEBEL – J. RIAUD, Hellenica et Judaica, Leuven-Paris 1986, 165-189. 30 1QS 8,5-10.

31 1QPs 18,9-12.

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Vangeli e tradizioni

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Nei Canti del sacrifico del sabato (4QShir Shabb) la comunità equipara il proprio culto a quello reso nel santuario celeste dagli angeli. Gli atti di culto sono celebrati in comunione con gli esseri celesti.32

La liturgia sinagogale non poteva ignorare il tempio. Due testi del Targum sono fondamentali: Gen 28,17 che si riferisce al sogno di Giacobbe e Es 15,17, il canto di Mosè che afferma che Dio ha preparato il santuario con le proprie mani. Questi testi esprimono l’idea di corrispondenza tra i due santuari per il targumi- sta. Nel cielo vi è il trono di Dio, a cui corrisponde in terra il tempio dove risie- de la Shekinah. Il Targum di Is 6,3 ripete la stessa idea, che risale all’ambiente palestinese anteriore alla distruzione del tempio. Il Targum di 1Cr 21,15 parla soltanto della montagna del culto e del santuario in alto senza menzionare la cor- rispondenza con il tempio celeste.

Nelle altre versioni dei Targumim molti testi criticano i sadducei. Il Targum di Is 5,2, nel canto della vigna dell’amato, invece della torre e del pressoio, parla del santuario e dell’altare. Dio distruggerà il tempio a causa dell’impurità dei sacerdoti (5,5). Nel Targum di Is 28,4 l’espressione «Guai al fiore caduco» diven- ta: «Guai al maestro insensato che dà il turbante (sacerdotale) agli empi che sono nel santuario».

Nel Targum di Is 22,18 il sacerdote Eliakim diventa l’immagine della tra- gedia di Israele: egli perderà il turbante perché non ha conservato l’onore della casa del Signore.

Il Targum di Ger 7,9 accusa i sacerdoti di essere ladri (8,10; 6,13). Il Targum diGer23,33-34affermacheilsacerdoteeloscribasarannocacciati.AncheilTar- gum di 1Sam 2,17 accusa i figli di Eli di essere ladri.

Altri testi di origine diversa criticano il tempio.

L’Apocalisse di Abramo 27,7 afferma che il tempio è stato distrutto a causa della gelosia che vi regnava.33 Anche il Talmud ripete questa motivazione.34

Il Testamento di Mosè 7 accusa i sacerdoti di mangiare i beni dei poveri dicendo che il loro agire non è conforme alla giustizia.35

Nonostante tutte queste accuse, rimaneva presente nella mente dei pelle- grini la teologia del tempio sviluppata nella Bibbia.36 1Re 8,41, nella preghiera di Salomone per l’inaugurazione del tempio, afferma che Dio abita in cielo, non nel tempio, perché il tempio non può circoscrivere l’incontenibile. Tuttavia Dio fa abitare il suo nome nel tempio. L’autore aggiunge: «Anche lo straniero che

32 1QH 3,19-23; 11,10-13; 11,7-9; 4Q400, 2,6-7. Cf. A.M. SCHWEMER, «Gott als König und sein König- herrschaft in den Sabbatliedern aus Qumran», in M. HENGEL – A.M. SCHWEMER, Königherrschaft Gottes und himmlischer Kult im Judentum, Urchristentum und in der Hellenistischen Welt, Tübingen 1991, 45-118.

33 Cf. R. RUBINKIEWICZ, «Apocalypse of Abraham», in J.H. CHARLESWORTH, The Old Testament Pseudepigrapha, New York 1983, I, 702.

34 Gittin 55b. 35 Cf. J. PRIEST, «Testament of Moses», in CHARLESWORTH, The Old Testament Pseudepigrapha, I, 930. 36 Cf. Y. CONGAR, Le mystère du Temple, Paris 1958.

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verrà, ascoltalo dal cielo, luogo della tua dimora». Dopo le critiche di Ger 7 e l’esperienza dell’esilio, Ez 40–44 descrive il nuovo tempio in forma quadrata. La centralità del tempio sarà sempre più cosmica. Gerusalemme è stato posto da Dio al centro delle nazioni ed è l’ombelico della terra.37 Is 56,7 descrive il tem- pio come casa di preghiera per tutti i popoli. Anche tra i pagani Dio si sceglierà i sacerdoti.38

I farisei, che non erano sacerdoti, avevano una grande devozione per il san- tuario, come risulta dai titoli che davano al tempio nella letteratura rabbinica.

Lo chiamavano Libano39 (casa bianca) probabilmente perché era stato edificato con i cedri del Libano. Ben Sira 50,12 paragona il sommo sacerdote ai cedri del Libano. Ogni anno per la festa di Kippur i sacerdoti mettevano sulle porte del tempio un filo rosso. Quando il capro espiatorio era stato condotto nel deserto, il filo cambiava colore: diventava bianco. Era il segno che Dio aveva per- donato i peccati del popolo,40 secondo l’affermazione di Is 1,18.

Un’altra tradizione voleva che ogni mattina si offrisse nel tempio il sacrifi- cio di un agnello maschio, senza difetti e di un anno. L’agnello purificava i pec- cati di Israele.41 Il gioco di parole tra kebes (agnello) e kabas (purificare) era ben noto.42

Altri testi chiamavano il tempio Ariel (leone di Dio) sulla base di Is 29. La Mishna Midot 4,7 afferma che il portico di fronte al Santo del tempio aveva la forma di un leone. Il Talmud di Babilonia paragona il fuoco dell’altare a un leone che divora legna verde e secca.

Moriah era il nome più comune dato al tempio. 2Cr 3,1 aveva identificato il monte Moriah con il luogo del tempio dove Abramo aveva sacrificato suo figlio secondo il Targum di Gen 22. Gli aggadisti giocavano sulla parola moriah:43 è il posto del timore di Dio (Yirah), dell’insegnamento (hora’ah). È un luogo ter- ribile (Nora) e il monte della mirra (mor). Dio aveva creato Adamo con la pol- vere dell’altare del tempio. Dove sorgeva l’altare saliva nel passato l’altare di Noè dopo il diluvio. In GenR 55,7 R. Shimon bar Yohai ripete la dottrina ben nota della corrispondenza dei due santuari: il monte Moriah è un luogo venera- to «di fronte al santuario che è in alto».

Dieci oggetti erano stati creati prima della creazione del mondo, secondo una tradizione molto diffusa nel Targum e nei midrashim.44 Il tempio e il nome del Messia sono su alcune liste. Tali oggetti avevano un’importanza speciale e una protezione divina particolare.

37 Ez 38,12. 38 Is 66,21. 39 Cf. G. VERMES, Scripture and Tradition in Judaism, Leiden 21973, 26-39. 40 Yoma 39ab. 41 Tamid 3,4; 4,1. 42 Cf. E. SJÖBERG, «Widergeburt und Neuschöpfung im palästinischen Judentum», in ST 4(1950), 50. 43 Pesiqta Rabbati 40,6. 44 TjI Gen 2,1; Abot 5,6; PRE 3; Pesahim 54a; Ned 39b; Mekilta Ex 16,32; Sifra Deut 33,21.

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EsR 33,4 in un testo tardivo dà la lista degli oggetti che si corrispondono tra l’alto e il basso. Il tempio, il velo di separazione e il trono del Signore si tro- vano su questa lista. La conclusione che l’autore ne trae è che l’oggetto che si trova in basso è più caro della realtà che è in alto.

In breve la teologia farisaica presentava il tempio come sintesi della storia della salvezza.

2. GESÙ E IL PELLEGRINAGGIO AL TEMPIO

Il Vangelo dell’infanzia di Lc 2,2 ricorda che Gesù era ebreo45 e che fu pre- sentato al tempio. Maria sua madre, osservando il precetto di Lv 12, fu purifica- ta dopo quaranta giorni. Luca non ricorda l’uso ebraico di pagare cinque sicli d’argento per la redenzione del primogenito.46 Una porta speciale, chiamata la porta dei primogeniti, si trovava vicino al vestibolo del tempio e permetteva ai parenti di avvicinarsi alla casa di Dio.47

Lc 2,41 ricorda che Gesù venne in pellegrinaggio quando aveva dodici anni.48 La Mishna Pirqe Abot 5,21 dice che il figlio di tredici anni è pronto per i comandamenti (mitzwot). Gesù invece di ritornare con i suoi genitori rimase nel tempio, ed era seduto in mezzo ai dottori e discuteva con loro. Dan Bahat49 pensa che Gesù fosse seduto sulla scala davanti alla porta doppia. Un edificio tra la porta doppia e la porta triplice era probabilmente la casa degli anziani (beth zeqenim). La Tosefta Sanhedrin 2,6 ricorda che Rabban Gamaliel, il maestro di Paolo, amava sedersi con gli anziani in questo posto (al gav ma‘alot). Questa ipo- tesi rimane debole, perché secondo Lc 2,46 Gesù era seduto nel tempio (en tô hierô). Da notare che in quell’occasione Gesù definisce il tempio come la casa di suo Padre (en tois tou patros mou dei einai me).

Per Luca il tempio è il punto di partenza e di arrivo dei cicli narrativi (infanzia, chiusura del Vangelo e inizio degli Atti).

Gesù vi si recò probabilmente tre volte all’anno, per Pesah, Shavouot e Succot. Gv 10 ricorda il suo pellegrinaggio al tempio per la festa di Hanouka. Gesù seguiva la strada dei pellegrini, lungo il Giordano, poi a Gerico comincia- va la salita con altri pellegrini, cantando i salmi delle ascensioni.

La Mishna Pesahim 5 descrive la cerimonia dell’uccisione degli agnelli pasquali nel tempio. In questa occasione, visto che i pellegrini erano numerosi, la spianata si riempiva rapidamente e la cerimonia doveva essere ripetuta tre volte.

45 Cf. G. VERMES, Jesus the Jew, London 1973. 46 Nm 18,16. 47 Cf. O. GRABAR – B. KEDAR (edd.), Where Heaven and Earth Meet, Jerusalem 2009. 48 Cf. S. SAFRAI, «Pilgrimage in the Time of Jesus», in Jerusalem Perpective (genn. 2004), 1-3; R. LAU-

RENTIN, Jésus au Temple: mystère de Pâques et foi de Marie en Luc 2,48-50, Paris 1966. 49 D. BAHAT, «Jesus and the Herodian Temple Mount», in J.H. CHARLESWORTH (ed.), Jesus and

Archaeology, Grand Rapids 2006, 300-308.

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È difficile sapere se Gesù assistesse all’immolazione degli agnelli o se inviasse nel tempio un apostolo.

Sono da ricordare altri atteggiamenti di Gesù verso il tempio: egli pagava la tassa del tempio.50 Al lebbroso guarito Gesù disse: «Va’ a mostrarti al sacer- dote e presenta l’offerta prescritta da Mosè».51 Si sa che nel cortile delle donne una stanza era riservata al bagno rituale (miqwe) dei lebbrosi guariti. È nel tem- pio che i farisei trascinarono davanti a Gesù la donna sorpresa in adulterio.52 Mc 12,41, dopo l’ingresso di Gesù al tempio, parla dell’obolo della vedova. Mentre i ricchi gettavano molti soldi nel tesoro, una vedova gettava due spiccioli. Per Gesù questa vedova aveva dato più di tutti gli altri perché aveva dato tutto quel- lo che aveva per vivere.53 Dove era questo tesoro? La Mishna Sheqalim 6,1.5 ricorda che esistevano tredici casse nel tempio. Probabilmente la vedova non poteva oltrepassare il cortile delle donne.

Mc 9,49 ricorda una frase originale54 di Gesù: «Voi sarete salati dal fuoco. Buono è il sale, ma se il sale diventa senza sapore, con che cosa lo salerete? Abbiate sale in voi e siate in pace gli uni con gli altri». I testi paralleli dei vange- li sinottici ricordano che i discepoli devono essere il sale della terra. Il sale che ha perso il suo sapore viene gettato fuori e calpestato dagli uomini. Marco ricor- da che nel tempio, vicino all’altare, c’era la stanza del sale. Ogni pezzo di carne veniva salato prima di essere gettato nel fuoco. In altre parole, Marco ricorda che il sacrificio che piace a Dio è l’offerta del corpo come sacrificio spirituale.

Per Mt 26,61 il naos del tempio non è manufatto, ma è tou theou. Gesù non ha detto di volerlo distruggere, ma che aveva il potere di farlo.55 Egli ha portato le promesse d’Israele al loro adempimento.

Un primo punto è chiaro: molti testi del Nuovo Testamento fanno vedere l’atteggiamento positivo di Gesù verso il tempio. Ma tutti i testi sono di questo stampo?

3. L’INGRESSO MESSIANICO DI GESÙ A GERUSALEMME

La struttura di Mc 11 merita di essere sottolineata: – Mc 11,1-11 descrive l’ingresso messianico di Gesù nel tempio. – Mc 11,12-14 ricorda l’indomani la maledizione del fico presso Betania. – Mc 11,15-19 descrive la scena dei venditori cacciati dal tempio.

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50 Mt 17,24-26. 51 Mt 8,3. 52 Gv 8,1-11. 53 Cf. E.S. MALBON, «The Poor Widow in Mark and Her Poor Riche Readers», in CBQ 53(1991), 589-

54 Cf. J.E. LATHAM, The Religious Symbolism of Salt, Paris 1982, 221-241. 55 Cf. G. SMITH, «A Closer Look at the Widow’s Offering: Mark 12:41-44», in JETS 40(1997), 27-36.

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– Mc 11,20-26 ricorda di nuovo il fico seccato e l’importanza della pre- ghiera. Dopo il tema del tempio quello del fico viene ripreso due volte.56 Questo modo di scrivere è tipico di Marco.57

I preparativi per l’ingresso a Gerusalemme ricordano i preparativi dell’ul- tima cena.58 Le due scene sottolineano la prescienza di Gesù. Zc 9,9 aveva annunciato l’ingresso del Messia nella città santa: «Il tuo Re viene a te. Egli è giu- sto e vittorioso, umile, cavalca un asino,59 un puledro, figlio d’asina». Mt 21,5 cita espressamente questo versetto. La benedizione di Giacobbe a Giuda in Gen 49,10-11 annunciava che il Messia legava alla vite il suo asinello «e a scelta vite il figlio della sua asina». Il gesto della gente che stende i mantelli sulla via ricor- da l’intronizzazione del re Jehu in 2Re 9,13. L’acclamazione «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» è una citazione del Sal 117,26. La gente vede in questo ingresso la venuta del regno di Davide.60

Dopo l’ingresso messianico a Gerusalemme, Gesù entra nel tempio. È in quanto figlio di Davide che ha fatto la sua entrata solenne al santuario.61 Il pro- feta Malachia (2,17) aveva descritto l’ingresso del Messia nel tempio come rito di purificazione. Il giorno del suo arrivo somigliava al detersivo dei lavandai. In Marco Gesù non fa subito la purificazione del tempio come negli altri sinottici. Si accontenta di guardare intorno a sé, perché qualcosa sembra strano, poi torna a Betania, essendo già tardi. Sarà a Betania, e non nel tempio, che Gesù riceverà l’unzione.

La mattina seguente Gesù si avvicina al fico per raccogliere frutti.62 Non trovando fichi maledice il fico. L’indomani i discepoli scoprono il fico seccato. Nella Bibbia i frutti del fico annunciano l’approccio dell’estate e la fine. Il tema della frutta orienta la ricerca verso un senso escatologico. La parentesi di Marco: «Non era il tempo dei fichi» sottolinea il carattere strano del resoconto.63 Come si può rimproverare a un albero di dare frutto prima del suo tempo? Solo un’in- terpretazione simbolica può spiegare questo dettaglio. Si trovano nel Vangelo di Giovanni delle parentesi e delle differenze paradossali dello stesso tipo. In Gv

56 Il tema del fico viene ripreso anche nel nome di Bethphage, che significa «la casa dei fichi non maturi».

57 Cf. J.P. HEIL, «The Narrative Strategy and Pragmatics of the Temple Theme in Mark», in CBQ 59(1997), 76-100; S.H. SMITH, «The Literary Structure of Mark 11:1-12:40», in NT 31(1989), 104-124; K. STOCK, «Gliederung und Zusammenhang in Mk 11–12», in Bib 59(1978), 481-515.

58 Mc 11,1b-6 e Mc 14,12-16. 59 Nella Mishna Sanhedrin 2,5 è proibito cavalcare un animale che è servito al re. 60 Gen 49,11; Zc 9,9 e Sal 117,25-26 contengono il verbo erchômai, il che permette all’autore di avvi-

cinarli con il metodo rabbinico della gezerah shawah. 61 Cf. D. KRAUSE, «The One Who Comes Unbinding the Blessing of Judah: Mark 11,1-10 as a Midrash

on Genesis 49.11, Zechariah 9.9 and Psalm 118.25-26», in C.A. EVANS – J.A. SANDERS (edd.), Early Christian Interpretation of the Scriptures of Israel: Investigations and Proposals, Sheffield 1997, 141-153; C.P. MÄRZ, «Siehe dein König kommet zu dir...». Eine traditionsgeschichtliche Untersuchung zur Einzugspericope, Leipzig 1981.

62 Lo stesso tema viene ripreso nella parabola dei vignaioli in 12,2.

63 Cf. K. ROMANIUK, «“Car ce n’était pas la saison des figues” (Mc 11,12-14 parr)», in ZNW 66(1975), 275-278; M. WOJCIECHOWSKI, «Marc 11,14 et Tg Gen 3.22: les fruits de la loi enlevés à Israël», in NTS 33(1987), 287-289. Questo studio non è convincente.

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2,1-11 il primo segno è fatto prima dell’ora.64 In Gv 3,35-38 i campi sono maturi per il raccolto quattro mesi in anticipo. Tutti questi esempi illustrano uno spo- stamento del tempo escatologico. È lo stesso per il fico di Marco. Il fico non è sin- cronizzato con la visita messianica. Visto che il fico non è stato capace di adat- tarsi alla fame di Gesù, non dovrà più colmare la fame di altri. Il fico non dà frut- ti quando Gesù proclama la vicinanza del regno di Dio. Diventa inutile. Il tempo di Gesù è quello della raccolta escatologica. L’entrata a Gerusalemme lo ha pro- vato dinanzi a tutto il popolo. La maledizione del fico lo chiude nella sua steri- lità. Quando viene il tempo della fine, occorre essere pronti.65

Il fico è un simbolo molto ricco nella Bibbia. Evoca Israele in Ger 8,13 e 24,1-3; Is 28,3-4; Os 9,10.16; Gl 1,7.12. È spesso il simbolo del tempio che deve dare frutti.66 In Ger 8,13 Dio vuole raccogliere frutti, ma non trova fichi. In Mi 7,1-2 e in Is 5,1-2 l’assenza dei fichi o dell’uva è un simbolo della sterilità della piantagione divina. La ricerca di fichi significa la ricerca dei giusti in Mi 7,1-2. Il fico annuncia anche l’arrivo dell’estate. Gesù annuncia allo stesso modo la venu- ta del Figlio dell’uomo: «Comprendete questo raffronto preso in prestito al fico: appena i suoi ramoscelli diventano teneri riconoscete che l’estate è vicina. Lo stesso accadrà quando vedrete tutto ciò, sappiate che il figlio dell’uomo è vici- no».67 Questo logion di Gesù riprende il gioco di parole tra qais e qes conosciu- to da Am 8,2. Inquadrata dal gesto del fico essiccato, la purificazione del tempio acquista una dimensione escatologica ovvia. In Os 9,16-17 Efraim viene accusa- to di non dare frutti. Gl 1,7 dice che il Signore ha fatto tronconi dalle piante di fico e li ha abbandonati, mentre Mi 7,1 contiene una lamentazione: «Non ho un grappolo da mangiare, non ho un fico per la mia voglia».

4. LA PURIFICAZIONE DEL TEMPIO

I sinottici collocano l’episodio alla fine della vita pubblica di Gesù; mentre Giovanni lo mette all’inizio. J.-M. Lagrange e J.T.A. Robinson preferiscono la cronologia giovannea, mentre C.K. Barrett e C.H. Dodd68 scelgono la posizione dei sinottici.

64 Cf. A.R. KERR, The Temple of Jesus’ Body: the Temple Theme in the Gospel of John, Sheffield 2002.

65 Cf. C. BÖTTRICH, «Jesus und der Feigenbaum. Mk 11:12-14,20-25 in der Diskussion», in NT 39(1997), 328-359; H. GIESEN, «Der verdorrte Feigenbaum – Eine symbolische Aussage?», in BZ 20(1976), 95-111.

66 In Zc 6,12 un personaggio messianico di nome Zemah (la pianta) deve ricostruire il tempio. A Qumran (1QS 8,5) la comunità si definisce come pianta eterna e casa santa per Israele e fondamento del Santo dei santi per Aronne. Pianta e tempio vengono spesso avvicinati. Il fico non è il simbolo della Legge.

Per il Vangelo di Marco rimandiamo al commentario di S. LÉGASSE, L’Evangile de Marc, Paris 1997, con abbondante bibliografia; J. SCHLOSSER, «La parole de Jésus sur la fin du Temple», in NTS 36(1990), 398- 414.

67 Mt 24,32-33.

68 J.-M. LAGRANGE, Evangile selon saint Marc, Paris 1935, 287; C.H. DODD, Historical Tradition in the Fourth Gospel, Cambridge 1963; LÉGASSE, L’Evangile de Marc, ad locum; J. ADNA, Jesu Stellung zum Tempel. Die Tempelaktion und das Tempelwort als Ausdruck seiner messianischen Sendung, Tübingen 2000.

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E.P. Sanders69 vede la scena della purificazione non come una protesta contro i sacerdoti disonesti ma come un gesto profetico che annuncia la distru- zione imminente del tempio. Gesù agisce come Geremia, un profeta che minac- cia il popolo. Difatti in Mc 11,15-19 Gesù che purifica il tempio cita Ger 7,11 e Is 56,7: «Sta scritto: la mia casa sarà una casa di preghiera per tutti i popoli e voi ne avete fatto una spelonca di ladri».

La sua posizione è stata criticata da C.A. Evans.70 Difatti la Chiesa primi- tiva, che all’inizio frequentava il tempio – Pietro e Giovanni salgono per la pre- ghiera dell’ora nona –, abbandonerà rapidamente la teologia del tempio in favo- re del nuovo santuario. Basta leggere la Lettera agli Ebrei e la Lettera di Bar- naba.

V. Eppstein71 sottolinea che la purificazione del tempio è stata una prote- sta contro le decisioni prese da Caifa. Quarant’anni prima della distruzione del tempio il Sanhedrin fu spostato dalla liskat hagazit e dovette andare in un posto chiamato Hanouiot.72 Probabilmente il posto era localizzato nel monte degli Ulivi, sotto un cedro.73 Questo episodio è l’espressione della lotta tra il Sanhe- drin e le autorità del tempio. La decisione fu presa dopo una lotta tra Caifa e il Sanhedrin. Il sommo sacerdote prese allora la decisione di installare nel portico del tempio i venditori di animali. Mc 11,11 nota un dettaglio: Gesù si guardò intorno come se non riconoscesse il posto.

Dan Bahat74 ricorda la Mishna Sheqalim 1,3: i cambiavalute installavano i loro tavoli nel tempio il 25 del mese di Adar per permettere ai pellegrini di paga- re la tassa del santuario. Entravano nel quadrato del tempio antico. Il trattato Berakot 62b dice che non si poteva traversare il tempio con monete nella borsa. Mc 11,16 ricorda questa halakah. Visto che la Mishna considera solo il quadrato sacro, i tavoli dei cambiavalute erano probabilmente sotto il portico regale aggiunto da Erode il Grande.

La versione di Marco dei venditori cacciati dal tempio merita di essere citata:

Andarono intanto a Gerusalemme. Ed entrato nel tempio (hieron) si mise a scacciare quelli che vendevano e compravano nel tempio (hierô), rovesciò i tavoli dei cambia-

69 E.P. SANDERS, Jesus and Judaism, Philadelphia 1985, 61-76. 70 C.A. EVANS, «Jesus Action in the Temple», in CBQ 51(1989), 237-246. 71 V. EPPSTEIN, «The Historicity of the Gospel account of the Cleansing of the Temple», in ZNW 55-

56(1964-65), 42-58. Cf. anche E.G. CHAVEZ, The Theological Significance of Jesus’ Temple Action in Mark’s Gospel, Toronto 2002. G.A. BARROIS, Jesus Christ and the Temple, St Vladimir’s Seminary Press, Yonkers, NY, 1980; T.C. GRAY, The Temple in the Gospel of Mark: a Study in Its Narrative Role, Tübingen 2008; V. DECELLES, Le geste de Jésus au temple: étude historico-critique de Mc 11,15-19, Montréal 1980; P. ROLIN, Jésus et le Tem- ple: Matthieu 21,12-17; Marc 11,15-17; Luc 18,45-48; Jean 2,13-22, s.n. 1986; G. THEISSEN – A. MERZ, Il Gesù sto- rico. Un manuale, Brescia 2003 vedono nel gesto di Gesù la fine dei sacrifici. La posizione di S.G.F. BRANDON, Jésus et les zélotes, Paris 1951, che vede nella caverna di ladri un’allusione agli zeloti, non si può difendere.

72 RH 31a; Sab 15a; AZ 8b; Sanh 41a. 73 J. Ta’anit 4,8. 74 BAHAT, «Jesus and the Herodian Temple Mount», 306-307.

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valute e le sedie dei venditori di colombe e non permetteva che si portassero cose attraverso il tempio (dia tou hierou). E insegnava loro dicendo: Non sta scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti? Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri.

L’udirono i sommi sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo uccidere. Aveva- no paura di lui perché tutto il mondo era ammirato del suo insegnamento. Quando venne la sera uscirono dalla città.

L’atteggiamento di Gesù che espelle i rappresentanti e gli acquirenti del tempio sorprende per il suo carattere provocatorio e insolitamente violento. Tut- tavia l’apice del resoconto è da cercare nella parola interpretativa di Gesù. Que- sta parola non è una giustificazione del suo atteggiamento; è introdotta dal verbo «egli insegnava», all’imperfetto. È all’insegnamento di Gesù che i sommi sacer- doti reagiscono. Si ritrova questo tema nel resoconto della passione: «Ogni gior- no ero in mezzo a voi a insegnare nel tempio».75 L’insegnamento di Gesù riguar- da infatti la Scrittura, più precisamente due versetti della Scrittura: Is 56,7: «La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni» e Ger 7,11: «[È] una caverna di ladri (questa casa che porta il mio nome)?». Questi due versetti sono associati dalla tecnica ebrea della gezerah shawah. Riprendendo la stessa espressione «la mia casa», i versetti si illuminano l’un l’altro. Is 56,7 è la conclu- sione e il riassunto di un oracolo rivolto verso il futuro: «Poiché la mia salvezza è vicina ad arrivare e la mia giustizia di rivelarsi». Questa salvezza riguarda l’eu- nuco e i figli dello straniero attaccati al Signore per servirlo e per gradire il nome del Signore. È dunque un clima fortemente escatologico quello che si verifica in questo testo. La citazione di Is 56,7 non implica un’opposizione tra il culto spiri- tuale e i sacrifici. È piuttosto un richiamo della promessa divina di fare posto nella casa del Signore alle nazioni che devono aprirsi all’alleanza. Il Targum di Ger 30,9 e di Is 42,1 manteneva viva questa speranza. «Le nazioni non saranno più schiave di Israele. Adoreranno il Signore loro Dio e Davide il loro re che sta- bilirò per loro», afferma il Targum di Ger 30,9. «Il Messia rivelerà la mia legge alle nazioni», ripete il Targum di Is 42,1. Quanto al testo di Ger 7,11 che denun- cia gli abomini praticati nel tempio, si conclude con la minaccia della sua distru- zione. Mc 11,17 accentua la responsabilità degli ebrei usando il pepoiêkate («ne avete fatto una spelonca di ladri») perfetto che indica i risultati attuali di una lunga azione passata. Gv 2,16 addolcisce la citazione di Geremia e parla del tem- pio soltanto come di una casa di commercio. La reazione all’insegnamento di Gesù sulle scritture profetiche verrà dai sommi sacerdoti e dagli scribi che si sen- tivano colpiti, mentre la folla rimaneva sotto lo stupore rispettoso del Maestro.76

La citazione della Scrittura è ripresa nei testi paralleli di Matteo e di Luca con cambiamenti secondari. In Is 56,7 manca solo la precisazione «per tutte le nazioni». Da parte di Luca, sensibile ai problemi dei pagani, questa omissione è strana. Per i sinottici l’opposizione tra casa di preghiera e caverna di ladri è

75 Mc 14,49. 76 Mc 11,18.

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determinante. Significa la condanna dei compromessi accettati nel tempio. Gesù contesta le implicazioni profane del sistema sacrificale in nome della finalità religiosa del tempio. Marco sottolinea la vocazione religiosa universale del tem- pio, che aveva un cortile dei pagani e un cortile di Israele. Inoltre il sommo sacerdote portava cucite in fondo al suo mantello settanta campanelle per ricor- dare le settanta nazioni, e durante la festa di Succot si immolavano settanta tori77 per i settanta popoli. Il luogo della purificazione resta vago: si tratta del hieron, probabilmente del portico reale dove secondo le fonti rabbiniche si svol- geva il commercio.

Per Neusner il gesto di Gesù che rovescia i tavoli dei cambiavalute signifi- cherebbe che Gesù voleva annunciare un’altra tavola, quella dell’eucaristia.78 Ma questa idea non corrisponde alla teologia di Marco.

Marco è l’unico ad aggiungere un dettaglio prezioso: «Non lasciava nessu- no trasportare oggetti attraverso il tempio». Gesù riprende qui una vecchia halakah codificata dalla Mishna Berakot 9,5. Il divieto di trasportare oggetti attraverso il tempio equivale a utilizzarlo come una via normale di passaggio. Il cortile del tempio aveva un grado inferiore di santità rispetto al naos. La Mish- na Kelim 1,8-9 lo riconosce, del resto. Tuttavia non è un luogo profano, benché una parte sia aperta ai pagani.

Sono state date quattro interpretazioni principali della scena della purifi- cazione.

– Se Gesù denuncia gli abusi che si sono introdotti gradualmente nei cor- tili del tempio, lo fa in nome della santità del luogo.

– Altri autori ritengono che Gesù, che purifica il cortile del tempio, vuole ricordare che questo posto è riservato per il culto delle nazioni. L’ostruzione attuale dei cortili non permette ai pagani di avere accesso alla casa di preghiera.

– Altri esegeti pensano che Gesù criticasse il sistema sacrificale, poiché il denaro dei cambiavalute poteva servire a comprare animali da sacrificare nel tempio.

– Altri infine vedono l’azione di Gesù al tempio come l’annuncio del Mes- sia escatologico che doveva purificare il tempio, secondo i Salmi di Salomone. Zc 14,21 aveva predetto: «In quel giorno non ci sarà più un cananeo nella casa del Signore». Il Targum traduceva il termine «cananeo» con «commerciante». I tempi sarebbero compiuti, per riprendere l’avviso iniziale di Gesù. Il fico, sim- bolo del tempio, non porta frutti perché non è la stagione dei frutti. Ma strana- mente viene condannato alla sterilità. I due episodi intersecati si interpretano l’un l’altro.

Gesù porta con sé l’eschaton, la fine dei tempi, perché entra nel tempio. Il tempio non ha radunato tutti i popoli che dovevano pregare là perché il cortile dei pagani è stato abbandonato al commercio. Non ha realizzato la sua missione

77 Nb 29,12s. 78 J. NEUSNER, «Money Changers in the Temple: the Mishna’s Explanation», in NTS 35(1989), 290.

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universale.79 Si ricorda che il simbolo del Libano nella tradizione sinagogale e rabbinica designava il tempio. In altri termini, il tempio era il luogo dove i pec- cati del popolo erano rimbiancati. Che questo tempio debba essere purificato, ecco un paradosso illuminante.

Da notare che l’episodio della purificazione del tempio e del fico seccato si conclude con un discorso sulla preghiera. Il tempio doveva essere casa di pre- ghiera per tutti i popoli e luogo di purificazione dei peccati. È la preghiera con il perdono offerto agli altri che otterrà il perdono di Dio.

5. IL DISCORSO SULLA FINE DEI TEMPI

L’episodio della purificazione del tempio e del fico seccato è seguito da una domanda di sommi sacerdoti, scribi e anziani a proposito dell’autorità di Gesù. Mc 12, che si apre con la parabola dei vignaioli omicidi, presenta un insie- medipolemichecheriguardanogliscribi,ifarisei,isadduceieglierodiani.Tutto questo capitolo ha come scopo di mostrare che il conflitto cresce fino al rifiuto di Gesù da parte delle autorità. La parabola dei vignaioli omicidi culmina nella citazione del Sal 118,22-23: «La pietra respinta dai costruttori è diventata pietra d’angolo». Si sa che la versione sinagogale aveva parlato del figlio respinto inve- ce che della pietra scartata, riprendendo il gioco di parole biblico eben-ben.

Annunciata nei capitoli 11 e 12, la rottura con il tempio viene confermata in 13,2. Il prossimo spazio dove Gesù entrerà per ricevere l’unzione sarà la casa di Betania.80 Mentre Gesù esce dal tempio un discepolo lo invita ad ammirare la bellezza della costruzione. Gesù annuncia che non rimarrà pietra su pietra. Poi, mentre è seduto sul monte degli Ulivi di fronte al tempio, i discepoli gli chiedo- no di dire loro quando questo avverrà. Nella sua risposta Gesù non parla più del tempio, ma della venuta del Figlio dell’uomo.

L’ultima sequenza che precede il resoconto della passione è il discorso sulla fine dei tempi (Mc 13). Si è definito il discorso escatologico come quello che annunciava la distruzione del tempio.81 Qual è la prospettiva di Marco? È chia- ro che Mc 13 cita a parole velate un evento preciso: «Quando vedrete l’abomi- nio della desolazione installato dove non occorre». L’interpretazione di questo passaggio preso da Dn 9,27; 12,11 è discussa, ma deve probabilmente verificarsi nel tempio. Si tratta probabilmente di un personaggio, perché il participio greco

79 In Gv 1,50-51 il Figlio dell’uomo viene presentato come luogo della presenza divina. In lui il cielo e la terra verranno di nuovo riuniti nell’evento della croce. Gesù appare come il nuovo tempio. Coloro che credono in lui potranno aver accesso alla visione della realtà di Dio.

80 Mc 14,3-9. Cf. B.M.F. VAN IERSEL, «Failed Followers in Mark: Mark 13:12 as a Key for the Identi- fication of the Intended Readers», in CBQ 58(1996), 244-263.

81 Cf. J. DUPONT, «La ruine du Temple et la fin des temps dans le discours de Marc 13», in L. MON- LOUBOU, Apocalypses et théologie de l’espérance. Congrès de Toulouse 1975, Paris 1977, 207-269; ID., «Il ne sera pas laissé pierre sur pierre (Mc 13,2; Lc 19,44)», in Bib 52(1971), 301-320. L’annuncio della distruzione del tempio è un motivo veterotestamentario (1Re 9,7-8; Mi 3,12; Ger 7,14; 26,6.9.18; 1En 90,28; Testamento di Levi 15,1).

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Vangeli e tradizioni

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tradotto con «stare» ha la forma maschile: quest’uomo risiede in un luogo che esso rende impuro. Il linguaggio sibillino è tipico della letteratura apocalittica. In compenso la distruzione del tempio non vi appare, e certamente non come un evento di cui si farebbe la profezia ex eventu. La redazione del Vangelo di Marco risalirebbe secondo alcuni alla fine degli anni 60. In questo caso il discorso esca- tologico può soltanto annunciare un evento futuro. Alla fine della sezione delle polemiche Mc 13,1 ricorda l’uscita di Gesù del tempio (hieros). Si recherà al monte degli Ulivi. Tuttavia è importante notare che la questione di uno dei disce- poli: «Vedi queste grandi costruzioni» e la risposta di Gesù: «Non resterà pietra su pietra» non possono applicarsi al naos, ma all’hieros.

Il discorso escatologico che descrive i segni annunciatori della fine non sol- tanto non fa allusione alla distruzione del tempio, ma risponde alla domanda dei discepoli: «Quando ciò avrà luogo e qual è il segno che tutto ciò si compirà?». Gli eventi della guerra giudeo-romana e la distruzione del tempio non sono segni. La loro interpretazione teologica è dovuta a falsi profeti. Gesù nega alla distruzio- ne di Gerusalemme ogni valore di segno. Il discorso vuole calmare la richiesta di segni. Alla richiesta di segni Gesù sostituisce il dovere di annunciare il vangelo.

Il tempio è l’unico luogo di Gerusalemme con il quale Marco mette in rela- zione l’attività di Gesù prima del resoconto della passione. Penetrando nella città come Messia, è nel tempio che Gesù entra. È di fronte al tempio che egli tiene il suo discorso sui segni della fine dei tempi. Gesù aveva espulso i commercianti dai cortili del tempio. Questa purificazione restaura il tempio come casa di preghie- ra per tutte le nazioni. Spetta al Messia compiere la promessa divina formulata dal profeta Malachia. Tutto il soggiorno di Gesù a Gerusalemme è tuttavia pole- mico: il Messia che purifica il tempio si trova anche a essere il Figlio respinto dai costruttori: la sua azione di purificazione incontra soltanto la decisione di farlo perire. Il discorso escatologico annuncia la seconda venuta del Messia come Figlio dell’uomo sulle nuvole del cielo (Mc 13,26; 14,62). Questo secondo arrivo segnerà il completamento della fine dei tempi. Le due venute del Cristo sono nuovamente annunciate nella risposta che Gesù dà al sommo sacerdote in Mc 14,61-62: «Vedrete il figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venendo sulle nubi del cielo». I titoli cristologici e il naos saranno al centro della scena del- l’interrogatorio del sommo sacerdote.

Come spiegare il fatto che Marco usa il termine hieros prima della passio- ne e il termine naos tre volte nel resoconto della passione? Mc 14,56-59 sottoli- nea tre volte che falsi testimoni affermano che Gesù avrebbe detto: distruggerò questo naos. Gesù vi è presentato come il distruttore del naos, fatto da mano d’uomo, ma anche come il costruttore di un altro santuario in tre giorni, non fatto da mano d’uomo.82 È un’allusione al suo corpo risorto come luogo d’incontro dell’uomo con Dio. La prima parte del detto del tempio si ritrova in At 6,14, in

82 Cf. D. JUEL, Messiah and the Temple: The Trial of Jesus in the Gospel of Mark, Missoula 1977. In Mc 13,1-2 Gesù aveva affermato soltanto che non rimarrebbe pietra su pietra, senza dire il nome del distrut- tore. Kataluthei è probabilmente un passivo teologico.

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F. MANNS – Gesù e il tempio

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cui Stefano è accusato di aver detto che Gesù distruggerà questo tempio. At 7,48 sottolinea che Stefano dichiara che l’Altissimo non abita in costruzioni fatte da mano d’uomo.83 Il cielo e la terra sono lo sgabello del trono divino, secondo l’im- magine di Is 66,1-2. Stefano riprende la teologia degli ellenisti che esaltava la tra- scendenza assoluta di Dio e per questo motivo era sfavorevole al culto del tem- pio.84 La stessa teologia ricompare nell’episodio del fico seccato.85

L’accusa si ritroverà in bocca ai passanti che deridono Gesù in croce in Mc 15,29. Il concetto di acheiropoieton permette alla Chiesa di presentare la sua con- vinzione che attraverso Gesù è Dio stesso che ha costruito il tempio escatologi- co annunciato da Es 15,17. Nel momento in cui Gesù muore il velo del tempio (naos) si strappa, secondo Mc 15,38. È il segno che il Santo dei santi è visibile anche ai pagani.86 Il tempio diventa casa di preghiera per tutti i popoli. Il nuovo naos è il Messia stesso, morto e innalzato nella gloria. È per questo che la risur- rezione è associata all’idea del Cristo come nuovo santuario, come la esprime Mc 14,57: «Distruggerò questo santuario (naos) costruito di mani di uomini ed in tre giorni ne ricostruirò un altro non costruito di mani di uomini». La menzione dei tre giorni rimanda alla risurrezione di Gesù. Un’altra residenza oltrepassa la sto- ria che non sarà costruita dagli uomini, ma sarà l’opera di Dio.87 I falsi testimoni dicono il vero in modo ironico: la morte di Gesù sarà l’inizio della costruzione di un nuovo santuario. Occorre ricordare qui che 1Cr 28,19 affermava che il tempio era stato creato secondo un modello celeste. Sir 24,1-12 e 36,1-22 lo definivano come la tenda incoronata. 1En 89,73 lo designava sotto il termine di casa del grande Re.

La corrispondenza dei due templi era ammessa a Qumran. 4Q174 3,11-12 commentando 2Sam 7,10-14 affermava: «Questo è il germoglio di Davide che sta con colui che indaga la legge e sorgerà a Sion alla fine dei giorni secondo quanto è scritto: Rialzerò la capanna di Davide caduta». La profezia di Natan veniva rife- rita ai tre santuari: quello escatologico che Dio creerà alla fine dei tempi, quello d’Israele e quello dell’uomo, cioè della comunità vista come tempio spirituale. Filone di Alessandria ammette anche lui l’esistenza di due templi: l’universo e l’a- nima.88 In Her 75 ammette l’esistenza di tre santuari: il tempio, il mondo e l’ani- ma. Paolo da parte sua in 1Cor 6,19 afferma che il corpo del credente è un tem- pio. Egli descrive la comunità come tempio in 1Cor 3,16-17; 6,9 e 2Cor 6,16. Ef

83 L’antitesi tra tenda non fatta da mano d’uomo e santuario fatto da mano d’uomo appare nella Lettera agli Ebrei 8,1-2; 9,11-12; 10,19-20. Il culto dell’antica alleanza ha avuto compimento nella morte sal- vifica di Cristo, che ora esercita la sua funzione di sommo sacerdote nella tenda vera.

84 Questa teologia si oppone a quella di Luca, il quale ricorda che Pietro e Giovanni frequentavano il tempio.

85 Mc 11,12-14.

86 Cf. F. MANNS, «Exégèse judéo-chrétienne de Mt 27,51 et parallèles», in F. MANNS (ed.), Rastreando los origines. Lengua y exégesis en el Nuevo Testamento. En memoria de Profesor mons. Mariano Herranz Marco, Madrid 2011, 163-171.

87 È la stessa interpretazione che Gv 2,19-21 dà della purificazione del tempio: «Distruggete questo naos e in tre giorni lo farò risorgere». Parlava del naos del suo corpo.

88 Mos 2,74-76; Som I, 215; Plant 50; Spec I,66.

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2,21-22 riprende con piccole varianti la stessa idea. 1Pt 2,5 ha trasformato la stes- sa idea in casa spirituale chiamando i credenti un sacerdozio santo.89

6. CONCLUSIONE

In breve, quando si parla del tempio e del rapporto di Gesù con il santua- rio, occorre distinguere tra hieros e naos. Lo hieros è criticato perché i commer- cianti lo hanno deviato dalla sua vocazione di casa di preghiera per tutti i popo- li. Molti testi della letteratura targumica e rabbinica lo confermano. Quanto al naos, è criticato fino a un certo punto perché è fatto da mano d’uomo. La fun- zione cultuale dello hieros è arrivata alla sua fine simbolizzata dalla maledizione del fico. Lo hieros non darà più frutti. La distruzione del naos è evocata dal velo strappato. È la morte di Gesù che segna la fine del naos, poiché il corpo del Cri- sto sarà il tempio nuovo.

La posizione di Marco verso il tempio dove Gesù ha pregato e insegnato è complessa. Non c’è rottura, ma un superamento e un compimento del tema del tempio. Come luogo della presenza di Dio il tempio diventerà un santuario non fatto da mano d’uomo. Come luogo della preghiera di Israele rimane la casa di preghiera per tutti i popoli finché arrivi la fine dei tempi. Il Nuovo Testamento fa vedere l’adempimento delle categorie cultuali e sacrificali – che Israele foca- lizzava sul tempio – in Gesù, il Messia escatologico.

In Mt 12,38 i farisei chiedono un segno a Gesù. Riceveranno solo il segno di Giona. «Ma qui, dice Gesù, c’è più di Giona e c’è più di Salomone», il costrut- tore del tempio.

Per Paolo il nuovo tempio è il singolo credente90 e la comunità dei disce- poli.91

Il Vangelo di Giovanni nel prologo presenta Gesù come colui che ha posto la sua tenda fra gli uomini (eskênôsen). La tenda (skênê) di Dio fra gli uomini è l’incarnazione. Difatti la gloria di Dio si manifesta nei segni che Gesù fa. Il culto autentico non sarà più dato a Dio né a Gerusalemme né sul Garizim, ma visto che Dio è Spirito, gli adoratori adoreranno in Spirito e verità. In Apocalisse di Gio- vanni 21,22 la nuova Gerusalemme che scende dal cielo non contiene il tempio, perché l’agnello immolato è il tempio. I vangeli sono unanimi in questa dottrina.

L’atteggiamento principale di Gesù verso il tempio è positivo. Il Maestro critica quello che accadeva sotto i portici dopo la lotta tra Caifa e il Sanhedrin. Questo doppio atteggiamento verso il tempio era già presente nel giudaismo palestinese del I secolo. La novità che Marco aggiunge è che con Gesù i tempi messianici sono arrivati.

89 Eb 2,10 e 5,11 parlano del teleiôsis (perfezionamento) conferito da Dio a Cristo per la sua morte espiatoria. Egli ha conferito questa consacrazione a coloro che ha santificato e li ha resi perfetti per sem- pre, affinché possano accedere al santuario alla presenza di Dio per mezzo di lui.

90 1Cor 6,19-20. 91 1Cor 3,16.

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Eine weitere Version der Toldot Jeshu MICHAEL KRUPP

1. DIE JÜDISCHE ERZÄHLUNG VON JESHU DEM NAZARENER

Die sogenannten Toldot Jeshu, die Erzählung über den Juden Jeshu,1 der das dem Judentum feindlich gesinnte Christentum geschaffen hat, geht in seinen ersten Erscheinungsformen auf die frühe nachtalmudische Zeit zurück. Aller- dings hat sich bis auf einige aramäsische Fragmente aus der Kairoer Geniza aus dieser frühen Zeit nichts Schriftliches erhalten. Es ist auch zu fragen, ob diese Literatur nicht nur erst mündlich überliefert wurde und sehr viel später schrift- lichen Niederschlag gefunden hat.

Als apokryphes Evangelium oder Antievangelium wird man hier vergeb- lich authentisches Material zum Leben des historischen Jesus finden, wie bereits Albert Schweitzer in seiner Zusammenfassung der Lebenjesuforschung richtig bemerkt: «Dass diese Schrift keine wertvollen Erinnerungenn birgt, dürfte sicher sein». Wenn in letzter Zeit das Interesse an dieser Literatur gewachen ist, hat das andere Gründe.

Nachdem jahrhundertelang die Toldot wegen ihres apologetischen Cha- rakters verketzert wurden, von Christen, aber auch von Juden der Aufklärung, die sich dieses Machwerkes schämten, sind manche Bearbeiter der Texte dazu übergegangen, in den Toldot ein Stück Volksliteratur zu entdecken und die Triebkräfte zu erkennen, die das Judentum hervorbachte, um sich gegen eine mehr oder weniger agressive Judenmission durch christliche Kreise zu wehren. Was dabei in den Hunderten von Jahren und den dutzenden von Versionen her- ausgekommen ist, ist beachtlich. Hier wird eine der vielen Versionen veröffent- licht, die besonders interessant ist, enthält sie doch Andeutungen zu Ort und Zeit, wann diese Traditionen entstanden ist. Es handelt sich um eine Handschrift aus dem Kaukasus. Zuerst aber soll eine Einführung allgemein in die Toldot- Literatur folgen.

1 Ich benutze bewusst die hebräische Form Jeshu auch im Deutschen, um den Helden des jüdischen Volksbuches Jeshu vom Jesus der Evangelien und der Christen zu unterscheiden.

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2. DIE VERSCHIEDENEN VERSIONEN

Die Toldot Jeshu sind in vielen Versionen überliefert, die aber alle bis auf die in Leiden 1705 veröffentlichte Fassung sehr verwandt sind und dieselbe Abfolge der Handlung aufweisen, die hier kurz wiedergegeben werden soll.

Die verlobte oder verheiratete junge Frau Maria, naiv und ahnungslos, wird von einem bösen Nachbarn vergewaltigt, ohne dass sie versteht, was pas- siert, denn sie hält den Eindringling, der sie ausgerechnet in den Tagen ihrer Unreinheit heimsucht, für ihren Ehemann, bzw. Verlobten, dessen Handlungs- weise sie sich nicht zusammenreimen kann. Dieser Vorfall hat Folgen, und aus Angst vor der Schande flieht der fromme Mann nach Babylonien. Der Sohn, Jeschu, Jehoschua oder Jeschua, wird geboren, beschnitten und unterrichtet. Er ist religionsgesetzlich ein Bastard, Hebräisch ein Mamser, jemand, der aus einer verbotenen Beziehung, in diesem Fall Ehebruch, hervorgegangen ist. Damit kann dieser Jeschu nicht in die Gemeinschaft Israels aufgenommen werden und keine Israelitin heiraten. Dieses Problem steht aber nicht zur Debatte. Sein Bastardtum und sein Zustand als einer, der in den Tagen der Unreinheit seiner Mutter gezeugt ist, wird dann auch bald offensichtlich, einmal positiv, weil Jeschu ein sehr kluger und schnell verstehender Schüler ist, zum anderen negativ, indem er sich ungebührlich gegen seine Lehrer benimmt. Nachforschungen stellen dann auch bald fest, wie es sich um die wahre Herkunft dieses «Bastards und Sohn einer Unreinen» handelt.

Jeschu, wie er jetzt durchgehend heißt, ein Schandname, der soviel bedeu- tet wie «sein Name und Andenken möge vernichtet werden» (die Abkürzung von Jimach SHmo Uzikro), verstoßen von seinen Lehrern und Mitschülern, bemächtigt sich durch eine List des «göttlichen Namens» im Tempel und ver- bringt damit derart spektakuläre Wunder, dass die zu der Zeit regierende Köni- gin Helena an ihn glaubt und die Juden bedroht, die ihn nicht anerkennen wol- len. In der Not gelingt es einem der Rabbinen mit demselben göttlichen Namen in einem Luftkampf a la Harry Potter Jeschu zu bezwingen. Nach erneuten Erfolgen und Niederlagen wird Jeschu endlich hingerichtet, in den meisten Ver- sionen nach jüdischem Gesetz gesteinigt und dann aufgehängt nach biblischer Vorschrift, am Abend abgenommen und begraben. Sein Leichnam wird von einem der Rabbinen aus dem Grab geraubt, worauf seine Jünger der irrigen Meinung sind, er sei auferstanden. Aber auch dieses Missverständnis wird auf- geklärt. Damit ist die Geschichte aber noch nicht zu Ende, die immer mächtiger werdenden Christen verfolgen die Juden, und nur durch die Einschleusung ent- scheidender Rabbinen, die mit dem Namen unter den Christen dieselben Wun- der tun wie Jeschu, lassen sich die Christen überzeugen, die Juden in Ruhe zu las- sen. Die Apostel verstehen es, den Christen beizubringen, dass sie nichts mit den Juden zu tun haben, dass sie eine neue Religion sind. Eine christliche Halacha, Gesetzgebung, ermöglicht es Christen und Juden, in Frieden und getrennt von- einander auszukommen.

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M. KRUPP – Eine weitere Version der Toldot Jeshu

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3. HERKUNFT DER TRADITIONEN

In den jetzt greifbaren Versionen scheinen viele und verschiedene Tradi- tionen zusammengekommen zu sein, die zum Teil schwer vereinbar sind. Die Herrscherin der Juden, die Königin Helena, ist eine Kombination der Has- monäerin Alexandra (76-67 v. Chr., die einzige Königin, die über Israel geherrscht hat), Königin Helena von Adiabene, Mitglied der zum Judentum übergetretenen Königsfamilie, die sich zur Zeit Jesu in Jerusalem niedergelas- sen, hier aber nie geherrscht hat, und die nichtjüdische Königin Helena, die Mut- ter des römischen Kaisers Konstantin und fromme Begründerin der heiligen Stätten im Land Israel und Kirchenerbauerin nach der spektakulären Kreuz- auffindung, die in späten Versionen der Geschichte auch vorkommt.

Auch die Gelehrten, die in den Toldot Jeschu vorkommen, reichen von Schimon ben Schetach, dem Bruder der Königin Alexandra im ersten vorchrist- lichen Jahrhundert über Rabbi Akiba, dem Martyrer des Bar Kochba Aufstandes im zweiten nachchristlichen Jahrhundert bis zu Rabbi Tanchuma, einem populären Prediger in Palästina im vierten nachchristlichen Jahrhundert. In der Abfolge der Apostel taucht neben Petrus und Paulus, beides gute Rabbinen, auch der Häretiker Nestorius (4. Jahrh. n. Chr.) auf und in einigen Versionen anstatt Nestorius auch Lutherus. Aber an einer chronologisch richtigen Abfolge des Geschehens waren die Toldot sicher nicht interessiert.

Wenn denn historische Erinnerungen kaum die Herkunft der Erzählung ausmachen, woher hat denn das Volksbuch seine Informationen? Hauptquelle der Toldot sind sicher die verstreuten und uneinheitlichen Aussagen der talmu- dischen Literatur über Jesus und seine Jünger. Vieles darin, und das ist mehrfach wissenschaftlich untersucht worden, hat mit der historischen Gestalt Jesu ursprünglich nichts zu tun, sondern entstammt der Biographie anderer Verführer Israels oder hat einen lehrhaften Charakter, der mit Jesus ebensowenig eine ursprüngliche Verbindung hat. Viel Material in den Toldot ist auch aus talmudi- schen Geschichten entnommen, die auch dort von anderen Personen erzählt sind. Dann mögen andere Erzählungen den Toldot Pate gestanden haben, die nur mündlich umliefen und für die keine schriftlichen Quellen zu finden sind. Manches entstammt auch der heidnischen antichristlichen Apologetik, ist aber in einen jüdischen Hintergrund gestellt worden. Viele Geschichten sind Reaktio- nen auf Geschichten des Neuen Testaments. Dabei ist aber deutlich, dass die Erzähler das Neue Testament nicht selbst gekannt haben. Erst in den späteren Versionen sind eine Reihe ausgesprochener neutestamentlicher Erzählungen aufgenommen worden, wie es ein Vergleich zwischen verwandten Versionen schnell ergibt. Deutlich ist häufig, dass die Auseinandersetzungen zwischen Jeshu und jüdischen Gegnern eine Fülle verschiedener historischer Epochen wider- spiegelt, und jede Neuerzählung bringt ihre spezifische Situation mit in die Geschichte ein. Auch aus diesem Grund ist die Untersuchung dieser Versionen so interessant.

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4. DIE VERBREITUNG

Alle Handschriften sind recht jung. Die ältesten stammen aus dem 16. Jahrhundert. Nur einige Fragmente sind älter, so die aramäischen Fragmente aus der Kairoer Geniza. Die überwiegende Fülle der an die hundert bekannten Handschriften stammt aus dem 19., einige aus den 18. und 17. Jahrhundert. Aber noch im 20. Jahrhundert scheinen die Toldot handschriftlich weitergegeben zu sein. Die meisten Handschriften stammen aus dem Orient. Sie sind in persischen, marokkanischen oder jemenitischen Erzählbüchern, den sogenannten Maase- Büchern erhalten, oder in jemenitischen Gebetsbüchern. So enthält ein Gebets- buch aus dem 19. Jahrhundert2 neben dem maaseh Jeschu hanozri, der Erzäh- lung von Jesus dem Christen, wie es im Orient häufig heißt, auch das Maaseh Ben Sira und den Igeret Eldad ha-Dani, die Geschichte von Eldad, dem Daniten, der die verlorenen 10 Stämme gefunden haben will. Es gibt aber auch jemenitische Gebetsbücher aus dem 17. Jahrhundert, die das Maaseh Jeschu Ben Pandera – so der zweite bevorzugte Titel – enthalten.3 Ein jemenitisches Maasehbuch aus dem Jahr 18024 enthält neben dem Maaseh Jeschu ben Pandira und den oben genann- ten Erzählungen eine Erzählung über die Königin von Saba, die Chronik des Moses, den Midrasch der Söhne Jakobs und ähnliches. In einem anderen Maase Buch, auch aus dem 19. Jahrhundert und dem Jemen5 steht das Maase Jeschu ben Pandira zwischen dem Maaseh Rabbi Bustanai und Maase Nachum Isch Gam- zo, einem Wundertäter aus der Zeit des Talmud. In einer marokkanischen Hand- schrift6 findet sich das Maaseh Jeschu ibn Pandera inmitten von Gebeten und kabbalistischen Texten. In einer griechischen Handschrift7 steht das Maase Jeschu ha-Nozri im Anhang an mystische Gebetstexte (Gebete zur Heiligung und zur Läuterung der Seele), einem kabbalistischem Orakelbuch (Goralot meha-Ari) und Schicksalsbüchern (Segulot). Bis auf die letzte Handschrift han- delt es sich von Persien bis Marokko immer um denselben Text, den der Klassi- ker der jüdischen Leben Jesu Darstellungen, Samuel Krauss noch nicht kannte, und den Michael Higger 1935/6 auf Grund einer jemenitischen Handschrift in New York veröffentlicht hat.

Die Gleichförmigkeit dieser orientalischen Texte, die sich zumindest vom 17. Jahrhundert bis zum 19. nicht verändert hat, zeigt, dass es sich um alte Tradi- tion handelt. Der zuvor deutlich gemachte Kontext, in dem sich diese Erzählung findet, zeigt, und zumal für den Orient, wo es häufig, wie im Jemen, keine Chri- sten gab, dass die ganze Geschichte zu einer Beispielgeschichte eines Menschen gemacht wurde, der an das Ende der menschlichen Legalität gelangt war und in den Konflikten zwischen Gotteskraft und Zauberei umkam und in den Unter-

2 MS Krupp 1190, ehemals MS Mehlmann 15. 3 MS Ben Zwi Nr. 153. 4 MS Krupp 1634. 5 MS Krupp 1136.

6 MS Krupp 881, heute Princeton. 7 MS Krupp 1743, heute Princeton.

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gang fast sein ganzes Volk mitgenommen hat. Wie viele dieser Geschichten konnte das Stoff zum Nachdenken geben, wenn es nicht rein religiöser Unter- haltung diente.

Die Situation war im Abendland leicht verschieden. Hier hat man kaum wörtlich eine Handschrift abgeschrieben, sondern hat an den Texten weiter gear- beitet, einmal literarisch, unterhaltungsmäßig, die Charaktere der Erzählungen genauer gezeichnet, auf der anderen Seite war man in der christlichen Umwelt ständig auf der Hut im Umgang mit der Geschichte und seinen christlichen Nachbarn. Hier hatte der verhandelte Stoff eine ganz andere Bedeutung. Dies zumal, nachdem seit dem 18. Jahrhundert mit der Neubegründung einer starken Mission unter den Juden, die Christen den Juden wieder in die Synagogen kamen und sie belästigten, wie dies in der Antike und im Mittelalter der Fall gewesen war. Die alten Elemente der Erzählung, die von einer Trennung von Juden und Christen sprachen, bekamen dadurch eine neue Aktualität. Das Kennzeichnende der meist osteuropäischen Versionen ist so der stark abwei- chende Charakter der einzelnen Handschriften untereinander von der Wagen- seilschen Ausgabe angefangen bis hin zum Abschluss der Tam umuad Fassung in einer nicht abreißenden Kette von Handschriftvarianten, die alle Stadien des literarischen und theologischen Werdegangs dieser Fassung dokumentieren. Nur ein kleiner Teil dieser Versionen ist bisher veröffentlicht worden.

5. DIE HAUPTDARSTELLER

Da hier nicht der Platz ist, alle Elemente der Geschichte zu besprechen, soll lediglich eine Kurzcharakterisierung der Hauptakteure der Handlung vor- genommen werden: Maria, die beiden Männer, die Jünger und Gegner, zum Schluss Jeschua, Jeschu.

1. Maria-Mirjam. Maria bzw. Mirjam erscheint in allen Versionen in einem sehr positiven Licht mit Ausnahme des Typus Huldreich, Typus III bei Krauss, dem Druck Leyden 1705, der sich aber auch in allen anderen Dingen, vor allem in der Abfolge des Geschehens grundsätzlich von allen Versionen unterscheidet. Der Typus, der nur durch eine Handschrift repräsentiert ist, die Vorlage für Huldreich, die heute als verloren gilt, ist denn wohl auch das schriftstellerische Produkt einer Einzelpersönlichkeit auf Grund der freien Phantasie des Verfas- sers und ist so nicht, wie das gesamte andere Material, gewachsene Traditionsli- teratur, so dass diese Version hier nicht mehr herangezogen zu werden braucht. In dieser Version ist Maria jedenfalls eine bewusste Ehebrecherin, die wissend Ehebruch treibt, ihren Mann, der allerdings ein krankhaft eifersüchtiger Tyrann ist, verläßt und mit ihrem Liebhaber nach Bethlehem flieht.

Im Gegensatz dazu ist in allen anderen Versionen Maria eine fromme Frau, in einigen Handschriften Davidischer Herkunft und eine Verwandte der jüdischen Königin Helena. Schön, fromm und naiv. Sie wird raffiniert von dem

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vor sexueller Begierde zu ihr vergehenden Nachbarn Josef Pandera vergewal- tigt, unter ständigen Protesten, aber ohne dass sie versteht, was vorgeht. Nichts Anstößiges am Mariabild ist festzustellen, obwohl sie natürlich nicht wie im Neuen Testament die Jungfrau der unbefleckten Empfängnis ist. Erst in den spä- teren osteuropäischen Ausgestaltungen des Wagenseil-Typs kommt Maria auf den Stand einer Hure herunter, die, einmal verführt, sich mit jedermann einlässt – so in der Tam umuad Version – nachdem sie auch hier zuvor die unschuldig Vergewaltigte war, aber dann, als sie begreift, dass sie von einem Fremden ver- gewaltigt wurde, bewusst Theater vor ihrem Verlobten spielt.

2. Die Männer. Der Ehemann oder Verlobte ist in allen Versionen der voll- kommene Gelehrte, fromm und naiv. Er weiß sich nicht anders als durch die Flucht nach Babel vor der Schmach zu retten und kommt dann in der Geschich- te nicht mehr vor. Wie in allen Versionen ist der Vergewaltiger ein ausgemachter Schurke, Schürzenjäger und Ehebrecher. In den meisten Versionen hat er den Beinamen Ben Pandera. Der Name Pandera ist eine Verballhornung des grie- chischen Pantheros, des Jungfrauenschwängers, entnommen aus der antichristli- chen Polemik gegen die Jungfrauengeburt des Neuen Testaments. In Origines Schrift Contra Appionem ist Pantheros ein römischer Soldat, der Maria schwän- gert. In allen Toldot Jeshu Versionen kommen die Römer aber nicht vor. Das ganze spielt in einem innerjüdischen Rahmen. Pandera ist zwar ein Schurke, aber ein Jude. Die Römer kommen auch nicht in der Passionsgeschichte nicht vor. Wie im Talmud ist alles ein innerjüdisches Drama.

3. Die Jünger und die Christen. Hier weichen die Darstellungen innerhalb der verschiedenen Versionen stärker ab. Während die Jünger in einigen Versio- nen meist neutral Jünger genannt werden, steht in der Wagenseilschen Fassung und in anderen Versionen meist ha-prizim, Räuber oder Gewaltmenschen. Damit ist das Bild der Jünger von vorneherein negativ belegt. Interessant ist der Gegen- satz zwischen den Jüngern in den früheren Jeshuerzählungen und den späteren und besonders in den Szenen nach Jeshus Tod. Waren es in den frühen Erzäh- lungen irregeleitete Israeliten, so sind es später ein fester Block von Feinden Israels, die anscheinend selber Heiden sind. Sicher hat hier die späte Auseinan- dersetzung zwischen Israel und Heidenkirche ihre Auswirkung auf die Schilde- rung gehabt.

4. Die Gegner Jeschus. Eine Fülle von Namen werden in den verschiede- nen Fassungen für die Gegner Jeschus verwandt, meistens die Gelehrten (Wei- sen), die Frommen, die Ältesten, auch Rabbinen, später häufig Israel oder die Juden. Sie sind die ständig bedrohte Gruppe, die sich ihrer Haut wehren muss, um nicht vernichtet zu werden. Ihre Feinde sind die Königin, oder die Jünger, die mit ihnen Krieg führen. Sie werden besonders nach dem Tod Jeschus von den Jüngern hart bedrängt und können sich nur durch Einschleusung von Rabbinen

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M. KRUPP – Eine weitere Version der Toldot Jeshu

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unter die Christen retten, die den Christen eine neue Lehre vermitteln, damit sie von den Juden ablassen.

5. Jeschua-Jeschu. Jeschu, der negative Held der Geschichte, ist selbstver- ständlich der interessanteste Charakter. Jeschu wird von seiner Mutter Jehoshua oder Jeschua genannt nach einem Verwandten Mirjams, die Rabbinen nennen ihn um, nachdem sie seine wahre Herkunft entdecken und seitdem heißt er nur noch Jeschu, in der Bedeutung der oben zitierten Abkürzung. Interessant ist, dass diesem Jeshu auch immer positive Eigenschaften unterstellt werden. Er ist der klügste Schüler seiner Zeit, dies natürlich als Bastard, aber unbeschadet bleibt die Tatsache an sich.

Diese Klugheit und Schläue, die dann in Verachtung den Lehrern gegenü- ber umschlägt, ist schillernd. Es ist einmal die Bewunderung für eine derartige Begabung. Diese Weisheit hat auf der anderen Seite etwas Satanisches, hängt sie doch mit seiner Bastardexistenz zusammen und mit seiner unreinen Herkunft. Die Wunder, die Jeschu dann tut, und mit denen er Israel bedroht, sind Wunder auf Grund des Gottesnamens, den er sich zu Unrecht und mit einer List ange- eignet hat.

Interessant sind die Schriftzitate, die Jeschu in Fülle auf sich anwendet, in allen Fassungen, wenn auch in unterschiedlicher Quantität. Diese Schriftzitate scheinen alle aus der christlichen Missionspredigt zu stammen, stehen teilweise schon im Neuen Testament. Es ist dies die berühmte Jesajastelle vom Jungfrau- ensohn Immanuel, es sind dies die Königspsalmen, die vom Sohn Gottes reden. Auch die Passionsgeschichte ist voller Schriftzitate, mit denen Jeschu zeigt, dass er leiden muss.

Zusammenfassend ist zu sagen, dass der Jeshu der Toldot eine schillernde Gestalt ist, ein Mensch, kein reiner Satan, mit eher tragischem Geschick. Kein rein schwarzes Bild, wie man es vielleicht erwartet hätte, sondern eins, das menschliche Anteilnahme erheischt. Weder ein Zauberer, noch ein als Götze verehrter Mensch. Seine Wunder beruhen auf einer List, sind aber kein Trug, sondern die Taten des allmächtigen Namens des Gottes Israels.

6. DIE APOSTELGESCHICHTE

Das erstaunlichste an den Toldotfassungen ist aber die Apostelgeschichte, die in den meisten Versionen verhanden ist, in manchen Versionen sogar mehr- fach.

Die Lehre der Pseudoapostel ist kurz die: Die Juden sind die Feinde der Christen, wie Jeschu ein Feind der Juden war. Darum habt mit ihnen nichts zu tun, sondert Euch ab, haltet nicht den Schabbat und ihre Feste, ersetzt sie durch den Sonntag und eigene Feste. Geht nicht in ihre Synagogen, sondern baut Kir- chen. Vor allem aber lasst die Juden in Ruhe, wenn sie euch schlagen, weist eure andere Wange hin. Ihr Christen seid Jünger der Bergpredigt, die gilt es an erster

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Stelle an den Juden zu erfüllen. Der letzte Gedanke ist eine Persiflage auf christ- liche Demut.

In vielen Versionen folgen wie gesagt noch weitere Auftritte von Pseudoa- posteln. Besonders interessant ist die Gestalt Nestors, der kein von den Rabbi- nen eingeschleuster Pseudoapostel ist und vorhat, den Christen wieder jüdische Wurzeln zu vermitteln. Dies widerspricht dem Geist der Toldeot, die ja gerade versuchen, die Christen von den Juden endgültig zu trennen. Nach den Toldot forderte der Ketzer Nestor die Beschneidung von den Christen, denn auch Jeschu war beschnitten. Diese Ketzereien werden in der Wagenseilschen Form durch ein Gottesgericht abgewehrt, indem ein Stein den Frevler erschlägt. In anderen Versionen sind es ganz ungeschichtlich die Frauen, die er von dem Joch der Vielweiberei befreien wollte und dadurch zuerst für sich gewonnen hatte, die ihn aber aus nicht ganz klaren Gründen später umbringen.

7. DAS SPEZIFISCHE DER HIER VERÖFFENTLICHTEN VERSION

Die hier veröffentlichte Handschrift, MS Krupp 2016, stammt aus dem Kaukasus und wurde wahrscheinlich im 19. Jahrhundert geschrieben. Wie aber vieles an den Besonderheiten der Handschrift zu erkennen ist, gehen die zugrun- de liegenden Traditionen auf eine frühe Zeit zurück, vermutlich bis ins sechste nachchristliche Jahrhundert und einen geografisch östlichen Raum.

Im Wesentlichen richtet der Inhalt sich nach den vorgegebenen Richtlini- en der Erzählung ohne nennenswert davon abzuweichen.

Der Mann der frommen Mirjam hat den Namen Joseph Pantera, ebenso von vornehmer Abstammung. Das nun gerade der Mann der Mirjam den Beina- men Pantera erhalten hat, ist erstaunlich, denn den hat sonst immer nur der Ver- gewaltiger. Den Tradenten dieser Version war der Name Pantera, der ja auch schon im Talmud vorkommt, im Zusammenhang mit den Toldot bekannt. Sie haben ihn aber an den falschen Mann geheftet. So heißt Jeshu in dieser Version auch niemals ben Pantera, denn er ist ja gerade nicht der Sohn des Pantera, son- dern Jeshu ha-nozri. In einer anderen Handschrift, die ebenfalls aus dem Kau- kasus stammt8 heißt der Mann der Mirjam auch Josef Pandera. Sonst ist mir keine weitere Handschrift mit diesem Namen bekannt.

Der Vergewaltiger, mit Namen Jochanan, wie in vielen anderen Hand- schriften, ist recht kurz geschildert, dafür aber markant und seine Tat wird hier ausdrücklich Vergewaltigung genannt. Die Unschuld der Mirjam wird ausdrück- lich betont. Ansonsten enthält diese Version zahlreiche Einzelheiten und Son-

8 MS Krupp 2017, jetzt Princeton. Hier lautet die Überschrift wmk yrcwnh w úXy lX wydwpysw wytwdlwt hla wyrwg !b ÷sb hXrdgX. Die letzte Angabe ist wohl gemacht, um der Erzählung größeres Gewicht zu verleihen (so David Flusser in einem Gespräch mit mir), da sie sich in keiner Handschrift des Jossipon findet. In eini- gen Zügen ist diese Handschrift der hier veröffentlichten sehr ähnlich, in anderen aber auch wieder sehr verschieden und überhaupt stark erweitert.

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dertraditionen wie das Fliegenlassen der tönernen Vögel als Wunder Jeshus und des Apostels, entnommen den Kindheitsevangelien und weiteres mehr.

Die Apostelgeschichte kennt nur einen Pseudoapostel, der hier den Namen Jochanan hat. Interessant sind einige der aufgezählten Feste in aramäi- scher Sprache, die einen Aufschluss über das Alter und die geographische Her- kunft der Traditionen geben können.

In den Bibelzitaten ist die Handschrift besonders sparsam und, beabsich- tigt oder nicht, ungenau. Alles in allem trägt diese Handschrift viel zur Anrei- cherung der Toldot-Literatur bei und ist so sicherlich einer besonderen Veröf- fentlichung wert.

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ircunh u`wi hwym 2016 purq i`k ipl hih hlybu Õirm hmw hihu tuyinchu tuankh larwi tunbm htih u`wi Õa ik Õkl ydui Õda utnukwb hihu Õimw ariu tucmbu hrutb qsuy wia arijnp úsui umw hihu sxih iwnam bhau ublb hqwx snknu Õirimb lktsn 'a Õui Õicy wrx utklam hihu uiwymb yr wia dxa ublbw hm hydi al aihu htua ywrh ñnxui ab xjw ñb ñuymw 'r ubr lw d`mhbl hlyb arijnp úsui Ólh 'a hlil ihiu aihu hmy bkwu hb qizxhu hjimh ly hnwi htih Õirmu rukw hihu arijnp úsui tibl snknu ipl ib ygit la ilyb ul trmua htihu aih ywrh ñnxui hydi al ik [auh] aih hlybw hbwx wwx alu uily hpqt urci umw xmi ñnxuiu hdin itwrp tibm taciwk hty hamj inaw ul Ólhu Õimyp inw hmy bkwu hirbdl hlilh hzb Ók tiwy hml inda utwa [ul] hl hrma utibl d`mhbm 'rijnp úsui ab k`xau Ól trmua itiihu hamj itiih inau ily tabu trktwnu ñii htitwu tklh tiwy al Ómim rwa Ól tklhu Õimyp inw imy tbkwu itua tsnau irbdl wwux tiih alu hmx almtn auh ywrh ñnxui 'wym ik ydi ul hrbd rwa utwa irbd ta arijnp úsui yumwk ñudl utua lkun al l`a yruamh lk ul rpsu xjw ñb ñuymw 'r ubr lca Ólhu utwa ta bzyu hwyiw ñkti dxa Õyp hriby hwyiw im Ól ydui xjw ñb ñuymw 'r rma Õidiy alb utua [']a ñidn uxnau Õidiyb utua wuptt trxa Õyp aubi Õa Õibrua ul Õiwt 'a Õyp

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DIE ERZÄHLUNG VON JESHU HA-NOZRI NACH DER HS KRUPP 2016

Es sei euch bekannt, dass die Mutter Jeshus von den aufrichtigen und keu- schen Töchtern Israels war. Ihr Name war Mirjam. Und ihr Mann gehörte zu den Vornehmen und er hieß Josef Pantera, ein Mann, der sich mit der Tora beschäf- tigte und den Geboten, gottesfürchtig. Und in seiner Nachbarschaft lebte ein Mensch, ein böser Mann in seinen Taten, er war ein Tischler. Eines Tages sah er Mirjam und es überwältigte ihn in seinem Herzen eine Begierde. Er liebte sie und sie wusste nicht, was in seinem Herzen vorging.

Eines Nachts ging Josef Pantera, ihr Mann, ins Lehrhaus seines Meisters9 Rabbi Shimon ben Shetach.10 Da kam Jochanan der Schurke11 und trat ein ins Haus Josefs Pantera, er war aber betrunken. Und Mirjam schlief auf dem Bett, er ergriff sie und schlief mit ihr, sie aber dachte, dass es ihr Mann sei, denn sie kannte Jochanan den Schurken nicht. Und sie sprach zu ihm: «Mein Mann, berühr mich nicht, denn ich bin jetzt unrein. Als du aus dem Haus gingst, habe ich meine Periode bekommen». Aber Jochanan, sein Name möge ausgelöscht werden, überfiel der Trieb und er nahm auf ihr Reden keine Rücksicht und schlief mit ihr zweimal und ging seines Weges.

Danach nun kam Josef Pantera zurück vom Lehrhaus zu seinem Haus. Sprach zu ihm seine Frau: «Mein Herr, was hast Du diese Nacht getrieben, was du dein Lebtag nicht getan hast. Du bist gegangen, hast Wein getrunken, dich betrunken und bist zu mir gekommen und ich war unrein. Ich habe es dir gesagt, aber du hast auf mein Reden keine Rücksicht genommen, hast mich vergewal- tigt, hast zweimal mit mir geschlafen und bist deines Weges gegangen».

Als Josef Pantera die Worte seiner Frau, die sie zu ihm gesprochen hatte, ver- nahm, wusste er, dass dies die Tat von Jochanan dem Schurken gewesen war. Er war voller Zorn, verließ seine Frau und ging zu seinem Meister, Rabbi Schimon ben Schetach, und erzählte ihm alles, was geschehen war. Sagte dieser zu ihm: «Wir können ihn ohne Zeugen nicht richten». Und Rabbi Schimon ben Schetach gab ihm den Rat: «Du weißt, wer einmal eine Übertretung begangen hat, wird das wahrscheinlich auch ein anderes Mal tun. Stelle vor ihn Beobachter auf, wenn er ein anderes Mal kommt, fass ihn vor Zeugen und wir verurteilen ihn».

9 Auf Hebräisch Rav, Rabbi oder der Lehrer eines Schülers, hier immer mit Meister übersetzt.

10 Die führende pharisäische Gestalt am Anfang des ersten vorchristlichen Jahrhunderts. Nach einer Tradition war er der Bruder der Königin Alexandra, der Frau Königs Janais (Alexander Jannaeus).

11 Auf Hebräisch resha, Bösewicht, hier ist es immer mit Schurke übersetzt, auch wenn später der Begriff von Jeshu gebraucht wird.

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Da ging Josef Pantera in sein Haus. Seine Frau gebar einen Sohn und nannte ihn Jehoschua nach dem Namen ihres Vaters.12 Später, als die Tatsachen bekannt wurden, änderte man seinen Namen und nannte ihn Jeshu, die Anfangs- buchstaben von «Es möge sein Name und sein Gedächtnis vertilgt werden» (Jimah SHemo Uzikro).

Nach fünf Jahren nahm ihn seine Mutter und brachte ihn zum Lehrhaus, Tora zu lernen, und er war in allem verständig, was sein Meister ihn lesen ließ.13 Zu jener Zeit gingen die Schüler umher angetan mit Zizit und Tefilin auf ihren Häuptern, verbeugten sich vor Gott14 und ehrten ihre Meister.

Und es kam der Tag, dass jener Verruchte, Jeshu, an den Gelehrten ohne jene Bekleidung (Zizit und Tefilin) vorbeiging, mit Stolz und frecher Mine und ohne Gruß niemandem gegenüber. Fing einer der Gelehrten an und sagte: «Es scheint mir, dass er ein Bastard15 und ein Sohn der Unreinheit16 ist». Und so saßen sie vor dem Lehrhaus in Tiberias und dies war das Hauptlehrhaus dort, und Jesus ging auch hier so vorbei an ihnen, und auch sie sprachen: «Es scheint uns, dass er ein Bastard und ein Sohn der Unreinheit ist», wie oben.

Und es war an einem Tag, dass die Schüler vor ihrem Meister saßen und in der Ordnung Neziqin lasen, wälzten Probleme und brachten Lösungen vor – und er ...17 [der Bastard], der Verruchte, brachte Erklärungen hervor ohne Erlaubnis seines Meisters.

Sprach zu ihm ein Schüler: «Sogar, wenn du alles weißt, darfst du keine Lösungen ohne Erlaubnis des Meisters vorbringen, entsprechend dem, was die Gelehrten gesagt haben: “Jeder der eine Halacha lehrt vor seinem Meister, ist des Todes schuldig”».

Antwortete der Schurke und sagte: «Wer ist größer von den Weisen, Mose oder Jetro? Wer ist der Meister, wer ist der Schüler? Wenn ihr sagt, Moses ist größer als Jetro, so lehrte Jetro nach der herkömmlichen Art den Mose. Und wenn ihr sagt, Jetro ist größer als Mose, dann löst ihr die Worte der Tora auf, wenn es heißt: “Kein Prophet wird noch in Israel erstehen wie Mose” (Dtn 34,10) und ebenso sagten die Gelehrten von Mose, dass er der Vater der Weisen und das Haupt der Propheten ist».

12 In anderen Versionen ist es ein fernerer Verwandter.

13 In anderen Versionen heißt es, dass Jeshu an einem Tag mehr lernte als seine Mitschüler in einem ganzen Jahr.

14 Die Abkürzung t úyXh bedeutet wahrscheinlich $rbty ~Xh, der Name, gelobt sei er. In Parallelstel- len anderer Version heißt es hier meistens Gott. In der Folge ist t úyXh immer mit Gott übersetzt. Der nor- mal gebräuchliche Ausdruck ~yhla für Gott kommt in der Handschrift nicht vor.

15 Ein im Ehebruch gezeugtes Kind oder ein Kind aus einer verbotenen Verbindung. 16 Ein Kind, das in den Tagen der Periode einer Frau gezeugt wurde. 17 Hier ist eine Lücke im Text gelassen, die ausgepunktet ist.

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Als die Gelehrten seine Worte hörten, sprachen sie: «Es ist lohnend, Nach- forschungen über ihn anzustellen». Sie schickten einen Boten nach der Mutter und sprachen zu ihr: «Sag uns, dein Sohn, wessen Sohn ist er?». Sagte sie: «Der Sohn Josefs, meines Mannes. Er hat mich schwanger zurückgelassen und ist nach Babel gegangen, und ich weiß nicht, was ihm zugestoßen ist». Sagten sie: «Wir sind dafür Zeugen, dass er ein Bastard ist und ein Sohn der Unreinheit».

Zu dieser Stunde antwortete Rabbi Schimon ben Shetach und sagte: «Ich erinnere mich, dass vor 25 Jahren18 Josef zu mir kam und mir erzählt hat, was damals geschah, was seine Frau ihm berichtet hatte. Aber jetzt, diese Frau ist nicht des Todes schuldig, denn sie wurde vergewaltigt, und sie ist frei von der Todesstrafe». Sagte sie ihnen: «Ich hatte das Gefühl, dass Jochanan der Schurke es war, und jetzt, das ist Jeshu ha-Nozri, denn seine (Jochanans) Sünde ist größer als man sie ertragen könnte». Und sie bekannte, dass er ein Bastard ist und ein Sohn der Unreinheit. Die Gelehrten aber wollten ihn (Jeshu) umbringen, weil er Halacha gelehrt hatte vor seinem Meister gemäß dem, was unsere Weisen im Tal- mud im Traktat Schabbat gesagt haben, denn er war sehr bewandert in der Tora und in der Weisheit. Er floh und ging nach Jerusalem.

Und es gab eine Frau, die über das Land herrschte, und sie hieß Königin Helene.19

Es gab aber im Haus des Heiligtums den Gründungsstein,20 und dies ist der Stein, den Jakob, unser Vater, als Stele aufgestellt und Öl über seine Spitze gegossen hatte, und darauf war der erklärte (göttliche) Name (shem hame- forash)21 geschrieben. Die Gelehrten aber fürchteten, dass die Jünglinge Israels ihn lernen und damit die Welt zugrunderichten könnten. Sie stellten zwei Löwenbilder aus Kupfer her und stellten sie auf und hingen sie beim Tor gegenü- ber dem Eingang zum Tempel auf. Und jeder Mensch, der dort hineintrat und (den Namen) lernte, wenn er hinausging, brüllten die Löwen gegen ihn und er vergaß es (was er gelernt hatte).

18 Nach den meisten anderen Versionen 30 Jahre. Vorher war von 5 Jahren die Rede, mit denen Jeshu ins Lehrhaus kam. Jetzt war er also inzwischen 25 oder 24 Jahre alt.

19 Vgl. die Einleitung, Helene oder Helena ist eine Mischung aus drei verschiedenen Frauen aus 5 Jahrhunderten.

20 Auf Hebräisch even ha-shtija, ein mythologischer Stein im Tempel an der Stelle, an der früher die Bundeslade stand und von dem aus die Welt gegründet wurde. Vgl. Schir ha-Schirim Rabba, Parascha 3, zu 3.10, Ausgabe Wilna 22b.

21 Der mystische Name Gottes, der nicht ausgesprochen werden durfte. Nach einer Tradition bestand er aus 24 Buchstaben, es gibt aber andere Traditionen. Jedenfall konnte der Besitzer dieses Namens Wunder bewirken wie Gott selbst.

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Was tat Jeschu? Er ging hinein und schrieb ihn (den Gottesnamen) auf ein Pergament, schnitt seinen Arm auf und tat ihn hinein, holte ihn dann heraus und lernte ihn. Er ging, sammelte ein paar Gewalttäter22 aus Israel23 und sprach zu ihnen: Es sei euch bekannt, was das Volk der Gelehrten Israels getan hat, die mich töten wollten, und ihr wisst nicht, was über mich geweissagt worden ist über den Messias und zu den Propheten24 und ich bin es, was über den Messias (gesagt ist), und zu den Propheten, und von mir ist gesagt, der Messias wird kommen, Zeichen und Wunder tun, und von mir handelt der Spruch: Und er wird im Land sein «mit dem Stab seines Mundes» (Jes 11,4).25 Und ich wecke Tote auf mit den Worten meines Mundes.

Da erhoben sich die Gewalttäter, versammelten sich um ihn und gingen zur Königin, und er tat Zeichen und Wunder vor den Augen von ihr. Da ver- wunderte sie sich mit großem Erstaunen und glaubte an seine Worte. Sie verstieß Israel und er erzählte der Königin alles, was die Gelehrten Israels mit ihm gemacht hatten. Da schickte sie nach ihnen und versammelte sie. Und Jeshu tat Zeichen und Wunder und sie hatten nichts zu erwidern vor der Königin. Da gin- gen die Ältesten Israels weg von der König mit gedrücktem Geist.

Was tat Jeshu der Schurke? Ging und sammelte um sich einen großen Haufen und ging nach Obergaliläa, nach Zefat.

Dann versammelten sich die Gelehrten Israels bei der König und spra- chen: «Unsere Herrin, die Königin, er hat einen Zauber und mit dem Zauber verführt er die Menschen, und dieser ist geflohen».

Was tat die Königin? Schickte nach ihm Reiter, ihn herbeizubringen. Gin- gen die Reiter weg und fanden ihn, wie er die Bewohner Galiläas verführte. Und so sprach er zu ihnen: Ich bin der Sohn Gottes. Als die Gewalttäter, die mit ihm waren, die Reiter sahen, die ihn verfolgten, erhoben sie sich, um Krieg gegen sie zu führen. Sprach zu ihnen Jeshu: «Beim Leben meines Vaters im Himmel, fangt mit ihnen keinerlei Streit an, denn er (mein Vater) wird mich aus ihrer Hand erretten».

Die Leute aus Galiläa machten Formen aus Ton, und er rief den Namen darüber und sie flogen in die Luft.26 Sie aber kamen und knieten vor Jeshu.

22 Auf Hebräisch pritzim, Räuber, Gewalttäter, ein häufiger Ausdruck für die Jünger Jeshus, vgl. die Einleitung.

23 Hier in der Anfangsphase handelt es sich also bei den ersten Jüngern Jeshus um Juden. Später scheinen es mehr Heidenchristen zu sein, die eindeutig gegen Israel oder gegen Juden stehen.

24 Das Hebräische el ha-meshiah und el ha-neviim kann auch mit Gott Messias und Gott der Pro- pheten übersetzt werden.

25 Wie so häufig in dieser Handschrift ist der Schreiber bei den Bibelzitaten sehr ungenau. Dies lässt auf eine mündliche Übernahme schließen oder seine Vorlage war sehr schlecht geschrieben. Große Bibel- kenntnis beweist der Abschreiber oder Überlieferer damit nicht. Das Zitat heißt richtig jbXb #ra hkhw wyp. Als Bibelstelle ist hier jeweils durch Kursivdruck nur das hervorgehoben, was mehr oder weniger dem Bibeltext entspricht.

26 Dieses Motiv, das sich in den meisten anderen Versionen nicht findet und später noch einmal wie- derholt wird, stammt aus den christlichen apokryphen Kindheitsevangelien (Kindheitsevangelium des Tho- mas).

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Sprach Jeshu zu den Reitern: «Sagt diesen Menschen, dass sie einen Mühl- stein bringen und ihn ins Meer werfen sollen». Da gingen sie hin und brachten einen Mühlstein wie ein Affenmensch27 und warfen ihn ins Meer. Was tat er? Rief den Namen darüber aus, und er schwamm auf dem Wasser. Er aber ritt dar- auf und sprach zu den Reitern: Geht ihr auf dem Trockenem, und erzählt der Königin, was ihr mit eigenen Augen gesehen habt. Da verwunderten sich die Reiter und gingen vondannen und erzählten der Königin alle Zeichen und Wun- der, die er getan hatte. Sie verwunderte sich mit großem Erstaunen, sandte nach den Gelehrten Israels und sagte ihnen: «Ihr sagt, dass er ein Zauberer ist. Das ist er nicht, sondern der Sohn Gottes, wie er gesagt hat». Sagten sie: «Glaub ihm nicht, er ist ein Zauberer». Aber wenn er ein anderes Mal kommt und seine Kraft in der Menge offenbart, ist er gewiss der Sohn Gottes.28

Was taten die Gelehrten? Sie gingen und brachten einen Gelehrten und sein Name war Jehuda Tabariota29 und führten ihn zum Tempel und dort lernte er den erklärten Namen, wie es Jeshu getan hatte. Und sie brachten ihn vor die Königin und sie schickten und brachten auch Jeshu vor die Königin. Und er kam und seine Freunde, die Gewalttäter. Und dies, als der Schurke sah, das über ihm die Bosheit zusammenbrach von Gott her, und er wusste, dass Israel ihn töten würde, sprach er folgende Verse: «Mich haben Hunde umringt usw» (Ps 22,17) und er sagt: Wenn ich zum Himmel hinaufsteige, «bist DU da usw» (Ps 139,8),30 und Jeremia sagt von mir: «Fürchte dich nicht vor ihnen, damit ich dich nicht fürchten lasse vor ihnen», und Saul sagt von mir: «Denn er nimmt mich auf, Sela».31

Als er sah, dass es ihm sehr eng wurde, breitete er seine Flügel [Arme] aus wie die Flügel eines Adlers, flog in die Luft und stieg zum Himmel auf. Sprachen die Gelehrten zu Rabbi Jehuda Tabariota: «Geh ihm nach». Rief auch er den erklärten Namen, flog und stieg nach oben ihm nach. Und beide stiegen empor, dieser nach jenem, und keiner von beiden konnte das oder jenes tun.32 Was tat Jehuda Tabariota? Er urinierte33 auf Jeshu ha-Nozri. Da floh von ihm das Geheimnis und er fiel auf die Erde.34

27 Mit Affenmenschen sind normalerweise Gorillas gemeint. Sie sind hier vielleicht wegen ihrer Stärke angeführt, um zu sagen, dass der Mühlstein sehr schwer war.

28 Der letzte Satz ist wohl Ansicht der Königin, oder ihr Ausspruch.

29 Häufig fehlt der Beinme. Tabariota ist eine Verballhornung von Ishkariot, wie er so in anderen Versionen erscheint. Der Abschreiber oder sein Vorgänger hat den Namen verlesen, beeinflußt vielleicht auch von dem Ort Tiberias. Der Name ist selbstverständlich aus dem Neuen Testament übernommen.

30 In der Bibelstelle heißt es ~X hta ~ymX qsa ~a, was immerhin inhaltlich dasselbe ist, nur in klas- sischerem Hebräisch, das nicht geläufig ist. Vielleicht ist so diese Veränderung beabsichtigt gewesen.

31 Dieses Zitat stammt aus dem Psalm der Söhne Korachs. Saul kommt in dieser Stelle nicht vor, sondern she’ol, die Unterwelt.

32 Weil sie beide mit dem Namen operierten.

33 Nach anderen Versionen, er ließ seinen Samen auf ihn fallen und verunreinigte ihn dadurch. Die Verunreinigung ist jedenfalls gemeint.

34 In den meisten anderen Versionen fallen beide auf die Erde, da ja Jehuda dadurch auch unrein geworden ist und die Wirkung des Gottesnamens damit beendet war.

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Vangeli e tradizioni

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htihu xsph gx ta guxl Õilwuril hlyn umuq uirbxl rma tbwh Õui hnwh htua xsph lxu ul uih Õidimlt b`iu tuam wulw uidimltu auh ab wrupmh Õw dumliu duy snkiw utnukk ab u`wiw urmai alw idk uidmltl yibwhu 'a wublm Õiwbul Õluk uih Õilwuri Óutb urywb unmy hwyt ul urma unmy ab ywrh u`wi hnh larwil rmau asum umwu uidimltm 'a ab unmy ukl Õta rma Õda Õuwl uhnilgn alw turbd trwyb Õiybwum una Õhl rma unl uhart dsx hwyu u`wi auh ik uyd uruxal itrzxu ul ituxtwh ina itua uarwku Õkinpb auba inau Õlca xiwm htaw Ómcy ly trmaw auh hta urmau utua usptu u`wi auh hzia Õimkx uydi Ók ul hih alu umcyb hmt hyw htuab hwuy tiih rwa Õitpumhu Ótutua riai t`iwh ñb htau Õkdi rman Õhily rmau Õuih lk ungruhi Óily ik h`ymhd rma ily rma hl biwiw hbuwt

ualm Õimd rzg Ñyh ly larwi utua ultiw úus úus hih ydui ywrh hzu Ñyh ly tultl idk utua uxql tunla upug ta lbq alu uitxt Õirbwn uihi upug ta ulbqi alw tunla inim lk ly Õduqm xsp bry hihu bryh dy burx lw ñlia ly utua ultu uily rzg alw burx lw ñlia rawnw :utua urbqu unrbqt rubq ik Ñyh ly utlbn ñilt al 'anw utua urbqiw idk utlbn uhdiruhu uacm alu rbqh uta [t]uarl uirbx uklh 'a Õui

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M. KRUPP – Eine weitere Version der Toldot Jeshu

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Da ergriffen ihn die Gelehrten und brachten ihn vor die Königin. Sie spra- chen zu ihr: «Ein Mensch, der wie dieses tun kann, ist nicht mehr (der Messias)». Danach befahl die Königin, ihn an einem Baum aufzuhängen.35 Sprach er zu seinen Freunden: «Über mich hat König David, Friede über ihm, geweissagt: Wer steht mir bei “gegen die, welche mir Böses wollen”? (Ps 94,16),36 Und über

mich hat der Alte geweissagt: “Ihr Angesicht (ist härter) als Felsen” (Jer 5,3)». Und danach sagte die Königin zu Israel: «Hier, er ist in euren Händen, was ihr ihm tun wollt, ist gut in meinen Augen». Sie nahmen ihn und brachten ihn in die Synagoge von Tiberias und banden ihn an eine Säule.37 Sie schlugen ihm mit einem Zepter von einem Granatapfelbaum auf sein Haupt. Er bat um Wasser und sie gaben ihm Essig in einem Kupfergefäß. Sprach er: Über mich ist gesagt:

«Und für meinen Durst gaben sie mir Essig zu trinken» (Ps 69,22). Da versammelten sich alle seine Freunde, die Gewalttäter, ihn zu retten. Und sie brachten Aufspaltung und Streit gegen Israel. Es gab einen großen Krieg zwischen ihnen und die Gewalttätigen siegten über Israel. Er aber sprach zu ihnen: «Über mich hat Jesaja geweissagt: “Ich bot meinen Rücken dar denen, die mich schlugen, und meine Wange denen, die mich rauften” (Jes 50,6). Und über mich heißt es: “Der Gesalbte des Herrn ist gefangen in ihren Gruben” (Echa

4,20)». Danach stand er auf und floh, er und seine Schüler, ins Ausland,38 nach

Antiochien und saßen dort.

35 Die Talmudtradition lässt Jeshu erst aufhängen, nachdem er gesteinigt wurde. Das entspräche dem biblischen Gebot. Aufhängen ist keine von den in der Halacha genannten vier Todesarten, mit denen Kapitalverbrechen zu sühnen sind. Übrigens genausowenig wie die Kreuzigung. Allerdings ist diese eine römische Strafe und hat sich nicht nach jüdischem Recht zu richten. Hier aber bewegt sich die Geschichte ganz im jüdischen Kontext. Allerdings ist wohl den Erzählern selber nicht klar, wer eigentlich die Königin Helene ist, eine jüdische oder nichtjüdische Königin.

36 Im Bibeltext heißt es yl ~wqy ym.

37 Diese Säule in Tiberias kommt in manchen Versionen vor und muss eine bestimmte Rolle gespielt haben. Überhaupt wechselt der Schauplatz sehr abrupt zwischen Jerusalem und Tiberias, dem späteren jüdi- schen Zentrum in talmudischer Zeit.

38 Wörtlich: «Jenseits des Meeres», dies ist aber häufig eine Chiffre für Ausland.

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Vangeli e tradizioni

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al uirbx uabwku Õw utua rbqu Õim lw tquwh ta rpxu Ólh 'a lil 'a iduhi hwy hm lca Õimwl hly Õiduhih ugrhw xiwmh hklmh untinuda urma hklmh lca uklh utua uacm rbqb uniau rtui hwy utum irxa Õgu tutua hwy uiixb uiba uhaicuhu ukl hrma rbqb urma auh ñakh Õtgrhw xiwmh Õhl hrma Õiduhih rxa hxlw hm Õiydui uih alu hzl hz uhmt acmn alu rbqh la Õiduhih uklh haraw il uhaibhu ñmz unl int lba ul yria hm unydi al urma hklmh lca urzx tuwyl Õikub uihu dyumh luxb tulil 'gu Õimi hwulw tinyt urzgu larwi imkx ucbqtn hwyn hm umcyb 'a lk uxrbu umq Õhl hntnw ñmzh imi umilwhwk larwi ianuw ly hrzgh inpm Õiqycu hihu Õxl udibu 'a Õda har tinytb hkubu Óluh hihu amuxnt 'r umwu 'a Õda Õhinib uihu una ñia u`wi lw ñiiny ly l`a hml ul l`a lkua htau rycb larwi lk ywr l`a lkua auh hnh l`a ñia l`a hyuwt i`y larwil hihi u`wi Õkl hara Õa l`a ub yria hm Õiydui utua itnmju utua itxql uirbx utua ubngi alw itari inau tquwh Óutb ilca ñumj dy uhaibtu uilgrb lbx urwqu utua uacmu urpxu uabu larwi ta rwibu amuxnt 'r Ólh Õimwl Ól trmaw auh uz hklmhl Õimkx urma utua hrikh htarwk hklmh

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M. KRUPP – Eine weitere Version der Toldot Jeshu

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Und in diesem Jahr fiel das Passah auf den Schabbat.39 Er sprach zu seinen Freunden: «Steht auf, lasst uns nach Jerusalem hinaufziehen, um das Passafest zu feiern». Seine Absicht war, noch einmal (in den Tempel) hineinzugehen und den erklärten Namen zu lernen. Kam er und seine Schüler. Dreihundert und zwölf Schüler hatte er entsprechend (der Zahl) seiner Haare.40 In Jerusalem waren alle mit der selben Bekleidung angetan. Er hatte sie schwören lassen, nicht zu sagen, dass Jeshu mit ihnen kam. Kam einer seiner Schüler mit Namen Musa41 und sprach zu Israel: «Hier, Jeshu der Schurke kommt mit ihnen». Sprachen sie zu ihm: «Erweise uns eine Gunst, zeig ihn uns». Sagte er ihnen: «Er hat uns beschworen bei den zehn Geboten, dass wir es keinem Menschen offenbaren». Er sagte: «Ihr geht eures Weges und ich werde vor euch da sein, und wenn ihr mich seht, wie ich mich vor ihm verbeuge und ich dann zurücktrete, wisst, dass dies Jeshu ist». Und so machten sie es. Da wussten die Gelehrten, wer Jeshu ist. So ergriffen sie ihn und sprachen: «Bist du der, der du von dir gesagt hast, dass du der Messias und der Sohn Gottes bist. Lass leuchten deine Zeichen und Wun- der, die du getan hast». Zu dieser Stunde war er selbst verblüfft und er hatte keine Antwort zurückzugeben. Sprach er: «Über mich sprach König David, Frie- de über ihn: “Um deinetwegen werden wir getötet den ganzen Tag” (Ps 44,24) und er sprach: Über euch heißt es: “Eure Hände sind voller Blut” (Jes 1,15)».

Sie nahmen ihn, um ihn an einem Baum aufzuhängen. Aber dieser Schur- ke hatte sein Ende vorausgesehen, dass Israel ihn an einem Baum aufhängen werde. So hatte er vorher allen möglichen Bäumen befohlen, seinen Leichnam nicht zu akzeptieren, sie sollten unter seiner Last zerbrechen. Und so nahmen sie seinenLeichnahmnichtan.VondenBäumen,dieübriggebliebenwaren,warder Johannesbrotbaum,42 dem er nicht befohlen hatte. So hängten sie ihn an einem Johannesbrotbaum auf (und ließen ihn dort) bis zum Abend. Und es war Pas- saabend. Sie nahmen seinen Leichnam ab, um ihn zu begraben, wie es heißt: «Sein Leichnam soll am Baum nicht über Nacht hängen, sondern begraben wer- den» (Lev 21,23). Und sie begruben ihn.

An einem Tag gingen seine Freunde, um jenes Grab zu sehen und fanden ihn nicht.

39 Entsprechend der Talmudstelle Sanhedrin 43 a, HS Florenz 9. Vgl. mein Buch, der Talmud, 3. Aufl. Jerusalem 2005, S. 183. Interessanterweise deckt das den Bericht des Johannesevangeliums gegen die syn- optischen Evangelien.

40 Diese Angabe kommt auch in anderen Versionen vor, allerdings ohne Begründung. 41 So in keiner anderen Version, soweit mir bekannt. 42 In den anderen Versionen, in denen diese Szene vorkommt, ist immer von einem Kohlstengel die

Rede. Vielleicht ist dies auch hier ursprünglich und eine Verlesung oder ein Verhören des Abschreibers, denn die hebräischen Namen Keruv und Heruv sind sehr ähnlich.

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Vangeli e tradizioni

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uaci k`xau Õhruxal urzxu uwiibtn Õhl utua htarhu Õicirph irxa hklmh hxlw k`xau ywrh u`wi uhz uinpl Õiaruqu uilgrb utua Õikwum uihu hklmh inplm bl buju Õixmw larwi h`yr hwm trutbu h`b rpk rwa hdin rbu rzmmh utua uaicuhw Õuiu ñsinb d`i hih ñtua ultw Õuiu atizrup umwu rxa Õuqmb utua urbq k`xau ñsinb Õirwy hih ñm Õhm wi 'a Õuqml Ólh Õhm dxa lk Õluyb urzptnu uxrbu umq ul yria Ók uidimlt uarwk Õurdl Õhm ñupcl Õhm Õih iial Õhm jrra irhl Õhmu idml Õhm wiu lbbl uklh xiwmh ta Õtimh Õta Õhl Õirmuau larwil Õirycm uihu k`hbl larwi Õy Õisnkn uihu al hlipt alb hmimt hnw urawnu Õhmy hrc larwil hihu hlipth ñm larwil Õiynum uihu untum buj hlipth ñm Õiljb hihn unxna itm dy hzl hz larwi urma k`xau llk ullpth uniixm itiih bh`uyl itua lbqi h`bqhw ydui itiih ilua larwil rma ñnxui 'r umwu dxa wia ab Ól huqn unxna Õimkx ul urma Õilarwi ñib aublm Õtua ynum

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M. KRUPP – Eine weitere Version der Toldot Jeshu

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Was hatte ein Jude gemacht? Eines Nachts war er gegangen und hatte einen Wassergraben ausgehoben und ihn dort beerdigt.43 Als nun seine Freunde kamen, fanden sie ihn nicht, gingen zur Königin, sagten: «Unsere Herrin, die Königin, der Messias, den die Juden getötet haben, ist zum Himmel aufgestiegen zu seinem Vater. Zu Lebzeiten hat er Zeichen getan, aber nach seinem Tod hat er mehr getan und er ist nicht im Grab».

Schickte sie nach den Juden, sagte zu ihnen: «Der Messias, den ihr getötet habt, wo ist er?». Sagten sie: «Im Grab». Sagte sie: «Geht, holt ihn heraus und bringt ihn mir, damit ich es sehe». Da gingen die Juden zum Grab und fanden ihn nicht. Wunderten sie sich einer mit dem anderen und wussten nicht, was tun. Sie kamen zur Königin zurück, sagten: «Wir wissen nicht, was mit ihm geschehen ist, aber gib uns Zeit».44

Was taten sie? Es versammelten sich die Gelehrten Israels und verfügten ein Fasten von drei Tagen und drei Nächten während der Halbfeiertage. Und sie weinten und schrien wegen der Verfügung über die Feinde Israels.45 Als die Zeit der Tage um war, die sie ihnen gegeben hatte, standen sie auf und flohen, ein jeder für sich.

Unter ihnen war ein Mann mit Namen Rabbi Tanchuma,46 und er ging daher und weinte in der Fastenzeit. Da sah er einen Mann und in seiner Hand ein Brot und er aß. Sagte er ihm: «Schurke, ganz Israel ist in Not und du isst». Sagte er ihm: «Warum?». Antwortete er ihm: «Wegen der Sache mit Jeschu, wir wissen nicht, was mit ihm geschehen ist». Sagte er ihm: «Wenn ich euch Jeshu zeige, wird dann eine Rettung deswegen für Israel kommen?». Antwortete er ihm: «Ja». Sagte er ihm: «Hier, er ist bei mir beerdigt im Wasserkanal. Und ich fürchtete, dass ihn seine Freunde stehlen könnten, und habe ihn genommen und beerdigt».

Ging Rabbi Tanchuma weg und brachte die frohe Nachricht Israel. Da kamen sie, gruben und fanden ihn, banden ein Strick um seine Füße und brach- ten ihn zur Königin. Als sie ihn sah, erkannte sie ihn. Sagten die Gelehrten zur Königin: «Das ist es, dass man dir gesagt hat, (er ist) zum Himmel (gefahren)».

Danach schickte die Königin zu den Gewalttätern und zeigte ihnen den (Leichnam). Da schämten sie sich und gingen rückwärts heraus. Aber Israel zog danach fröhlich umher und guten Muts vor der Königin. Und sie zogen ihn an seinen Beinen und riefen vor ihm aus: «Dies ist Jeshu der Schurke, der Bastard und Sohn der Unreinheit, der gegen Gott gesündigt hat und gegen die Tora Moses, unseres Meisters, Friede über ihn».

43 Die Tradition vom Grabraub, dieses Mal durch einen Juden, in anderen Versionen hat er den namen Jehuda, ist eine der ältesten Traditionen und wird schon im Neuen Testament erwähnt. Matthäus 27,62-66; 28,11-15. In anderen Versionen hatten es die Jünger wirklich vor, den Leichnam Jeshus zu rauben. Was hier nicht der Fall ist.

44 Hier ist eine Verkürzung eingetreten, wie es im weiteren Verlauf auch klar wird. Die Königin setzt den Juden eine Frist von drei bzw. sieben Tagen. Wenn sie innerhalb dieser Zeit den Leichnam nicht her- beibringen können, will sie alle Juden umbringen lassen.

45 Sonst meist mit «Hasser Israels» wiedergegeben, euphemistisch. Gemeint ist Israel selbst.

46 Rabbi Tanchuma ist eine wichtige rabbinsche Gestalt und Bibelausleger im 4. Jahrhundert u.Z. Nach ihm sind Midraschim genannt. Vermutlich wollte man einen sonst sehr bekannten Namen wählen.

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M. KRUPP – Eine weitere Version der Toldot Jeshu

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Und danach begruben sie ihn an einem anderen Ort und sein Name ist Porsita.47 Und der Tag, an dem sie ihn hängten, war der 14. Nissan48 und der Tag, an dem sie ihn herausholten, war der 20. Nissan.49

Als seine Schüler sahen, was sich mit ihm ereignete, standen sie auf und flohen und zerstreuten sich in der Welt, jeder von ihnen ging zu einem anderen Ort. Einige gingen nach Babylon, einige nach Medien, einige zum Berg Ararat, einige auf die Inseln des Meeres, einige nach Norden, andere nach Süden.50

Und sie gingen mit Israel in ihre Synagogen und sie setzten Israel zu und sagten ihnen: «Ihr habt den Messias getötet».51 Sie wehrten Israel zu beten und Israel hatte Not mit ihnen. Sie blieben ein ganzes Jahr ohne Gebet und beteten überhaupt nicht.52 Da sagte Israel einer zum anderen: «Wie lange noch sollen wir ohne Gebet sein? Besser ist es zu sterben als zu leben».

Da kam ein Mann mit Namen Rabbi Jochanan.53 Er sprach zu Israel: «Vielleicht, wenn ich wüsste, dass der Heilige, gelobt sei er, mich in die kom- mende Welt aufnehmen würde, könnte ich verhindern, dass sie sich unter die Israeliten mischen». Sprachen zu ihm die Gelehrten: «So hoffen wir es für dich».

Als Rabbi Jochanan die Worte der Gelehrten hörte, stand er auf, reinigte sich,54 rief den erklärten Namen und flog zwischen Himmel und Erde und stieg herunter zwischen den Gewalttätigen. Sprachen sie zu ihm: «Wer bist du?». Sagte er ihnen: «Ich bin ein Gesandter Gottes und der Geist hat mich aufgehoben und ich hörte eine Stimme, die mir sagte: Nimm dieses Buch55 zu dir und verkündige ihnen den Weg, auf dem sie gehen sollen, und sie sagte mir: Ich habe ihnen den Messias Gottes gesandt und die Juden haben ihn getötet».

47 Auch dies scheint eine alte Überlieferung zu sein, deren Ursprung mir nicht bekannt ist. Vielleicht ist es verderbt wie vieles in dieser Handschrift und gemeint ist Golgota. Immerhin müsste man gewusst haben, dass ein Grab Jesu, wenn auch ein leeres, in Jerusalem verehrt wurde. Auch diese Ortsbezeichnung ist mir nur aus dieser Handschrift bekannt.

48 Das ist der Abend des Pessachfestes. Dies entspräche wiederum dem Johannesevangelium gegen die Tradition der synoptischen Evangelien, obwohl dies sicher wie die ganzen Toldot keinen Anspruch auf historische Richtigkeit hat.

49 Auch diese Tradition ist mir nur aus dieser Handschrift bekannt.

50 Die letzte Bestimmung ist sehr generell, die anderen Angaben aber bezeichnen die Ausbreitung des Christentums in den ersten nachchristlichen Jahrhunderten und zeigen, dass die Traditionen der Toldot sehr alt sind. Der Berg Ararat bezeichnet das Armeniertum, das als erstes das Christentum als Staatsreligi- on annahm.

51 Hier ist noch nicht vom Gottesmord die Rede.

52 Auch dies ist eine besondere Tradition dieser Handschrift. In Parallelversionen wird allgemein von einer Bedrückung der Juden durch die Christen gesprochen.

53 Es folgt die sogenannte Apostelgeschichte. Hier wird nur eine Tradition mitgeteilt. In anderen Versionen sind es mehrere sich abwechselnde Gelehrten, die als Gesandte Israels die Christen dazu bewe- gen, die Juden in Frieden zu lassen. In anderen Version ist es nicht Rabbi Jochanan, sondern Elia, Petrus oder Paulus und andere.

54 Er reinigt sich, um den Tempel, vielmehr das Allerheiligste zu betreten. Dies wird zwar nicht mit- geteilt, ist aber vorausgesetzt, was in anderen Versionen expressis verbis erwähnt wird, dass sich Rabbi Jochanan auf dieselbe Weise wie zuvor Jeshu oder Rabbi Jehuda den Gottesnamen im Tempel erwirbt.

55 Auch dies ist eine Sondertradition dieser Handschrift. Der Pseudoapostel bringt nicht nur eine mündliche Lehre angeblich von Jeshu, sondern auch ein Buch. Vielleicht ist hier das Neue Testament gemeint.

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Vangeli e tradizioni

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M. KRUPP – Eine weitere Version der Toldot Jeshu

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Zur selben Stunde brachten sie einen Aussätzigen und er heilte ihn. Sie brachten ihm Ton und machten daraus Figuren wie Vögel und er ließ sie fliegen, wie Jeshu getan hatte.56

Da glaubten sie an ihn und sagten ihm: Alles was du uns sagst, empfangen wir, und ein jeder, der gegen dich seinen Mund erhebt, soll sterben.

Sprach er zu ihnen. So hat mir der Messias befohlen, wenn euch die Juden auf die eine Seite schlagen, gib ihm die andere Seite;57 und wenn er euch ver- flucht, reagiert nicht darauf; jeder, der den Schabbat heiligt, ist abtrünnig, aber haltet den ersten Tag (Sonntag), wie Jeshu ihn gehalten hat.58 Haltet nicht die Festzeiten und Feiertage mit den Juden, denn sie beten wie Halsstarrige, weil sie nicht an den Messias Jeshu glauben. Und fastet 50 Tage59 außer einigen beson- deren Tagen. Und esst kein Fleisch weder am vierten Tag (Mittwoch) noch am fünften Tag (Donnerstag).60

Und heiligt den ersten Tag (Sonntag), weil Jeshu an ihm zum Himmel gefahren ist zu seinem Vater.61 Und haltet anstatt Neujahr das Fest der Kreuz- niederlegung (ashkivta detzliba)62 und statt des Fastens am Versöhnungstag das Fest des Fastens der Gerichtsentscheidung (Tzoma debar gezur dina) und anstatt Hanukka Pele, eine Speise. Arten von Tieren und Arten von Vögeln, alle sind euch erlaubt.

Und noch hat mir Jeshu befohlen, dass ihr keinem Juden in der Welt Scha- den zufügt und akzeptiert sie und ihre Söhne und alle, die sie begleiten.

Und der große Priester baute ihm ein Haus63 und dort saß er und Rabbi Jochanan gab ihnen Gebote.

Und danach kam er zu seinem Ort in Frieden, und sie hielten, was ihnen Rabbi Jochanan befohlen hatte.

Und das ist, was Israel widerfuhr durch den Schurken, den Bastard, den Verruchten, Jeshu, der gegen die Tora des Herrn und die Propheten sich vergan- gen hatte.

56 Das Motiv war ja schon einmal vorher erwähnt.

57 Dieses Stück aus der Bergpredigt, Mt 5,39, kommt in vielen Versionen vor. Dies Wort hat wohl in der antiken Welt besonderen Eindruck gemacht und wird hier zum Schutz der Juden vor den Christen ange- führt. Auch im weiteren sind einige Gebote eher an einen christlichenen Leserkreis bestimmt.

58 Später wird eine andere Begründung gegeben, dass Jesus am Sonntag zum Himmel gefahren ist. Im Erstdruck der Toldot von Wagenseil wird der Sonntag damit begründet, dass es der erste Schöpfungstag ist.

59 Die Fastenzeit von Aschermittwoch bis Ostern.

60 Dies ist vielleicht ein Missverständnis. Normalerweise wird von Montag und Donnerstag als Fast- tagen gesprochen.

61 In anderen Versionen, die mit der christlichen Tradition mehr vertraut sind, wird als Grund ange- geben, dass Jesus am Sonntag auferstanden ist. Das hier das Schabbatverbot und Sonntagsgebot ein zwei- tes Mal erwähnt und auch anders begründet wird, zeigt, dass hier mehrere unterschiedliche Überlieferun- gen zusammen gekommen sind.

62 Die hier erwähnten Feste in aramäisch weisen auf alten Ursprung der Tradition hin und auf einen Entstehungsort, wo von den Christen noch Aramäisch gesprochen wurde.

63 Von diesem Haus ist auch in anderen Versionen die Rede. Es wird dort in Rom lokalisiert, in dem Petrus gewohnt haben soll und bezieht sich wahrscheinlich auf eine alte christliche Tradition.

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«Affinché si adempisse ciò che era stato detto...». Il nome di Gesù e le citazioni di compimento in Matteo 1–2

ANTONIO LANDI*

La domanda sull’identità di Gesù è un dato comune a tutti i vangeli; a tito- lo esemplificativo, può essere utile menzionare negli scritti sinottici la questione posta da Gesù ai suoi discepoli in prossimità di Cesarea di Filippo: «Voi, invece, chi dite che io sia?».1

Essa ricorre nelle tre redazioni evangeliche e suona come un monito a prendere le distanze (de.) dalle opinioni popolari che, seppur sostanzialmente positive, non colgono nel segno l’irriducibile singolarità gesuana:2 egli non può essere considerato alla stregua del Battista redivivo, né di Elia, né di Geremia, né di alcuno dei profeti.

Tuttavia, anche se la domanda è identica nella sua formulazione, l’attesta- zione della risposta di Pietro nelle scritture evangeliche non è affatto univoca.3 D’altro canto, ben a ragione Camille Focant scrive che «Matteo, Marco, Luca e Giovanni ci offrono quattro ritratti particolari che non si sovrappongono, pur non essendo né contraddittori né incoerenti. Sono piuttosto differenti e com- plementari».4

Il nostro studio intende sondare la prospettiva cristologica matteana lega- ta all’uso delle citazioni di compimento che puntualmente ricorrono nel raccon- to detto dell’infanzia (cc. 1–2);5 utilizzando una formula di introduzione più o

* Dedico con sincera gratitudine questo studio al prof. C. Marcheselli-Casale il quale, con amabilità e competenza, mi ha introdotto alla conoscenza e allo studio scientifico dei vangeli sinottici.

1 u`mei/j de. ti,na me le,gete ei=nai* (Mc 8,29; Mt 16,16; Lc 9,20).

2 Impiegheremo gli aggettivi gesuano/a e cristologico/a in relazione al personaggio-Gesù così come presentato nel racconto evangelico, senza richiamare la distinzione tra gesuologia e cristologia tipica della ricerca sul Gesù storico (si veda a tal proposito R. PENNA, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e svilup- pi della cristologia neotestamentaria, 2: Gli sviluppi, Cinisello Balsamo 22003, 11-19).

3 In Mc 8,29 si legge: su. ei= o` Cristo,j; in Mt 16,16: su. ei= o` Cristo.j o` ui`o.j tou/ qeou/ tou/ zw/ntoj; in Lc 9,20: to.n Cristo.n tou/ qeou/.

4 C. FOCANT, «Introduzione», in Y.-M. BLANCHARD – C. FOCANT – D. GERBER – D. MARGUERAT – J.-M. SEVRIN, Ritratti di Gesù (Spiritualità biblica), Magnano 2009, 5 (or. fr. Jésus. Portraits évangéliques [Trajec- toires], Bruxelles 2008). Condividiamo l’opportuna puntualizzazione di R. Penna, secondo cui «per etichet- tare il pluralismo originario (dei vangeli)» è preferibile «parlare di “ritratti”, e non di volti di Gesù» (R. PENNA, «I mille volti di Gesù e la ricerca biblica», in C. BUSATO BARBAGLIO [ed.], I mille volti di Gesù 3 [Col- lana biblica. Scritti di Giuseppe Barbaglio], Bologna 2009, 29).

5 Mt 1,22-23; 2,15; 2,17-18; 2,23.

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meno fissa, il primo evangelista interrompe il corso della narrazione e collega la persona di Gesù con l’adempimento delle antiche profezie.6

In effetti, la dialettica della promessa-adempimento costituisce una chiave di lettura pertinente del vangelo e della cristologia matteani, come conferma non solo la dichiarazione di Gesù, il quale si presenta come colui che è venuto per dare pienezza alla Legge e ai Profeti (ouvk h=lqon katalu/sai avlla. plhrw/sai: Mt 5,17), ma anche l’uso costante delle citazioni di compimento che il narratore uti- lizza per istruire di volta in volta il lettore7 nella progressiva intelligenza dell’i- dentità e della missione di Gesù.

Il presente contributo intende raccogliere la suggestione offerta da R.A. Culpepper il quale, in occasione del suo intervento al Colloque international d’a- nalyse narrative des texts de la Bible celebratosi a Losanna nel 2002, individuava nello studio delle funzioni della ridondanza nei vangeli un campo di ricerca da esplorare.8 Il nostro obiettivo sarà dunque quello di fare il punto della situazio- ne sulla tecnica della ridondanza presente nel Vangelo di Matteo, individuando nelle citazioni di compimento riferite a Gesù in 1,1–2,23 dei segnali espliciti attraverso i quali il narratore matteano abbozza il ritratto gesuano che intende consegnare al suo lettore.

6 Altre citazioni di compimento si riscontrano in Mt 4,14-16; 8,17; 12,17-21; 13,35; 21,4-5; 27,9-10. Tra i contributi più notevoli si vedano in particolare: G.D. KILPATRICK, The Origins of the Gospel according to St. Matthew, Oxford 1946; K. STENDHAL, The School of St. Matthew and Its Use of the Old Testament, Uppsala 1954; A. BAUMSTARK, «Die Zitate des Matthäus-Evangeliums aus dem Zwölfprophetenbuch», in Bib 37(1956), 296-313; G. STRECKER, Der Weg der Gerechtigkeit. Untersuchung zur Theologie des Matthäus (FRLANT 82), Göttingen 21966; R.H. GUNDRY, The Use of the Old Testament in St. Matthew’s Gospel with Special Reference to the Messianic Hope (NTSup 18), Leiden 1967; R.S. MCCONNELL, Law and Prophecy in Matthew’s Gospel. The Authority and the Use of the Old Testament in the Gospel of Matthew, Basel 1969; W. ROTHFUCHS, Die Erfüllungszitate des Matthäus-Evangeliums. Eine biblisch-theologische Untersuchung (BWANT 88), Stuttgart-Berlin-Köln-Mainz 1969; F. VAN SEGBROECK, «Les citations d’accomplissement dans l’Évangile selon saint Matthieu d’après trois ouvrages récentes», in M. DIDIER (ed.), L’Évangile selon Matthieu. Rédaction et théologie (BEThL 29), Gembloux 1972, 107-130; J.M. VAN CANGH, «La Bible de Matthieu. Les citations d’accomplissement», in ETL 6(1975), 205-211; O.L. COPE, Matthew: A Scribe Trained for the Kingdom of Heaven (CBQ.MS 5), Washington 1976; G.M. SOARES-PRABHU, The Formula Quotations in the Infancy Narrative of Matthew. An Inquiry into the Tradition History of Mt 1–2 (AnBib 63), Roma 1976; R.T. FRANCE, «The Formula-Quotations of Matthew 2 and the Problem of Communication», in NTS 27(1980), 233-251; D. SENIOR, What are They Saying about Matthew?, New York-Mahwah 1983; D.E. ORTON, The Understanding Scribe. Matthew and the Apocalyptic Ideal (JSNT.SupS 25), Sheffield 1989; J. MILER, Les citations d’accomplissement dans l’Évangile de Matthieu. Quand Dieu se rend présent en toute humanité (AnBib 140), Rome 1999; M.J.J. MENKEN, Matthew’s Bible. The Old Testament Text of the Evangelist (BEThL 173), Leuven-Paris-Dudley, MA 2004.

7 Ci avvarremo della classica distinzione introdotta da S. Chatman secondo cui, nell’ambito della comunicazione narrativa, occorre distinguere da un lato l’autore reale, l’autore implicito e il narratore, a cui corrispondono, rispettivamente, il lettore reale, il lettore implicito e il narratario (S. CHATMAN, Storia e discor- so. La struttura narrativa nel romanzo e nel film, Milano 22003, 147-151; or. ingl. Story and Discourse. Nar- rative Structure in Fiction and Film, Ithaca, NY-London 1980). Per ragioni di opportunità, utilizzeremo le espressioni primo evangelista/narratore e lettore matteano indicando con esse, rispettivamente, l’autore e il lettore impliciti così come intesi dallo studioso statunitense.

8 R.A. CULPEPPER, «Vingt ans d’analyse narrative des évangiles. Nouvelles perspectives et problèmes en suspens», in D. MARGUERAT (ed.), La Bible en récits. L’exégèse biblique à l’heure du lecteur. Colloque inter- national d’analyse narrative des textes de la Bible, Lausanne (mars 2002) (Le Monde de la Bible 48), Paris 2003, 83: «Un domaine qui demande encore à être exploité est celui des fonctions de la redondance dans les évangiles».

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1. MATTEO, UN VANGELO RIDONDANTE

Il ricorso alla ridondanza narrativa nel testo matteano è stato oggetto degli studi di F.W. Burnett9 e di J.C. Anderson;10 entrambi assumono come punto di partenza l’elaborazione concettuale proposta dai teorici dell’informazione (Information Theory), secondo cui la ridondanza si configura come l’elemento di prevedibilità (predictability) in ogni forma di comunicazione.11 Esiste difatti la concreta possibilità che in un processo comunicativo si reiterino termini, frasi, temi che consegnano al destinatario informazioni particolarmente preziose per meglio comprendere e decodificare il messaggio rivoltogli; in questo modo, si riduce l’esitazione, facilitando la corretta ermeneutica del messaggio.12

Sulla stessa lunghezza d’onda, la Anderson definisce la ridondanza come «la disponibilità dell’informazione a partire da più di una fonte [...]. Essa aumen- ta la prevedibilità riducendo il numero di alternative possibili».13 La ripetizione non solo implementa l’intelligenza e la coesione interna di un messaggio, ma pone il lettore nella condizione di superare qualsiasi azione di disturbo (noise) nel processo comunicativo.14 La ridondanza possiede, inoltre, un intrinseco potenziale persuasivo che Wittig ha provato così a descrivere:

La creazione (consapevole e deliberata o inconsapevole e non intenzionale) di una struttura molteplice di attese non solo consente all’uditorio di prevedere la ricorren- za di successive informazioni, ma procura anche il consenso dell’uditorio alla sequen- za, dal momento che se l’ascoltatore può prevedere la successiva informazione (forse può ripeterla silenziosamente prima che accada) egli sarà più disposto ad accettarla e a convenire con essa.15

9 F.W. BURNETT, «Prolegomenon to Reading Matthew’s Discourse», in Semeia 31(1985), 91-109.

10 J.C. ANDERSON, «Double and Triple Stories, the Implied Reader, and Redundancy in Matthew», in Semeia 31(1985), 71-89; ID., Matthew’s Narrative Web. Over, and Over, and Over Again (JSNTSS 91), Sheffield 1994. È utile consultare anche C.H. LOHR, «Oral Techniques in the Gospel of Matthew», in CBQ 23(1961), 403-435; W.D. DAVIES – D.C. ALLISON, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel accord- ing to Saint Matthew, 1: Introduction and Commentary Matthew I–VII, London-New York 1988, 88-92; U. LUZ, Vangelo di Matteo, 1: Introduzione. Commento ai cc. 1–7 (Commentario Paideia NT 1/1), Brescia 2006, 47 (or. ted. Das Evangelium nach Matthäus I [EKK 1/1], Zürich-Neukirchen 52002; 1985).

11 Tra i contributi prodotti dai sostenitori della Information Theory si vedano: W. WARREN (ed.), The Mathematical Theory of Communication, Urbana 1949; J. WHATSMOUGH, Language. A Modern Synthesis, New York 1956; J.R. PIERCE, Symbols, Signals and Noise. The Nature of Process of Communication, New York 1961; E. EDWARDS, Information Transmission. An Introductory Guide to the Application of the Theory of Information to the Human Sciences, London 1969; D. BOLINGER, Aspects of Information Theory, New York 1971; J.F. YOUNG, Information Theory, New York 1971. In particolare, tali intuizioni sono state applicate in ambito letterario da S. WITTIG, «Formulaic Style and the Problem of Redundancy», in Centrum 1(1973), 123- 136; ID., Stylistic and Narrative Structures in the Middle English Romances, Austin 1978; S.R. SULEIMAN, «Redundancy and the “Readable” Text», in Poetics Today 1(1980)3, 119-142.

12 WHATSMOUGH, Language, 132 asserisce che la ridondanza diminuisce la possibilità della scelta sia per il mittente sia per il destinatario del messaggio, riducendo il numero di discriminazioni possibili.

13 ANDERSON, «Double and Triple Stories», 82 e ID., Matthew’s Narrative Web, 36.

14 Il concetto di noise – azione di disturbo – nell’ambito della dinamica comunicativa è stato illu- strato da C. CHERRY, On Human Communication, Cambridge 1957, 227-278.

15 WITTIG, «Formulaic Style», 130-131.

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Sarà Susan Suleiman a elaborare un’accurata tassonomia della ridondan- za; recuperando la lezione di Chatman sulla distinzione tra story (ciò che viene narrato) e discourse (come viene narrato), ella è convinta che le ripetizioni siano individuabili a livello a) della storia, b) del discorso e c) tra la storia e il discor- so.16 Al primo livello sono ascrivibili le azioni dei personaggi, le allocuzioni e i contesti; sul piano del discorso, invece, si fa riferimento alla narrazione, alla foca- lizzazione e al tempo loro dedicato; infine, la ridondanza tra la storia e il discor- so si produce quando ci si trova in presenza di un’attività che si articola su più livelli, come nel caso in cui un narratore e un personaggio facciano medesime affermazioni sul conto di un altro personaggio.

Il primo vangelo si contraddistingue per l’ampio ricorso alle ripetizioni verbali, come nel caso delle formule introduttive delle citazioni di compimento («Tutto questo è accaduto affinché si adempisse...»: 1,22; 2,15b.17; 2,23b; 4,14; 8,17; 12,17; 13,35; 21,4; 27,9); delle formule introduttive delle parabole («Il regno dei cieli è simile»: 13,24; 18,23; 22,2; 25,1); delle formule escatologiche («Ivi sarà pianto e stridore di denti»: 8,12; 13,42.50; 22,13; 24,51; 25,30). Tuttavia, è anche il caso di parlare di ridondanze tematiche alla luce della composizione del vange- lo in sequenze. In effetti, come ha già ben rilevato Daniel Marguerat, il narrato- re matteano si sforza di offrire al suo lettore un’informazione il più possibile completa sul conto di Gesù,17 e per raggiungere tale obiettivo organizza per sezioni gli insegnamenti gesuani sulla Legge (Mt 5–7), le guarigioni (Mt 8–9), le istruzioni comunitarie (Mt 10; 18; 24–25), le parabole (Mt 13).18

Proviamo ora a verificare la peculiarità della ridondanza matteana son- dando le citazioni di compimento che ricorrono nei primi due capitoli del van- gelo, focalizzando la nostra attenzione in particolare su quelle accomunate dal tema del nome di Gesù.

16 SULEIMAN, «Redundancy», 126-132. La ridondanza nell’ambito della poetica della narrazione bibli- ca è stata approfondita in particolare da R. ALTER, L’arte della narrativa biblica (Biblioteca biblica 4), Bre- scia 1990, 112-140 (or. ingl. The Art of Biblical Narrative, New York 1981) e M. STERNBERG, The Poetics of Biblical Narrative, Bloomington, IN 1985, 387-393. Altrettanto interessanti sono le pagine che Marguerat dedica allo studio della ridondanza lucana a proposito del triplice racconto di conversione/vocazione di Paolo in Atti: D. MARGUERAT, La prima storia del cristianesimo. Gli Atti degli apostoli (Parola di Dio 20), Cini- sello Balsamo 2002, 185-213 (or. fr. La première histoire du christianisme. Les Actes des apôtres, Paris 1999).

17 D. MARGUERAT, «L’exégèse biblique à l’heure du lecteur», in ID. (ed.), La Bible en récits, 35: «Nous avons à faire chez Matthieu à un effort insistant du narrateur qui tend, par ce phénomène de répétition, à saturer l’information». Si veda anche ID., «La construction du lecteur par le texte (Marc et Matthieu)», in C. FOCANT (ed.), The Synoptic Gospels. Source Criticism and the New Literary Criticism (BEThL 170), Leu- ven 1993, 239-262.

18 È evidente che le indicazioni di Gesù in merito alla Legge non sono rinvenibili esclusivamente nei cc. 5–7, così come i racconti di miracoli non si riscontrano solo nella sezione dei cc. 8–9, ecc. Tuttavia, non si può misconoscere la peculiarità matteana di assemblare materiali simili nella forma e nel contenuto dispo- nendoli in ampie sezioni; su questo punto si veda LUZ, Vangelo di Matteo, I, 43-44 e DAVIES – ALLISON, A Cri- tical and Exegetical Commentary on the Gospel according to Saint Matthew, I, 87-88.

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2. L’ADEMPIMENTO DELLE SCRITTURE: LE CITAZIONI DI COMPIMENTO IN MT 1–2

Senza dubbio, il tratto più evidente delle ridondanze nel primo vangelo riguarda l’uso delle citazioni di compimento in relazione al ritratto gesuano offerto da Matteo. Esse sono da considerarsi alla stregua di commentari esplici- ti, utilizzati dal primo evangelista con l’intento di presentare al suo lettore lo stretto rapporto che intercorre tra la vita e il ministero di Gesù e le profezie anti- che nella prospettiva del compimento.

Secondo Seymour Chatman, «gli atti di parola di un narratore che oltre- passano la narrazione, la descrizione o l’identificazione hanno la risonanza e le suggestioni della propria persona. Questo tipo di dichiarazioni si possono chia- mare commenti».19 Nella prospettiva dello studioso statunitense, è opportuno distinguere il commento implicito (cioè ironico)20 da quello esplicito; quest’ulti- mo può essere inteso come: a) interpretazione, b) giudizio, c) generalizzazione, d) narrazione «autocosciente».

Nel caso dell’interpretazione, si tratta della spiegazione di un termine o di un elemento interno alla storia; il giudizio, invece, fa riferimento a valutazioni di carattere morale. Infine, se la narrazione autocosciente espone commenti preva- lentemente sul discorso, la generalizzazione «istituisce rapporti fra il mondo fit- tizio e il mondo reale, sia riferendosi a “verità universali” sia a fatti storici reali».21

Utilizzando tale categorizzazione, D.B. Howell è persuaso che le citazioni di compimento presenti nel testo matteano siano da annoverarsi nell’ambito del commentario di generalizzazione.22 In effetti, la citazione delle antiche profezie istituisce un rapporto tra il mondo narrato (la storia di Gesù nel Vangelo mat- teano) e il mondo reale (l’Antico Testamento e la sua autorità in quanto parola di Dio come entità esistenti indipendentemente dal racconto evangelico), colle- gando le attese messianiche d’Israele alla vicenda esistenziale di Gesù.

Va inoltre ribadito che l’uso delle citazioni di adempimento presenta una notevole funzione retorica, contribuendo a stabilire l’attendibilità e l’autorevo- lezza sia del narratore che di Gesù.23 Nel secondo caso, la presenza dei riferi- menti profetici disseminati nel racconto matteano investe tutta la vita e la mis- sione di Gesù, dalla nascita (1,23; 2,6.15.18.23) alla sua passione (27,9-10), pas- sando per l’inizio del ministero pubblico in Galilea (4,15-16), i miracoli (8,17; 12,18-21) e le parabole (13,35).

D’altro canto, il narratore non intrattiene il lettore con considerazioni per- sonali sul conto di Gesù, ma fa appello alle profezie messianiche che ritiene

19 CHATMAN, Storia e discorso, 249-277.

20 La dimensione dell’ironia giovannea è stata particolarmente studiata da R.A. CULPEPPER, Ana- tomy of the Fourth Gospel. A Study in Literary Design, Philadelphia 1983, 151-202.

21 CHATMAN, Storia e discorso, 249.

22 D.B. HOWELL, Matthew’s Inclusive Story. A Study in the Narrative Rhetoric of the First Gospel (JSNT.SS 42), Sheffield 1990, 184-190.

23 HOWELL, Matthew’s Inclusive Story, 185-187.

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adempiute nella persona del Cristo; in tal modo, il narratore conferisce maggio- re attendibilità e affidabilità alla sua narrazione.

Ogni qualvolta il narratore matteano introduce una profezia messianica, utilizza un’espressione formulare simile, in cui si ribadisce che tutto ciò che è stato precedentemente descritto è avvenuto affinché (i[na / o[pwj) si adempisse (plhrwqh/| / evplhrw,qh) la parola pronunciata (to. r`hqe.n) dal Signore (u`po. kuri,ou) per mezzo del profeta (dia. tou/ profh,tou) o dei profeti (tw/n profhtw/n).

Le citazioni di adempimento costituiscono una chiave di accesso privilegia- ta che il narratore consegna in anteprima al suo lettore per evitare possibili incom- prensioni e fraintendimenti nel corso della lettura della storia di Gesù;24 difatti, nei capitoli matteani dell’infanzia è interessante notare che tre citazioni sono acco- munate dall’uso del verbo kale,w (1,23; 2,15b.23b), come si evince dalla tabella:

Mt 1,23 Mt 2,15b Mt 2,23b

VIdou. h` parqe,noj evn gastri. e[xei kai. te,xetai ui`o,n( kai. kale,sousin evka,lesa klhqh,setai

VEx Aivgu,ptou

Nazwrai/oj

to. o;noma auvtou/ VEmmanouh,l( o[ evstin meqermhneuo,menon

MeqV h`mw/n o` qeo,jÅ

to.n ui`o,n mouÅ

Sul piano testuale, resta da definire quale sia il brano di riferimento utiliz- zato dall’evangelista (TM e/o LXX o altro); in che relazione la citazione si ponga rispetto al contesto in cui è inserita; chi sia il soggetto dei verbi kale,sousin (1,23) e klhqh,setai (2,23b). Sul piano della comunicazione narrativa, inoltre, è legittimo chiedersi quale sia il motivo per il quale viene accordata così tanta enfasi alla questione del nome di Gesù e quale sia l’effetto che il narratore intende suscita- re nel lettore.

3. «(LO) CHIAMERANNO EMMANUELE» (1,23): GESÙ, IL DIO-CON-NOI

La citazione di compimento di Mt 1,23 è inserita nel racconto dell’annun- cio dell’angelo a Giuseppe (1,18-25). Il brano è delimitato dall’inclusione tra i vv. 18 e 2525 e presenta una struttura interna in cui i vv. 18-19 fungono da scenario, i

24 LUZ, Vangelo di Matteo, I, 222-223 ritiene che la copiosa presenza di citazioni di compimento nel

prologo sia legata al fatto che l’evangelista introduce alcuni nuclei che si riveleranno centrali nel racconto

evangelico e di cui il lettore deve tenere necessariamente conto.

25

v. 18:

v. 25:

(a) la genesi di Gesù Cristo avvenne così: (b) sua madre Maria essendo promessa sposa di

(c) Giuseppe

(c’) Giuseppe, prese con sé (b’) la sua sposa, la quale partorì

(a’) un figlio che egli chiamò Gesù.

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vv. 20-21 riferiscono del comando dell’angelo a Giuseppe, la cui esecuzione è descritta ai vv. 24-25; nei vv. 22-23 è contenuta la formula di introduzione e la citazione di compimento.

Si palesa inoltre una forte coesione interna legata al tema del nome: l’an- gelo comunica a Giuseppe che sarà lui a dare il nome di Gesù al bambino che nascerà da sua moglie Maria (1,21); nella citazione di compimento tratta da Is 7,14, il narratore puntualizza che il figlio nato dalla vergine «(lo) chiameranno Emmanuele» (1,23); infine, il racconto si conclude con l’informazione che Giu- seppe ottempera fedelmente alle indicazioni dell’angelo e pone a suo figlio il nome di Gesù (1,25).

Prima di esaminare la citazione di Is 7,14, è doveroso soffermarsi sulla for- mula introduttiva del v. 1,22 per rispondere ad alcuni quesiti posti dalla lettura del testo: chi è che si incarica di pronunciare le parole contenute ai vv. 22-23? Qual è il valore del pronome dimostrativo tou/to: si riferisce a ciò che precede (valore analettico) o a ciò che segue (prolettico)? Per quale motivo l’evangelista utilizza il perfetto (ge,gonen) in un contesto caratterizzato quasi prevalentemente da verbi all’aoristo e imperfetto (nelle parti descrittive) e al futuro (nelle parti dialogate)?

Al v. 1,20, il narratore introduce sulla scena l’angelo del Signore incaricato di informare Giuseppe dell’eccezionalità della gravidanza di Maria, invitandolo a desistere dal suo proposito di licenziarla in segreto perché quanto è avvenuto in lei è opera dello Spirito Santo. Inoltre, il messo celeste si preoccupa di illu- strare al novello padre il significato del nome da imporre a suo figlio: dovrà chia- marlo Gesù, perché questi (si noti l’enfatico auvto.j) «salverà il suo popolo dai suoi peccati» (1,21).

L’introduzione della formula di compimento in 1,22 solleva qualche per- plessità circa l’identità del locutore; dal momento che il testo non presenta alcun segno esplicito di discontinuità rispetto al discorso dell’angelo, è giusto attribui- re al messaggero divino il contenuto dei vv. 22-23? In realtà, nel primo vangelo le citazioni di compimento sono sempre espresse dal narratore e indirizzate al lettore, mentre in nessun passaggio del testo matteano gli angeli inviati dal Signore sono presentati come interpreti delle Scritture.26

Il sintagma tou/to de. o[lon ge,gonen ricorre altresì in Mt 21,427 e 26,56, e si riferisce a quanto è stato annunziato e/o detto in precedenza; nel caso di 1,22 l’e- vento immediatamente precedente riguarda il concepimento di Gesù nel grem- bo di Maria ad opera dello Spirito Santo. Infatti, la citazione del passo isaiano conferma la contiguità sul piano tematico tra il contesto matteano (l’annuncio della nascita: 1,18-21.24-25) e Is 7,14 (il concepimento di un bambino da parte di una vergine: 1,23). L’uso del perfetto ge,gonen non è stato oggetto di particolare

26 Cf. MILER, Les citations, 14-15. Di diverso avviso, invece, J.C. FENTON, «Matthew and the Divinity of Jesus: Three Questions concerning Matthew 1:20-3», in E.A. LIVINGSTONE (ed.), Studia Biblica 1978, 2: Papers on the Gospel, Sheffield 1980, 79-82.

27 Manca l’aggettivo o[lon.

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indagine da parte degli studiosi; per alcuni, si tratta di un perfetto con valore aoristico;28 per altri, invece, ge,gonen può anche essere interpretato come un vero e proprio perfetto, così come in 21,4.29

Anche se l’evangelista non menziona esplicitamente l’autore profetico al quale attinge,30 v’è tuttavia parere unanime tra gli studiosi nel riconoscere in Is 7,14 (LXX) il passo citato.

Is 7,14 (TM)

Is 7,14 (LXX)

Mt 1,23

lae( WnM'î[i Amßv. tar"ïq'w> !Beê td<l,äyOw> ‘hr"h' hm'a l.‹[;h'

ivdou. h` parqe,noj evn gastri. e[xei31 kai. te,xetai ui`o,n kai. kale,seij to. o;noma auvtou/ Emmanouhl

VIdou. h` parqe,noj evn gastri. e[xei kai. te,xetai ui`o,n( kai. kale,sousin to. o;noma auvtou/ VEmmanouh,l

Si riscontra una sostanziale identità tra il testo greco isaiano e quello mat- teano; la divergenza è legata al soggetto del verbo kale,w, dal momento che in Is 7,14 (LXX) si utilizza la seconda persona singolare, mentre Matteo opta per la terza plurale. Il ricorso al testo ebraico non può risultare dirimente, in quanto nel TM è la donna a essere incaricata di dare il nome a suo figlio: tar"ïq'w>.32 Se nella traduzione della LXX il referente più prossimo per il verbo kale,seij è la casa di Davide (oi=koj Dauid: v. 7,13), resta da stabilire quale sia il soggetto plurale sot- tinteso al verbo kale,sousin di Mt 1,23.

Numerosi commentatori sono persuasi che si tratti dei «credenti in Cristo riuniti nella Chiesa»;33 senza addentrarci in raffinate disquisizioni filologiche, anche noi riteniamo che il narratore matteano abbia volutamente modificato il testo LXX collegando il plurale del v. 23 al soggetto collettivo del v. 21 (lao.n).

28 DAVIES – ALLISON, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to Saint Matthew, I, 211.

29 F. BLASS – A. DEBRUNNER, Grammatik des neutestamentlichen Griechisch, bearbeitet von F. REHKOPF, Göttingen 141976, § 303,4.

30 Non si tratta di un caso isolato; infatti, le citazioni contenute in 2,15.23; 13,35; 21,4 non sono attri- buite dal narratore a nessun profeta in particolare. Viceversa, in 2,17 e 27,9 si fa riferimento esplicito al pro- feta Geremia, mentre in 4,14; 8,17 e 12,17 si cita il profeta Isaia.

31 I codici Sinaiticus (a) e Alexandrinus (A) della LXX presentano la lezione con e[xei, mentre nel Vaticanus (B) è attestato l’uso di lh(m)yetai. Brown è convinto che «the Matthean narrative, involving an annunciation of birth by the angel of the Lord, is highly evocative of the birth stories of the Patriarchs and the Judges, and that en gastri echein is a standard LXX idiom for pregnancy in those narratives (Gen 16:11; 17:17; Jud 13:3,7)» (R. BROWN, The Birth of the Messiah. A Commentary on the Infancy Narratives in the Gospels of Matthew and Luke. New Updated Edition [ABRL], New York 1993, 151).

32 Si veda STENDHAL, The School of St. Matthew, 97-99; GUNDRY, The Use of the Old Testament, 89-91; ROTHFUCHS, Die Erfüllungszitate, 57-60; I. BROER, «Die Bedeutung der “Jungfrauengeburt” im Matthäus- evangelium», in BibLe 12(1971), 248-260; SOARES-PRABHU, The Formula Quotations, 229-253; DAVIES – ALLI- SON, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to Saint Matthew, I, 213-217; BROWN, The Birth of the Messiah, 143-153.

33 Così J. GNILKA, Il Vangelo di Matteo (CTNT I/1), Brescia 1990, I, 50 (or. ted. Das Matthäusevange- lium, I Teil: Kommentar zu Kap. 1,1–13,58, Freiburg i.B. 1986). È la linea interpretativa seguita anche da ROTHFUCHS, Die Erfüllungszitate, 58-60; H. FRANKEMÖLLE, Jahwebund und Kirche Christi (NTA 10), Münster 21984, 16-18; DAVIES – ALLISON, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to Saint Matthew, I, 213-214; BROWN, The Birth of the Messiah, 151-152; MILER, Les citations, 28-34.

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Resta tuttavia argomento dibattuto quale sia l’identità del popolo a cui fa riferimento l’angelo nel suo annuncio a Giuseppe: si tratta di Israele o della Chie- sa? Può essere intesa come una designazione mista includente entrambe le realtà?34 Esistono degli indicatori testuali in grado di orientare l’interpretazione del lettore?

Al v. 1,21 il termine lao.j è qualificato dal pronome possessivo auvtou/ in rife- rimento a Gesù: è il popolo che beneficerà della salvezza arrecata da lui. Non si tratta solo del popolo d’Israele, come dimostrano gli episodi della guarigione del servo del centurione (Mt 8,5-13) e della figlia della donna cananea (Mt 15,21-28); anche coloro che non appartengono al popolo eletto possono ugualmente avere accesso alla grazia messianica di cui Gesù è portatore e sono destinatari dell’at- tività evangelizzatrice della comunità apostolica (cf. 28,19).

Del resto, quanto la prospettiva universalistica della salvezza sia piena- mente integrata nel racconto matteano è confermato dal titolo che il narratore prepone alla sua opera, in cui si presenta Gesù Cristo in qualità di ui`ou/ Daui.d ui`ou/ VAbraa,m (Mt 1,1).35 Il lettore conosce sin dall’inizio la tensione polare tra particolarismo e universalismo e, procedendo nella lettura, ha l’opportunità di verificare quanto essa sia tangibile nella relazione tra il discorso missionario del capitolo 10, in cui si fa espresso divieto ai discepoli di recarsi fra i pagani e nelle città dei samaritani (10,5b), e il mandato di 28,18-20, in cui i medesimi sono esor- tati a fare discepole tutte le genti.36 Il lettore stesso ricorderà che anche nell’al- bero genealogico di Gesù l’evangelista non ha omesso di annotare la presenza di tre donne (Tamar in 1,3; Racab e Rut in 1,5) non israelite, a vario titolo coinvol- te nell’avanzamento della storia della salvezza.

Infine, va rilevato che la traduzione del nome Emmanuele (MeqV h`mw/n o` qeo,j) in Mt 1,23 consente al lettore di creare un sensibile collegamento non solo con la dichiarazione finale di Gesù (evgw. meqV u`mw/n in 28,20), ma anche con la garanzia che egli offre della sua presenza a coloro che nel suo nome si radunano per pregare: eivmi evn me,sw| auvtw/n (18,20). Il lettore matteano è stato messo nella condizione di comprendere che è proprio la comunità dei salvati a fare esperien- za della presenza permanente di Gesù come il Figlio di Dio, salvatore del suo popolo e Signore della sua comunità.37

34 Per la discussione sulle singole posizioni, rimandiamo a LUZ, Vangelo di Matteo, I, 171-172; DAVIES – ALLISON, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to Saint Matthew, I, 210; ROTH- FUCHS, Die Erfüllungszitate, 59-60; FRANKEMÖLLE, Jahwebund, 211-218.

35 Cf. J. MILER, «Entre titre, incipit et prologue: la voix du narrateur au commencement de l’Évan- gile de Matthieu», in MARGUERAT (ed.), Bible en récits, 291-301.

36 Tra i recenti contributi sul tema della missione in Matteo, segnaliamo E.J. SCHNABEL, «The First Gospel and Matthew’s Mission. Narrative, Theological and Historical Perspectives», relazione tenuta al Society Biblical Literature Meeting (2005), 1-20 (disponibile all’indirizzo: http://www.sbl-site.org); A. VAN AARDE, «Jesus’ Mission to All of Israel Emplotted in Matthew Story», in Neot 41(2007), 416-436; D.W. UL- RICH, «The Missional Audience of the Gospel of Matthew», in CBQ 69(2007), 64-83.

37 Si noti l’uso del presente eivmi, in 18,20 e 28,20; cf. D.D. KUPP, Matthew’s Emmanuel. Divine Pre- sence and God’s People in the First Gospel, Cambridge 1996, 49-108. Cf. anche FRANKEMÖLLE, Jahwebund, 7- 83; M.A. POWELL, God with Us. A Pastoral Theology of Matthew’s Gospel, Minneapolis 1995.

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Vangeli e tradizioni

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4. «DALL’EGITTO HO CHIAMATO MIO FIGLIO» (2,15B): GESÙ, IL FIGLIO DI DIO

La notizia della nascita del re dei giudei aveva messo in agitazione non solo Erode, ma provocato altresì un profondo turbamento in tutta Gerusalemme (2,1-3); interrogati circa il luogo della nascita del messia, i sommi sacerdoti e gli scribi confermano che nelle Scritture38 Betlemme è il luogo dal quale uscirà un capo (h`gou,menoj) con l’incarico di pascere il popolo d’Israele (2,4-6). Erode non si rassegna e intende sfruttare la sincera ricerca degli uomini giunti dall’oriente per carpire maggiori informazioni sul conto del bambino (2,7-8); il suo disegno non giunge a buon fine perché i magi, informati in sogno, ritornano alla loro terra per un’altra strada (2,12), suscitando le ire del re la cui ombra minacciosa si sten- de su Gesù e la sua famiglia.

Per questo motivo, l’angelo interviene nuovamente per avvertire Giusep- pe del pericolo incombente, invitandolo a recarsi in Egitto dove dovrà intratte- nersi fino a quando non riceverà un’ulteriore comunicazione (2,13). Anche in questa circostanza, Giuseppe osserva fedelmente il precetto divino e, presi con sé il bambino e sua madre, fugge di notte in Egitto, dove dimora fino alla morte di Erode (2,14-15a).

È a questo punto che il narratore matteano interviene per suggerire al let- tore che l’evento della fuga in Egitto segna l’adempimento della scrittura profe- tica di Os 11,1b:

Os 11,1b (TM)

Os 11,1b (LXX)

Mt 2,15b

ynI)b.li ytiar"îq" ~yIr:ßc.MimiW

evx Aivgu,ptou meteka,lesa ta. te,kna auvtou/

evx Aivgu,ptou evka,lesa to.n ui`o,n mou

Mentre per la citazione di Is 7,14 l’evangelista aveva optato per il testo della LXX, sembra evidente che nel caso di Os 11,1b traduca pedissequamente il testo ebraico.

Tuttavia, se non fa problema la forma testuale impiegata dal narratore, resta discutibile la contestualizzazione narrativa della citazione. La presenza del passo oseano desta qualche perplessità sul piano narrativo, in considerazione del fatto che la citazione anticipa un evento – il ritorno dall’Egitto – che sarà descrit- to solo al v. 2,21; inoltre, la morte di Erode, accennata al v. 2,15a, avviene non prima della strage degli innocenti commissionata dallo stesso Erode e descritta al v. 16.

In realtà, l’incongruenza narrativa può essere risolta se si riconosce il giu- sto valore al sintagma e[wj a'n ei;pw soi del v. 2,13: le parole dell’angelo preludo- no a un suo successivo intervento che effettivamente il narratore registrerà al v. 2,20.

38 In Mt 2,6 si tratta di una citazione mista con riferimento a Mi 5,1 e 2Sam 5,2; cf. BROWN, The Birth of the Messiah, 184-187.

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A. LANDI – «Affinché si adempisse ciò che era stato detto...»

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Anche sul piano dell’interpretazione della citazione non si riscontra un parere unanime da parte degli studiosi e la molteplicità delle proposte è il segno di un’oggettiva difficoltà ermeneutica;39 quali sono dunque i dati che l’evangeli- sta mette a disposizione del lettore per evitare che questi fraintenda il suo inter- vento a commento della fuga dall’Egitto?

Se è vero che l’intertestualità necessita di complicità da parte del lettore,40 a questi non può sfuggire che il testo di Os 11,1b rimanda alla fuga del popolo d’Israele in uscita dal paese d’Egitto. Peraltro, avendo cura di puntualizzare che la fuga avviene di notte (nukto.j) e in tutta fretta, il narratore sembra faccia eco ai testi del libro dell’Esodo che descrivono l’uscita dall’Egitto come una fuga (Es 14,5) avvenuta di fretta (Es 12,11.33.39) durante la notte (Es 12,8.29.31).41

Tuttavia, non sembra la fuga dall’Egitto o la liberazione l’obiettivo princi- pale della citazione matteana; in effetti, se avesse voluto insistere su questo aspetto avrebbe potuto citare, o quanto meno alludere, a testi in cui si menzioni esplicitamente l’uscita di Israele dall’Egitto.42 Invece, pare evidente che l’inte- resse del narratore sia incentrato sull’espressione evka,lesa to.n ui`o,n mou, come conferma il percorso svolto dal lettore sino a questo punto della narrazione. Egli è a conoscenza che il protagonista del racconto ha ricevuto il nome di Gesù dal padre, Giuseppe, così come indicato dall’angelo (1,21); inoltre, il narratore ha provveduto a introdurre la citazione di Is 7,14 (LXX) asserendo che la comunità dei salvati riconoscerà in Gesù l’Emmanuele (1,23).

Ora, egli apprende per la prima volta esplicitamente dall’intervento del narratore che Gesù è il figlio di Dio;43 se nell’Antico Testamento il titolo di «figlio di Dio» può essere attribuito ai membri di una sorta di consiglio divino (cf. Gb 1,6; 2,1; 38,7), o al re davidico (2Sam 7,14; Sal 2,6-7; 89,27-28), o al singo- lo giusto (Sir 4,1-10; Sap 2,16.18; 5,5), o al popolo d’Israele, come nel caso di Os 11,1b (cf. anche Es 4,22-23; Dt 32,5.19; Ger 31,9), in 2,15b Gesù è presentato come il figlio unico di Dio in cui si compie il destino di Israele. Questa informa- zione prepara il lettore ad accogliere la voce del Padre che, in occasione del bat- tesimo (3,17) e della trasfigurazione (17,5), dichiara solennemente a proposito di Gesù: ou-to,j evstin o` ui`o,j mou o` avgaphto,j.

Quanto poi sia rilevante il tema della figliolanza divina di Gesù, lo dimo- strano i continui riferimenti nei quali il lettore si imbatterà nel corso della nar- razione; sarà Gesù stesso a dichiararla (7,22; 11,27; 21,37; 26,53); sarà confessata dai discepoli (14,33) e da Pietro, in particolare (16,16), oltre che dal centurione

39 Si veda il punto della situazione fornito da MILER, Les citations, 47, nota 50.

40 La definizione di lecteur complice è presente nell’introduzione del volume di D. MARGUERAT – A. CURTIS (edd.), Intertextualités. La Bible en échos (Le Monde de la Bible 40), Genève 2000, 10.

41 La tipologia esodale è sostenuta da MILER, Les citations, 50-55; alle pp. 54-55 si legge: «La CA (= citation d’accomplissement) interprète l’épisode de la fuite en Égypte comme l’accomplissement de l’hi- stoire d’Israël (venue en Égypte puis Exode) en un personnage unique, Jésus, le Fils que Dieu délivre de la violence d’Hérode et appelle hors d’Égypte».

42 Si consideri, ad esempio, Nm 23,22 e 24,8.

43 Implicitamente era già espresso in 1,18.20, dove il narratore e l’angelo di Dio collegano il conce- pimento di Maria all’opera dello Spirito Santo.

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(27,54); sarà riconosciuta dagli indemoniati (8,29); messa alla prova dal tentato- re (4,3.6); oggetto dell’inchiesta del sommo sacerdote (26,63) e sbeffeggiata dai membri del sinedrio radunati nei pressi della croce (27,40.43).44

5. «SARÀ CHIAMATO NAZŌRAIOS» (2,23B): GESÙ, IL NAZARENO O IL SANTO DI DIO?

L’irritazione di Erode per il mancato ritorno dei magi si ripercuote tragi- camente su tutti i bambini con meno di due anni abitanti a Betlemme e nei ter- ritori circostanti; essi sono le vittime innocenti dell’ira del tiranno (2,16). Al v. 2,17 il testo matteano registra ancora una volta un’intrusione da parte dell’evan- gelista, che legge la strage degli innocenti sullo sfondo del passo di Ger 31,15, in cui si fa riferimento al pianto della moglie di Giacobbe, Rachele; le sue lacrime per i figli condotti in esilio in terra babilonese prefigurano lo strazio vissuto dalle madri betlemmite i cui figli sono stati barbaramente trucidati dalla furia omici- da del re (2,17-18). Cessato il pericolo con la morte di Erode (2,19a), Giuseppe può fare ritorno con la sua famiglia in terra d’Israele, come espressamente richie- sto dall’angelo (2,19b-20).

Tra i vv. 21 e 22 si registra però una tensione inattesa; sinora, a ogni impe- rativo divino dettato dall’angelo (cf. 1,20-21; 2,13) aveva fatto seguito l’imme- diata esecuzione da parte di Giuseppe (cf. 1,24-25; 2,14-15a). Tuttavia, la notizia della presenza di Archelao, il nuovo governatore della Giudea,45 ingenera nel padre di Gesù un sentimento finora ignoto al lettore matteano: egli ha paura di recarsi in Giudea (evfobh,qh: v. 22). Il cambio di programma è ancora una volta gui- dato dalla presenza divina:46 giunto in Galilea, Giuseppe stabilisce la sua dimora a Nazaret (v. 23a).

Al v. 2,23b la residenza a Nazaret è stimata come l’adempimento della parola pronunciata per mezzo dei profeti: «Sarà chiamato Nazareno». L’inter- vento del narratore pone non pochi problemi, dal momento che la formula di introduzione con il plurale tw/n profhtw/n è un hapax nel Vangelo matteano,47 il sintagma Nazwrai/oj klhqh,setai non ricorre in nessun libro biblico e l’interpreta- zione dell’aggettivo nazōraios è tutt’altro che evidente.

44 Cf. E. SCHWEIZER, «ui`o,j ktl», in GLNT XIV, 179-254; W. CARTER, Matthew. Storyteller, Interpreter, Evangelist, Peabody, MA 2004 [revised edition], 172-174; K. STOCK, «Figlio di Dio», in R. PENNA – G. PEREGO – G. RAVASI (edd.), Temi teologici della Bibbia (I dizionari San Paolo), Cinisello Balsamo 2010, 495-502.

45 Alla morte di Erode detto il Grande, avvenuta nel 4 a.C., il territorio da lui governato fu diviso tra i suoi tre figli: ad Archelao furono assegnate la Giudea, l’Idumea e la Samaria; a Erode Antipa, la Gali- lea e la Perea; a Filippo, la Transgiordania del nord.

46 Il participio aoristo crhmatisqei.j è da intendersi come un passivum divinum per due ragioni: nelle circostanze descritte in precedenza (1,20; 2,19), è sempre l’angelo di Dio che si incarica di illustrare a Giu- seppe tutto ciò che egli deve compiere; in secondo luogo, la stessa formula crhmatisqe,ntej katV o;nar ricorre a proposito dei magi avvertiti di non tornare da Erode (2,12).

47 Nel NT esistono, tuttavia, casi in cui la citazione di un passo biblico unico, reperibile nelle Scrit- ture, è introdotta da un riferimento plurale, come nel caso di Gv 6,45 (evn toi/j profh,taij), At 7,42 (evn bi,blw| tw/n profhtw/n) e 15,15 (oi` lo,goi tw/n profhtw/n). Cf. J.A. FITZMYER, «The Use of Explicit Old Testament Quo- tations in Qumran Literature and in the New Testament», in NTS 7(1960-1961), 297-333.

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A. LANDI – «Affinché si adempisse ciò che era stato detto...»

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L’accostamento tra Nazare,t e Nazwrai/oj poneva in passato qualche dif- ficoltà, legata al fatto che non fossero disponibili iscrizioni antiche sul nome di Nazaret antecedenti agli scritti del Nuovo Testamento;48 tuttavia, grazie ai con- tributi di W.F. Albright e H.P. Rüger,49 si è potuto stabilire che l’aggettivo Nazwrai/oj, al pari di Nazarhno,j, può ben indicare un abitante di Nazaret.

Circa l’identificazione dell’eventuale passo profetico citato da Matteo, sono state avanzate numerose proposte dagli studiosi e sarebbe troppo dispen- dioso richiamarle in questa sede.50 Tra le ipotesi più suggestive, menzioniamo quella di Davies e Allison,51 i quali ritengono che Matteo faccia riferimento al testo di Is 4,3, associando Nazwrai/oj al sostantivo ebraico ryzIn" per mezzo di un gioco di parole.52 Difatti, nella traduzione greca delle Scritture d’Israele, il ter- mine ryzIn"” è tradotto sia con nazirai/oj qeou/, sia con a[gioj qeou/, come testimoniano le recensioni A e B di Gdc 13,7 e 16,17. Se dunque è fondata l’equivalenza tra nazirai/oj qeou/ e a[gioj qeou/, è possibile ipotizzare che il testo di riferimento per Mt 2,23b sia Is 4,3 nella forma attestata dal TM: Al rm,a'äyE vAdðq".53 Peraltro, una tale associazione terminologica presenta un corrispettivo nell’episodio marciano del- l’esorcismo presso la sinagoga di Cafarnao, in cui i termini Nazareno (Nazarhne,) e il Santo di Dio (o` a[gioj tou/ qeou/) sono utilizzati in maniera equivalente (Mc 1,24).54

Tuttavia, occorre puntualizzare che nel Vangelo di Marco il binomio Naza- re.t/Nazarhno,j è usato per indicare l’origine geografica di Gesù,55 descritto come colui che viene da Nazaret di Galilea per ricevere il battesimo da Giovanni (Mc 1,9), e come il Nazareno è riconosciuto dalla folle (10,47). Pietro è imputato di essere discepolo del Nazareno (14,67) e l’angelo annuncia alle donne che Gesù il Nazareno, il Crocifisso, è risorto (16,6).

Un discorso analogo vale anche per il primo vangelo, in cui Gesù è accla- mato come «il profeta che viene da Nazaret di Galilea» (Mt 21,11), mentre l’ag- gettivo Nazareno ricorre sulle labbra della serva che accuserà Pietro di essere un

48 Rimandiamo al recente studio di M.-L. RIGATO, I.N.R.I. Il titolo della croce (Biblica), Bologna 2010, in particolare 35-46.

49 W.F. ALBRIGHT, «The Names “Nazareth” and “Nazoraean”», in JBL 65(1946), 397-401; H.P. RÜGER, «NAZAREQ/NAZARA/NAZARHNOS/NAZWRAIOS», in ZNW 72(1981), 257-263.

50 Cf. BROWN, The Birth of the Messiah, 207-219 e DAVIES – ALLISON, A Critical and Exegetical Com- mentary on the Gospel according to Saint Matthew, I, 274-281.

51 DAVIES – ALLISON, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to Saint Matthew, I, 276-277.

52 Trattasi della paronomasia, nota anche come bisticcio o annominazione. Consiste nell’accosta- mento di termini che presentino somiglianza fonica, basata oppure no su un’etimologia condivisa, ma che non abbiano lo stesso significato (cf. H. LAUSBERG, Handbuch der Literarischen Rhetorik. Eine Grundlegung der Literaturwissenschaft, München 21973, §§ 637-639; e B. MORTARA-GARAVELLI, Manuale di retorica [Tasca- bili Bompiani. Saggi 94], Milano 72003, 206-208).

53 Nella LXX l’aggettivo è al plurale: a[gioi klhqh,sontai. 54 Cf. anche Lc 4,34; in Gv 6,69 saranno i discepoli a confessare Gesù come il Santo di Dio. 55 Su questo punto convergono anche S. LÉGASSE, Marco (Commenti biblici), Roma 2000, 107, nota

28 (or. fr. L’Évangile de Marc I-II [LeDivCom 5], Paris 1997) e C. FOCANT, L’Évangile selon Marc (CbNT 2), Paris 2004, 91.

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sodale di Gesù il Nazareno (26,71). Del resto, in Matteo non v’è alcuna traccia dell’analogia Nazareno/Santo di Dio, riscontrata invece in Mc 1,24.

È verosimile immaginare che il narratore matteano non avesse intenzione di richiamare un passaggio scritturistico preciso, come nei casi esaminati in pre- cedenza, quanto riferirsi al messaggio profetico nella sua globalità. L’uso del genitivo plurale tw/n profhtw/n sembra suffragare questa lettura, anche in consi- derazione del fatto che un procedimento analogo è attestato nelle parole di Gesù al Getsemani, quando egli stesso associa il suo arresto al compimento delle Scrit- ture profetiche, senza per questo citare o alludere a un testo biblico in particola- re (i[na plhrwqw/sin ai` grafai. tw/n profhtw/n: v. 26,56a).56

Nell’interpretazione del v. 2,23b si è spesso negletta la dimensione geogra- fica che invece è tutt’altro che irrilevante, come dimostrano i continui sposta- menti a cui sono sottoposti Giuseppe e la sua famiglia.57 A nostro avviso, non è affatto pleonastica la menzione della Galilea al v. 2,22; infatti, in 4,12-13 il narra- tore provvederà a mettere al corrente il lettore che, dopo l’arresto di Giovanni, Gesù si ritirerà in Galilea e, lasciata Nazaret,58 fisserà la sua dimora a Cafarnao. Non è affatto casuale che anche questo trasferimento sia interpretato in una pro- spettiva di compimento profetico; il passo di Is 8,23–9,1, citato in Mt 4,15-16, descrive la Galilea dei gentili (Galilai,a tw/n evqnw/n) come lo scenario dove il popolo immerso nelle tenebre potrà ammirare la grande luce che si è levata su coloro che dimoravano in terra e ombra di morte.

In effetti, la Galilea è descritta come la regione dove si svolgerà la gran parte della missione gesuana;59 sarà proprio in questo territorio che i pagani potranno beneficiare della salvezza messianica ed essere lodati per la loro fede, come nel caso del centurione (Mt 8,5-13) e della donna cananea (Mt 15,21-28).

6. DAL NOME ALL’IDENTITÀ DI GESÙ: L’USO DELLA RIDONDANZA E GLI EFFETTI SUL LETTORE

Dopo aver rilevato la centralità del tema del nome di Gesù nei capitoli 1–2 del Vangelo di Matteo, tentiamo ora di fare sintesi dei dati sin qui emersi nel ten- tativo di riflettere sull’identità cristologica che il narratore matteano consegna al suo lettore in apertura della sua opera. L’analisi di Mt 1,23; 2,15b e 2,23b ha fatto emergere il notevole ricorso da parte dell’evangelista alla ridondanza narrativa, particolarmente evidente nelle formule d’introduzione (Mt 1,22; 2,15a; 2,23a).

56 È interessante notare come al v. 26,54 sia sempre Gesù a fare menzione del compimento delle Scritture (plhrwqw/sin ai` grafai.) a riguardo del suo destino. Poco pertinente ci sembra a questo punto la considerazione di Luz, secondo cui l’evangelista non ha potuto identificare la citazione che aveva a dispo- sizione (LUZ, Vangelo di Matteo, I, 215).

57 Nascita di Gesù a Betlemme (2,1), fuga e permanenza in Egitto (2,14-15.19), ritorno nella terra d’Israele (2,21-22a), trasferimento in Galilea (2,22b) e dimora a Nazaret (2,23).

58 L’edizione critica del NESTLE-ALAND27 opta per lezione testuale Nazara., recensita nei codici più antichi (a1 B* Z 33 k mae); esistono anche le varianti Nazare,t (B2 L G et al.) e Nazare,q (a* D K W Q f 1.13). 59 La partenza per la Giudea è indicata dall’evangelista a partire dal v. 19,1, mentre l’arrivo a Geru-

salemme è registrato solo al v. 21,10.

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A. LANDI – «Affinché si adempisse ciò che era stato detto...»

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Lo studio di J.C. Anderson ha contribuito a individuare le possibili finalità che possono indurre Matteo a riproporre espressioni o temi identici o analoghi.60 Il primo obiettivo che il narratore si prefigge è quello di attirare l’attenzione del lettore al fine di istruirlo nel graduale processo di apprendimento dell’identità di Gesù; difatti, attraverso i richiami testuali alle Scritture profetiche riletti nella pro- spettiva della profezia-adempimento, Matteo consente al lettore di fissare alcuni termini e concetti-chiave che lo accompagneranno nel suo percorso di lettura.

In questo modo, si crea uno spazio narrativo di attesa da parte del lettore, il quale è costantemente sollecitato a ripensare le vicende dell’infanzia di Gesù (l’annuncio, la nascita, la fuga in Egitto, il trasferimento a Nazaret) alla luce delle antiche profezie. L’uso impersonale dei verbi al futuro (kale,sousin in 1,23 e klhqh,setai in 2,23b) desta nel lettore la curiosità di sapere in che modo e da chi il protagonista del racconto, Gesù, sarà riconosciuto come l’Emmanuele e il Nazareno.

Il lettore è coinvolto nel percorso di progressivo disvelamento dell’identità di Gesù; a differenza dei discepoli, egli gode di una posizione privilegiata a moti- vo delle abbondanti informazioni che il narratore ha provveduto a comunicargli. Così, mentre ai discepoli tocca scoprire chi è Gesù, al lettore tocca invece verifi- care come si realizzerà l’identità di Gesù.

La ricezione delle informazioni contenute nelle citazioni di compimento contribuisce, inoltre, a evitare ambiguità e a unificare elementi disparati o con- trastanti, creando un modello contestuale all’interno del quale possano conflui- re gli ulteriori dati che emergeranno nel corso della lettura. Il modello conte- stuale di riferimento per il lettore del Vangelo matteano è quello del Dio-con-noi (1,23; 28,20b): in effetti, il narratore organizza il suo racconto riferendosi coe- rentemente a questo modello, aiutando il lettore a integrare le molteplici pro- spettive che di volta in volta emergono nel contesto narrativo.

Nell’ambito dei capitoli dell’infanzia, l’evangelista intende non solo enfa- tizzare il valore cristologico e soteriologico del nome di Gesù (cf. 1,21; 12,21), ma anche consentire al lettore di verificarne le ricadute in ambito comunitario e mis- sionario. Difatti, i discepoli di Gesù saranno odiati a causa del (suo) nome (10,22; cf. 24,9); dovranno sforzarsi di accogliere nel suo nome anche i più piccoli (18,5); sperimenteranno la sua presenza quando saranno riuniti nel suo nome (18,20); rinunceranno ai beni terreni per il suo nome ed erediteranno la vita eterna (19,29); dovranno evitare di lasciarsi sedurre e ingannare dai falsi profeti che si presenteranno nel (suo) nome (24,5.11.24);61 saranno inviati a tutte le genti con l’obiettivo di renderle sue discepole, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (28,19).

60 ANDERSON, Matthew’s Narrative Web, 44-45.

61 In 7,22 il sintagma evpi. tw/| ovno,mati, mou/sou ricorre ben tre volte a proposito degli operatori di ano- mia. Essi sono descritti come coloro che, presentandosi al cospetto di Gesù nel giorno del giudizio, preten- deranno di entrare nel regno dei cieli giustificando la loro pretesa a motivo dell’attività profetica, esorcisti- ca e prodigiosa compiuta nel suo nome.

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Le beatitudini nell’ermeneutica pasquale di morte e risurrezione

SANTI GRASSO

Le beatitudini sono state oggetto di diverse interpretazioni. Vale ancora oggi nella prospettiva morale il fatto che esse vengano considerate come l’an- nuncio di valori da vivere o di virtù da realizzare costituendo, così, la magna carta del cristiano.1 Esse sono delle esigenze etiche e spirituali che rappresentano le condizioni per entrare nel Regno.2

A questa interpretazione se ne affianca un’altra che viene comunemente denominata «cristologica», ovverossia dietro quegli atteggiamenti che vengono elencati vi è la personalità di Gesù, povero, misericordioso, operatore di giustizia e di pace... In questo modo dietro i macarismi ci sta il Signore, modello e fon- damento dell’esistenza umana. Tuttavia ritenere i macarismi basati sull’attuazio- ne di un comportamento morale, anche fondati cristologicamente, vuol dire non aver colto esattamente il valore del termine makarios, purtroppo ancor oggi offuscato dalla traduzione «beato» (cf. anche l’attuale traduzione CEI).

Vi è un’altra esegesi che tenta di superare l’accentuazione etica con il pre- gio di comprendere rettamente la funzione della terza parte di ogni beatitudine introdotta da hoti («perché di essi è il regno dei cieli» / «perché saranno conso- lati» / «perché riceveranno misericordia»...), che conterrebbe la motivazione della beatitudine. In questo modo la scaturigine dei macarismi consiste non nel- l’aver compiuto azioni di amore o di giustizia, ma nell’intervento di Dio che rag- giunge il discepolo mediante l’azione del suo regno.3

Tuttavia, nonostante questo chiarimento teologico di grande rilievo che fa uscire l’ermeneutica delle beatitudini dal vicolo cieco dell’interpretazione etica, notiamo che l’interpretazione del testo risulta ancora troppo generica in rappor- to all’evento cristologico fondamentale, cioè quello pasquale della morte e risur- rezione.

1 Cf. U. LUZ, Das Evangelium nach Matthäus. Mt 1–7, Zürich 1985, I, 229-230; H.-J. FABRY, «Die Selig- preisungen in der Bibel und in Qumran», in C. HEMPEL et al., The Wisdom texts from Qumran and the Deve- lopment of Sapiential Thought, Leuven 2002, 199 sostiene che le beatitudini a Qumran sono dei cataloghi di valori (4Q163; 4Q185; 4Q525; 1QH VI,-3s), mentre nel Nuovo Testamento esse formano cataloghi di virtù.

2 J. DUPONT, Le beatitudini, Roma 1967, II, 494-497; J. LAMBRECHT, «Eh bien! Moi je vous dis». Le discours-programme de Jésus (Mt 5–7; Lc 6,20-49), Paris 1986, 60-62.

3 R. FABRIS, Matteo, Roma 1982, 115-116.

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1. IL VALORE DEL TERMINE MAKARIOS

Innanzitutto va chiarito il senso del termine makarios, che nella traduzio- ne corrente di «beato» risulta poco significativo per l’antropologia dell’uomo contemporaneo che non vede nella beatitudine lo scopo della propria esistenza. Il termine makarios, che significa fornito di beni, ricco, infatti può essere tradot- to in maniera più pertinente con la parola «felice».

La felicità evangelica ha la propria radice culturale e spirituale nella tradi- zione biblica,4 in cui il termine ebraico ‘esher con il significato di «felice» ricorre 40-45 volte, soprattutto nella letteratura sapienziale5 e nei salmi.6 Nella Bibbia greca dei LXX le proclamazioni introdotte dalla parola makarios si moltiplicano diventando una sessantina. Questo genere letterario si trova anche negli scritti apocalittici (cf. Dn 12,12) e negli apocrifi giudaici7 che rinviano la promessa di

4 Nei libri storici (Gen 30,13; Dt 33,29; 1Re 10,8), nei libri profetici (Is 30,18; 32,20; 56,2; Bar 4,4; ecc.). Cf. R.A. GUELICH, «The Matthean Beatitudes: “Entrance-Requirements” or Eschatogical Blessings?», in JBL 95(1976), 415-434.

5 G. BUCCELLATI, «Le beatitudini sullo sfondo della tradizione sapienziale mesopotamica», in BibbOr 14(1972), 241-264, nel confronto con alcuni testi accadici (come: «Se [dice]: “io sono povero” diventerà ricco» [Canone 96,11] oppure: «Se è turbato nel suo cuore si rallegrerà, si illuminerà» [Canone 98,22], «Se vi è troppo poco per lui prolungherà la propria vita, avrà cibo a sufficienza» [Canone 102,26] ecc.), vede nella sapienza il retroterra culturale più adatto per comprendere le beatitudini. J.A. FITZMYER, «A Palesti- nian Jewish Collection of Beatitudes», in ID., The Dead Sea Scrolls and Christian Origins, Grand Rapids- Cambridge 2000, 111-118, nella collezione pre-cristiana giudaica 4QBeatitudini o 4Q525 individua un testo differente per contenuto, centrato sul tema della sapienza e della Torah, ma simile per forma a quello delle beatitudini. D. HELLHOLM, «Beatitudes and Their Illocutionary Functions», in A. YARBRO COLLINS (ed.), Ancient and Modern Perspectives on the Bible and Culture (Fs. H.D. Betz), Atlanta 1998, 269 studia le due funzioni delle beatitudini, quella dichiarativo-performativa che le interpreta come promesse di consolazio- ne, quella direttivo-descrittiva che le vede come esortazioni etiche. Nel primo tipo i destinatari devono accettare o rifiutare la promessa, mentre nel secondo essi devono compiere le richieste di chi le pronuncia. Le beatitudini hanno una funzione allocutoria. Quelle dell’ambito sapienziale sono per lo più performati- ve, mentre quelle apocalittiche possono essere sia dichiarativo-performative sia direttivo-descrittive. Nel Discorso del monte se sono dichiarativo-performative possono essere causali (poiché tu sei povero), circo- stanziali (quando tu sei povero), concessive (sebbene tu sia povero); se invece sono direttivo-prescrittive possono essere ingressive (se tu diventi povero) oppure durative (se tu rimani povero). L’autore afferma che le beatitudini di Matteo sono primariamente di carattere escatologico nella funzione direttivo-prescrit- tiva. Per H. LICHTENBERGER, «Makarismen in den Qumrantexten und im Neuen Testament», in F. GARCÍA MARTÍNEZ (ed.), Wisdom and Apocalypticism in the Dead Sea Scrolls and in the Biblical Tradition (BETL 168), University Press, Leuven 2003, 395-411, spec. 403, dal confronto con i testi giudaici sembra che i maca- rismi nel Discorso del monte appartengano all’alveo apocalittico. In C.M. TUCKETT – M.D. GOULDER, «The Beatitudes: A Source-Critical Study. With a Reply», in NT 25(1983), 193-216, mentre il primo nel confron- to tra la versione di Matteo e quella di Luca in relazione alla fonte Q sostiene l’ipotesi delle due fonti, il secondo la mette in dubbio.

6 Secondo K.C. HANSON, «How Honorable! How Shameful! A Cultural Analysis of Matthew’s Maka- risms and Reproaches», in Sem 68(1994), 81-111, il termine ‘esher va considerato alla luce del sistema valo- riale mediterraneo dell’onore da tradurre «come è onorevole». Il macarismo è differente dalla benedizione che proviene da Dio tramite un mediatore in un ambito di solito rituale. La traduzione di «felice» sarebbe anche inappropriata, perché quest’ultimo termine si riferisce alle emozioni umane.

7 Nei PsSal 17,50: «Beati coloro che saranno in quei giorni a vedere i beni di Israele nella riunione delle tribù». Nel libro dei Segreti di Enoch, il cui originale greco può risalire al I sec. d.C., è riportata una raccolta di otto beatitudini che richiamano i motivi sapienziali biblici:

«Beato chi teme il nome del Signore... Beato chi farà un giudizio giusto... Beato chi giudicherà con giustizia l’orfano e la vedova Beato chi si allontanerà dall’ira del cambiamento

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S. GRASSO – Le beatitudini nell’ermeneutica pasquale

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felicità al futuro escatologico. I macarismi sono costruiti nella forma diretta alla seconda persona plurale, come in Luca, o più frequentemente nella forma indi- retta alla terza persona singolare, come in Matteo (cf. Sal 1,1).8 Tuttavia la parti- colarità del testo evangelico sta nell’avere riunito assieme una serie così nume- rosa di beatitudini.9 Com’è noto, nella tradizione evangelica il testo delle beati- tudini si trova sia nella versione matteana (Mt 5,3-12) che in quella lucana (Lc 6,20-23).10

2. LA FELICITÀ NEL MONDO GRECO

Il discorso sulla felicità non è specifico del mondo biblico, ma è centrale anche nella letteratura greca classica.11 Già nella mitologia e poi nella tragedia si evidenziano le angosce e le incertezze legate alla precarietà di ogni bene, all’in- comprensibilità del destino, alla fondamentale infelicità umana. Così Sofocle si esprime nell’Edipo a Colono: «O mortali, come la vostra vita considero uguale al nulla! Quale, quale uomo è in sé felice? Felicità (eudaimonia) è un’ombra che subito precipita. E infatti la tua sorte (daimon), la tua, o misero Edipo, non è feli- ce tra gli uomini (1186-1196)». Nell’Iliade il termine olbios indica la situazione felice legata al possesso dei beni e delle ricchezze attribuita a Priamo che, un tempo propizio, vede capovolgere la sua situazione in un’infelicità (24,543).12

Nell’Atene democratica del V secolo, sempre di più emerge l’idea che componente essenziale della felicità sia fare quello che si vuole. Così Socrate chiede al giovane Liside, di buona famiglia: «I tuoi genitori vogliono che tu sia beato (makarios) e ti impediscono di fare quello che vuoi?» (Liside 208a). Nel

Beato chi semina sementi di giustizia... Beato colui nel quale è la verità e dice il vero al prossimo. Beato chi comprenderà le opere del Signore...» (2En 42,6-14). Altri macarismi si trovano in 1En 58,2: «Beati voi giusti ed eletti, poiché magnifica sarà la vostra

sorte»; in 2En 48,9: «Beato chi nella sua pazienza porta i doni davanti al Signore perché troverà retribuzio- ne», cf. 2En 62,1.

8 Per uno studio più approfondito sul rapporto tra macarismi matteani e lucani, cf. S. GRASSO, Il Van- gelo di Matteo, Roma 1995, 143-144.

9 In Sal 84,56; 119,1-2; 128,1-2; Sir 14,1-2; 25,8-9 si ritrovano beatitudini abbinate.

10 J.-M. VAN CANGH, «Béatitudes de Qumrân et béatitudes évangéliques. Antériorité de Matthieu sur Luc?», in GARCÍA MARTÍNEZ (ed.), Wisdom and Apocalypticism in the Dead Sea Scrolls, 424-425 afferma che, se Dupont riteneva la versione lucana anteriore a quella matteana, alcuni testi di Qumran hanno invece mostrato affinità con il testo di Matteo (1QH VI,13-16; 4Q525 II,1-6; 1QH XXIII,13-16). Tuttavia mentre a Qumran sono esclusi paralitici, ciechi, sordi, muti, Gesù invece li accoglie (cf. Mt 11,1-5). Per LICHTENBERGER, «Makarismen in den Qumrantexten und im Neuen Testament», 286-344 il confronto tra beatitudini a Qum- ran e nei vangeli ci consente di stabilire che le prime sono scritte da un gruppo sacerdotale proveniente dal tempio, mentre le seconde riflettono un Gesù che proviene da una tradizione laica.

11 R. KIEFFER, «Weisheit und Segen als Grundmotive der Seligpreisungen bei Matthäus und Lukas», in SNTU-A 2(1977), 30-34 evidenzia come si parli di felicità nel mondo greco mediante la radice makar e il termine eudaimonia. Ci sono beatitudini anche nel mondo greco-romano che riguardano la ricchezza, la for- tuna, la bellezza (ANASSIMENE, Rhetorica ad Alexandrum 35,1440b; MENANDRO, Frammenti 114), che concer- nono la sapienza e le virtù (ARISTOFANE, Av. 1725-1727; Ra. 1482), di tipo religioso (Sal 1; PsSal 4,23; EURIPI- DE, Bacchae 72-74) e di tipo escatologico (1En 58,2; 81,4; Inno omerico a Demetra 480-482; 486-489).

12 F. DE LUISE – G. FARINETTI, Storia della felicità. Gli antichi e i moderni, Torino 2001, 10.

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Gorgia platonico la felicità coincide con la proliferazione di ogni desiderio, godendo di una posizione di potere e di prestigio.13

Nel Protagora Socrate fornisce i criteri di giudizio validi per distinguere una vita bene o mal vissuta. Egli propone il parametro unico del piacere per indi- viduare il bene e quello del dolore per riconoscere il male (351b-c). Il modello di virtù resistente e autarchico, patrimonio esclusivo della sapienza e della felicità racchiuso nella roccaforte dell’anima, ha un valore di garanzia irrinunciabile che Platone non dimenticherà mai di richiamare. Questo tipo di felicità è poco attraente per i più ed è di tipo solipsistico.14

Per Aristotele la felicità è il nome del bene ed è il fine delle cose che sono oggetto dell’azione umana (Etica nicomachea 1097b 20-21). Si deve evitare che fini instabili come il piacere, o dipendenti dal giudizio e dalla volontà altrui come l’onore, possano fungere da criteri di orientamento. Se ogni essere che agisce è perfetto quando realizza ciò che specificatamente gli compete, l’agire dell’uomo è perfetto quando esprime il dominio della ragione. La felicità si identifica così con la virtù. Il piacere non è qualcosa di posticcio, ma è il piacere della virtù che porta a una vita compiuta (1198a 18-19). Il potere della sorte non è tale da incri- nare l’autosufficienza della virtù che determina le condizioni positive della feli- cità. Tuttavia non si può escludere la potenza della fortuna nel negare alla virtù lo spazio dell’azione e del successo (1100a 1-5). La felicità ha bisogno sia di una virtù perfetta, che di una compiutezza di vita (1100a 4-5). Il virtuoso non può che amare se stesso e questo atteggiameno è da vedersi come perno del sistema etico delle virtù (1168b 15-23). Il piacere è il segno di un’attività non impedita (1153b 11). La felicità si articola inoltre nella capacità di vivere bene con gli altri (1166a 1-2).

Secondo Diogene di Sinope nella sua filosofia stoica la felicità è stare al mondo in qualunque posto, momento e condizione e non aver bisogno di nulla se non di se stesso, essendo preparato a ogni evento (Socratis et Socraticorum Reliquiae V B 360). Per Epicuro la felicità consiste invece nel piacere come rimo- zione del dolore: assenza di esso nell’anima (aponia), mancanza di preoccupa- zione (ataraxia).15 Il saggio, raggiunta la pienezza della felicità, è capace anche quando è nei tormenti di essere felice, in quanto può fare appello alla sua memo- ria dove è trattenuta la gioia del passato come un serbatoio a cui poter attingere (Sentenze vaticane 17).

Per Zenone, stoico, la felicità è difficile da perseguire perché è raro il com- portamento razionale, mentre sono dilaganti le passioni. L’apatheia come assen- za di turbamento costringe l’uomo a guardare le passioni come errori da estir- pare (Storicorum veterum fragmenta III, 444).

Dobbiamo quindi concludere che nel suo primo discorso, sia quello mat- teano della montagna che quello lucano della pianura, Gesù si interessa non

13 DE LUISE – FARINETTI, Storia della felicità, 12. 14 DE LUISE – FARINETTI, Storia della felicità, 42. 15 Massime capitali 3; Lettera a Erodoto 83.

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tanto alla questione morale dell’uomo, quanto alla sua felicità, collocandosi sulla linea di quasi tutti i pensatori antichi e moderni che si sono interrogati e si inter- rogano su questo problema fondamentale dell’uomo.

Gesù tratterà questo tema affrontando l’aspetto della mutevolezza o volubilità dell’esistenza, cosciente che la felicità non si ottiene semplicemente perché si può fare ciò che si vuole con l’esercizio del potere o del possesso mediante il denaro. Non percorre la strada morale della virtù, ma aggredisce la questione del male che nel vangelo da lui annunciato non potrà più intaccare la felicità della vita.

3. IL CASO DEGLI AFFLITTI

Per l’entità del contributo non sarà possibile in questa sede affrontare uno studio dettagliato di tutti i macarismi. Ne prenderò in esame soltanto due, che però hanno il pregio di essere presenti sia nel Vangelo di Matteo che in quello di Luca.

La seconda beatitudine in Matteo, e la terza in Luca, riguardano coloro che sono afflitti o piangono.16 Nella prima redazione, infatti, viene usato il verbo pentheō, che significa sia «essere afflitto» che «piangere», mentre nella seconda klaiō ha il senso di «piangere, fare lutto». Nella tradizione biblica questa situazio- ne di tristezza o di pianto è causata dal lutto,17 da una catastrofe nazionale,18 dalla paura del castigo divino,19 da un’ingiusta oppressione (1Mac 1,25-27; 2,14.39).

Gli afflitti fanno parte del gruppo dei poveri che Dio promette di liberare (Is 61,2).20 Nel primo vangelo la morte del Messia sarà la causa dell’afflizione dei discepoli (Mt 9,15; cf. Mc 16,10). Nel terzo vangelo il verbo klaiō descrive la situazione della vedova di Nain per la morte del figlio (Lc 7,13), della peccatrice (Lc 7,38), dei parenti e amici della figlia di Giairo morta (Lc 8,52), di Gesù di fronte alla città di Gerusalemme (Lc 19,41), di Pietro dopo aver rinnegato Gesù (Lc 22,62), delle donne di Gerusalemme che piangono per la morte di Gesù (Lc 23,28). Quindi gli afflitti sono coloro che soffrono a causa di una situazione nega- tiva o drammatica non voluta e non richiesta.

Nel primo vangelo la ragione della felicità per gli afflitti è stabilita attra- verso il verbo parakaleō, che significa sia «invitare» (Mt 8,34), «pregare» (Mt

16 L’espressione mette in rilievo la durata dell’azione. Peraltro il verbo «affliggere», gr. pentheō, ricorre raramente nel Nuovo Testamento: cf. Mt 5,4; 9,15; Mc 16,10; Lc 6,25; 1Cor 5,2; 2Cor 12,21; Gc 4,9; Ap 18,11.15.19.

17 Cf. Gen 23,2; 37,34-35; Dt 34,8; 2Sam 19,1-3; Sir 38,17; Ger 6,26; ecc. 18 Cf. Ne 1,4; Est 4,3; Ger 14,2; Lam 2,8; 5,15; Dn 10,2; Gl 1,8-10. 19 Cf. Ger 6,26; Am 5,16; Mi 1,8; Gc 4,9; Ap 18,7-19. 20 Sulla base del confronto con Is 6,1-2, J. DUPONT, Le beatitudini, Roma 1966, I, 252-253 propone di

invertire l’ordine della seconda e della terza beatitudine, tra i contrari anche B.M. METZGER, A Textual Com- mentary on the Greek New Testament, New York 1971, 12; ma per N.J. MCELENEY, «The Beatitudes of the Sermon on the Mount/Plain», in CBQ 43(1981), 1-13, nessuna argomentazione appare così decisiva per una posizione o per l’altra.

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8,5.31; 14,36; 26,53), «supplicare» (Mt 18,29.32) sia «consolare» (Mt 2,18). Dal contesto si può desumere che nella seconda beatitudine il senso sia questo ulti- mo. La consolazione è una tematica particolarmente cara a Isaia, tanto da rico- noscere in una parte del suo scritto il libro della consolazione (Is 40–55),21 nella quale il profeta annuncia il passaggio da una situazione difficile e misera del popolo di Israele a una felice e fortunata proprio come effetto dell’azione con- solatoria di Dio. Nella parabola del ricco e di Lazzaro, il capovolgimento della sorte del mendicante, che dopo la morte si trova in paradiso, è il risultato della consolazione di Dio (Lc 16,25).

Il fatto che nella seconda beatitudine matteana il verbo sia usato al passi- vo e per di più al futuro, farebbe ritenere che si tratti di un passivo teologico e inoltre in prospettiva escatologica. Tuttavia, per stabilirne il significato non si può non tenere conto di una visione complessiva secondo la quale la consolazione non può essere soltanto rimandata all’aldilà e non può essere nemmeno unica- mente il risultato dell’azione divina. Infatti essa può essere realizzata nella storia anche ad opera della comunità cristiana, proprio in quanto interprete fedele della scelta di Dio nei confronti di coloro che vivono situazioni di prostrazione e avvilimento.

Nel Vangelo di Luca, invece, per descrivere il ribaltamento della situazio- ne si ricorre al verbo gelaō, con il significato di «ridere». Questo termine è usato soltanto qui e ancora una volta nel contesto dei «guai» (cf. Lc 6,25) per descri- vere una condizione che è esattamente antitetica a quella del pianto.

Pertanto coloro che si trovano a vivere uno stato che li affligge e per la quale piangono, in realtà si trovano di fronte a un evento che sottostà alla logica della morte. Per la fede in Gesù morto e risorto sono altrettanto certi che nella loro vita terrena verranno raggiunti dalla forza di Dio che li rivitalizzerà. In questa certez- za che la morte viene superata dalla vita consiste la felicità del discepolo.

4. IL CASO DEI PERSEGUITATI

Le ultime due beatitudini in Matteo e l’ultima in Luca riguardano i perse- guitati. Nel primo vangelo, sebbene diverse perché la penultima è costruita sulla falsariga delle precedenti, mentre l’ultima ne rompe lo schema formale, in realtà esse si rivolgono agli stessi destinatari. L’insistenza su questa beatitudine fa com- prendere come per Matteo e la sua comunità la situazione della persecuzione sia di rilievo.

Per indicarne i destinatari in Matteo si fa ricorso al verbo diōkō, che vuol dire «inseguire, perseguitare, accusare» in senso sia fisico che psicologico, usato al participio perfetto passivo.22 In queste due beatitudini ricorre tre volte (vv.

21 Cf. Is 40,1.2.11; 41,27; 49,10.13; ecc.

22 Per L. CARDELLINO, «Le beatitudini (Mt 5,1-16)», in BibbOr 43(2001), 119, il verbo diōkō, che ha il significato originario di «spingere, mettere in movimento», diventa «cercare con desiderio, perseguire,

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10.11.12), ma anche nell’ultima antitesi: «Amate i vostri nemici, pregate per i vostri persecutori» (Mt 5,44). Pertanto la persecuzione è da viversi non corri- spondendo al conflitto, ma reagendo con l’amore che trova riscontro nella pre- ghiera per i nemici (Mt 5,44).

Per il primo vangelo non una qualsiasi persecuzione rende beati, ma sol- tanto quella che avviene a «causa della giustizia», la quale è realizzata da coloro che agiscono in conformità alla volontà di Dio. Questa è la seconda beatitudine che riguarda gli operatori di giustizia, soltanto che, a differenza della prima (Mt 5,6), in questo caso essa si rivolge a coloro che devono esercitarla in una situa- zione di conflitto e di persecuzione. Si può capire per l’uso particolare e fre- quente del termine «giustizia» nel Vangelo di Matteo che essa non è quella di tipo economico o sociale, ma riguarda l’attuazione del piano di Dio nella storia umana (cf. Mt 3,15).23 Infatti questo intendimento spesso fa entrare i discepoli in conflitto e in antitesi con le logiche del mondo.

Non si può non notare un parallelo tra l’espressione «a causa della giusti- zia» e quella nella beatitudine seguente «a causa mia» / heneken emou. Questa espressione ricorre nel Vangelo di Matteo sempre in un contesto conflittuale nel quale il discepolo è chiamato a rendere la testimonianza evangelica (cf. Mt 10,18.39; 16,25; 19,29). Il compimento della giustizia è in stretta relazione con Gesù, che ne è il rivelatore definitivo. In forma di inclusione con la prima beati- tudine la ragione della felicità viene identificata nell’espressione «di essi è il regno dei cieli» (cf. Mt 5,3). Pertanto Gesù non promette ai perseguitati un inter- vento miracoloso che li liberi dalle mani dei nemici, ma l’intervento di Dio che instanza il suo regno.

Dagli scritti neotestamentari sappiamo che la prima Chiesa si è spesso tro- vata a vivere un rapporto conflittuale con l’ambiente circostante, che spesso arri- va fino alla persecuzione.24 Più precisamente, all’interno del Vangelo di Matteo diverse volte l’autore si sofferma su queste situazioni di conflittualità e di ten- sione. Anche durante la missione ne è preventivata la possibilità: «Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani...» (Mt 10,17-20). Nella spiegazione della para- bola del seminatore Gesù dice: «Quello che è stato seminato nel terreno sassoso è l’uomo che ascolta la parola e subito l’accoglie con gioia, ma non ha radice in

ambire, imitare», generalmente connesso all’idea di desiderio come dell’inseguire i nemici per catturarli, farli schiavi e spogliarli; solo molto tardi ha acquistato il senso di persecuzione religiosa.

23 Cf. S. GRASSO, «Rapporto tra giustizia-dikaiosynē e volontà-thelēma nel Vangelo di Matteo», in G. DEL MESSIER – M. QUALIZZA, Legge e Libertà (Scritti in onore di mons. E. Lizzi), Studio teologico interdio- cesano Gorizia-Trieste-Udine, Istituto superiore di scienze religiose di Udine, Udine 2009, 15-43.

24 Cf. At 5,41; 7,55–8,4; 9,4-5; 22,4.7.8; 26,11.14.15; Rm 12,14; 1Cor 15,9; 2Cor 4,9; Gc 1,2.12; 1Pt 1,6; 2,12; 4,14. Per W. STENGER, «Die Seligpreisung der Geschmäthen», in Kairos 28(1986), 48-49, le espressioni usate nelle beatitudini e indirizzate ai perseguitati sono il segno che ormai i cristiani sono stati definitiva- mente espulsi dalla sinagoga, quando il giudaismo, dopo la distruzione di Gerusalemme nel 70, non era più una realtà poliedrica e variegata, ma si stava identificando con il fariseismo.

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sé ed è incostante, sicché appena giunge una tribolazione o persecuzione a causa della parola, egli ne resta scandalizzato» (Mt 13,20-21). Nel discorso apocalittico egli preconizza: «Allora vi consegneranno ai supplizi e vi uccideranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome» (Mt 24,9). A coloro che si associa- no al destino del Crocifisso appartiene il Regno. Si tratta della medesima pro- messa fatta nella prima beatitudine e rivolta ai poveri in spirito (Mt 5,3).

Come abbiamo già detto, lo stacco tra la penultima e l’ultima beatitudine viene marcato con il passaggio dei verbi dalla terza alla seconda persona plurale (vv. 11-12).25 Questo cambiamento ha la funzione da una parte di mettere in rilie- vo la condizione di felicità per i perseguitati che sono associati in modo partico- lare al destino di Gesù, il Crocifisso, e dall’altra di creare un legame tra il testo delle beatitudini e quello sul «sale» e sulla «luce», composto anch’esso da forme verbali alla seconda persona plurale.

In questa ultima beatitudine i perseguitati vengono indicati per le loro diverse situazioni attraverso verbi differenti. Il primo, oneidizō, con il significato di «oltraggiare, ingiuriare» (cf. Mt 27,44), o anche solo di «rimproverare» (cf. Mt 11,20), ricorre anche per descrivere il comportamento tenuto dai due malfattori che, crocifissi assieme a Gesù, lo oltraggiavano (Mt 27,44).26 Il secondo è di nuovo diōkō, già usato appunto nella precedente beatitudine. Nell’espressione legō pan poneron / «dire tutto il male», a cui alcuni manoscritti aggiungono in forma parentetica il verbo «mentire» (pseudomai), il termine ponēros può avere solo un valore di aggettivo («malato, che causa sofferenza, cattivo, malvagio») oppure di aggettivo sostantivato («il male, la malignità, la malvagità»). Se in Marco la parola ricorre soltanto due volte e in Luca tredici volte, in Matteo inve- ce si riscontra un uso più ricorrente (26 volte).27 In questo caso esso ha sempli- cemente il valore di aggettivo sostantivato, «male».

Nel Vangelo di Luca la situazione di persecuzione viene descritta attraver- so quattro situazioni. La prima è evocata dal verbo miseō, con il significato di «odiare, detestare» (cf. Lc 1,71; 6,27; 14,26; 16,13; 19,14). Dopo le beatitudini Gesù continuerà il discorso esortando i suoi ascoltatori a esercitare l’amore nei confronti dei nemici e di quelli che li odiano (Lc 6,27). Nel Benedictus Zaccaria proclama la «salvezza dai nostri nemici e dalle mani di quanti ci odiano» (Lc 1,71). Nel discorso apocalittico l’elenco dei segni che caratterizzano la storia futura contiene anche la persecuzione della comunità da parte non solo degli

25 Poco convincente è l’opinione di F. GENUYT, «Du règne de la loi à la loi du royaume», in LumVie 36(1987)187, 44, secondo il quale il passaggio dal soggetto «essi» a «voi» è dato dal fatto che precedente- mente i destinatari sono i discepoli e le folle, mentre adesso Gesù si rivolge soltanto ai primi. Infatti anche la precedente beatitudine riguarda i perseguitati e, quindi, non si può vedere nella persecuzione l’esperien- za specifica della comunità cristiana.

26 Il verbo oneidizō proviene dal linguaggio dell’Antico Testamento e descrive il comportamento degli avversari contro Israele o contro l’uomo fedele alla Legge (Sal 69[68],9; 74[73],10.18; 89[88],91); cf. 1Pt 4,14: «Beati voi, se venite insultati per il nome di Cristo».

27 In Mt 5,11.37.39.45; 6,13.23; 7,11.17.18; 9,4; 12,34.35a.b.39.45a.b; 13,19.38.49; 15,19; 16,4; 18,32; 20,15; 22,10; 25,26.

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estranei, ma anche dei propri parenti. Gesù conclude affermando: «Sarete odia- ti da tutti a causa del mio nome» (Lc 21,17). La seconda situazione è prodotta dall’esclusione. Il verbo aphorizō ha qui il senso di escludere o mettere da parte o tenersi lontani, esiliare, e ricorre soltanto qui nel Vangelo di Luca. Indica la messa al bando sia sociale che religiosa che, conosciuta nel mondo biblico e giu- daico,28 viene sperimentata dai membri delle comunità cristiane (Gv 9,22; 12,42; 16,2). La terza situazione è indicata con il verbo parallelo a quello matteano oneidizō, mentre nell’ultima ricorre l’espressione ekballō to onoma hymōn hōs poneron / «disprezzare il vostro nome come infame», con la ragione: «a causa del Figlio dell’uomo».

Di tutte le beatitudini quest’ultima è la più paradossale. Infatti, se si consi- dera il criterio meramente umano, i perseguitati sono veramente dei miseri, ma se si considera la logica di Dio essi sono felici. Non per autolesionismo o maso- chismo i credenti vengono invitati a gioire non solo interiormente (chairō)29 ma anche esteriormente (agalliaō) per una unica motivazione: «Grande è la vostra ricompensa nei cieli». Il termine misthos, che significa remunerazione, ricom- pensa, premio ricorre soltanto una volta in Marco (Mc 9,41) e tre in Luca (6,23.35; 10,7), mentre dieci in Matteo. Dalla frequenza dell’uso di questo termi- ne si può capire come esso derivi da un ambiente giudaico la cui teologia è for- temente accentuata sul tema del merito. C’è da chiedersi se con questo linguag- gio l’autore del primo vangelo non venga meno alla grande battaglia portata avanti da Gesù con l’annuncio del vangelo, nel quale non compare più il Dio del do ut des o della ricompensa. Tale lotta è stata attuata proprio in rapporto al mondo farisaico che riteneva di poter ottenere la salvezza attraverso il compi- mento delle opere della Legge. Questa teologia che contrasta l’idea di retribu- zione è poi stata sistematizzata da Paolo nei suoi scritti. Tuttavia la parola all’in- terno del primo vangelo va intesa non in senso retributivo, ma in ordine alla con- divisione del destino di Gesù non solo perseguitato e crocifisso, ma anche risor- to. Infatti la «ricompensa» non viene promessa nel corso della storia umana, ma nel tempo escatologico.

Sia nel Vangelo di Matteo che in quello di Luca l’esortazione a non teme- re di affrontare la situazione di persecuzione viene suffragata con una conside- razione sulla storia biblica pregressa, costellata di profeti che per la loro fedeltà alla parola di Dio hanno pagato di persona, anche con la propria vita. Che i pro- feti siano coloro che sono andati incontro anche alla morte a causa della loro parola, viene ribadito anche nel discorso di critica ai capi, quando Gesù dice:

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che costruite le tombe dei profeti e adornate i sepol- cri dei giusti, e dite: «Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non saremmo stati loro complici nel versare il sangue dei profeti». Così testimoniate contro di voi, di essere figli di chi uccise i profeti. [...] Perciò ecco, io mando a voi profeti, sapienti e

28 Cf. Lv 13,4.5.11; 21,26; Esd 10,8; Is 56,3; 1QS 7,1.3.5; 8,24; CD 9,23. 29 Mentre chairō ricorre altre volte (Mt 2,10; 18,13; 26,49; 27,29; 28,9), agalliaō è un hapax.

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scribi: di questi, alcuni li ucciderete e crocifiggerete, altri li flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città; perché ricada su di voi il sangue inno- cente versato sulla terra, dal sangue di Abele il giusto fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia, che avete ucciso tra il santuario e l’altare. [...] Gerusalemme, Gerusa- lemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli... (Mt 23,29-31.34-35.37 // Lc 13,34).

Anche nel testo lucano vi è l’invito a rallegrarsi, sempre attraverso il verbo chairō, che assume un particolare valore nel contesto lucano, in quanto è molto usato per indicare la reazione della manifestazione messianica (Lc 1,14.28; 6,23; 10,20a.b; 13,17; 15,5.32; 19,6.37; 22,5; 23,8) che adesso ha luogo anche nel momen- to della persecuzione. Ad accentuare il comportamento ricorre anche il verbo skirtaō, con il significato di esultare, trasalire, sussultare, e usato all’interno del Nuovo Testamento soltanto nell’opera lucana (cf. Lc 1,41.44). Pure in questo testo come in quello di Matteo vi è il riferimento all’esperienza passata del mondo profetico che è stato perseguitato dai progenitori.

Questa dichiarazione di felicità può riguardare sia coloro che trascorrono un periodo della propria esistenza in cui vengono perseguitati a motivo della loro adesione di fede, sia coloro che a causa della persecuzione altrui trovano la morte. Soprattutto in relazione a questi ultimi si potrebbe ritenere che essi hanno perso la loro felicità con la loro fine violenta; in realtà, anche se incorro- no nell’esperienza della morte, essi non potranno perdere la felicità eterna che è quella più consistente e non minacciata dalle ombre dell’ambivalente vicenda umana.

5. L’INTERPRETAZIONE DELLA FELICITÀ TOTALMENTE NUOVA DI GESÙ

A differenza dei pensatori antichi che avevano individuato la felicità nel benessere, nella capacità di predisporre la propria vita attraverso scelte libere, come l’amore, notiamo che quella proposta da Gesù non è confinata soltanto in una vita che non viene intaccata dal dolore e dalla morte. Infatti, nel momento in cui l’uomo, che ha conquistato la possibilità di vivere una vita felice perché detentore di prestigio, cultura o ricchezza in quanto fortunato, aristocratico o potente, viene raggiunto da una sofferenza o da una morte, quella felicità con- quistata viene a cadere.

La proposta di Gesù rompe la barriera tra ciò che l’essere umano chiama bene e male, tra positività e negatività, che sta alla base di tutto il pensiero spe- culativo sia antico che moderno sul tema della felicità. Questa novità evangelica la si può capire soltanto se prendiamo in considerazione la chiave ermeneutica per individuare il giusto valore dei macarismi evangelici, quella della morte e risurrezione. Le situazioni che vengono indicate nelle beatitudini infatti rientra- no tutte all’interno di una logica di negatività o di morte. I poveri sono coloro che a causa dell’egoismo umano non hanno di che sopravvivere. Chi ha fame e sete di giustizia vive in un ambiente in cui essa non c’è. Quelli che esercitano la

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misericordia significa che hanno subito un torto o un’offesa. I miti sono quelli che non ricorrono alla logica della vendetta in una società segnata dalla violen- za e dallo spirito di sopraffazione. I puri di cuore sono coloro che di fronte a una società corrotta sono capaci di rimanere integri.

Tutte queste situazioni di sofferenza e di morte sono dichiarate da Gesù non più suscettibili di sventura, ma ambiti all’interno dei quali continuare a vive- re la felicità. Questo perché tali situazioni sono da capirsi alla luce dell’azione divina del Regno che si realizza nella logica della morte e risurrezione. Non si tratta di applicare lo schema morale, secondo il quale credere che attraverso i nostri sforzi queste situazioni difficili si trasformeranno in situazioni positive, ma di accogliere per fede la forza di Dio che le trasformerà in occasione di risurre- zione.

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“Gebt Ihr Ihnen zu Essen!”. Ein Pastoral-Exegetischer Beitrag zu Mt 14,13-21

MARTIN WEBER

Mit Cesare und Ugo sitzen wir abends im Ristorante “Kyrios” nahe der Piaz- za del Gesù. Der Kirchengeschichtler hat uns den ganzen Tag über durch gefühl- te 365 Kirchen Neapels geführt. Überall gab es unvermittelt herzliche Begeg- nungen: hier einen freien Eintritt, dort einen kostenlosen Kirchenführer, mal eine freundliche Umarmung, mal selbst gebackene Plätzchen mit einer tazzulel- la von Ordensschwestern. Jetzt sind wir voll von Eindrücken und Gefühlen und froh, alles und uns sacken lassen zu können. Bevor wir bestellen, kommt der Chef persönlich, um uns zu begrüßen. Man kennt sich. Was kann er heute emp- fehlen? Während die Anderen Fisch wählen, nehme ich eine Pizza Margherita. Schließlich soll sie hier erfunden worden sein. Der berühmte Opernsänger Enri- co Caruso hat einmal gesagt: «Eines Tages werde ich nach Neapel zurückkehren, weil es meine Heimat ist, die ich liebe. Aber nicht, um zu singen, sondern um Pizza zu essen».

Jetzt – Jahre später – ist mir dieser Tag in Neapel immer noch als “Gesamt- Kunstwerk” präsent: Tote Steine und lebendige Menschen, viel neues Wissen und herzliche Gefühle, etwas für Geist, Körper und Seele. Ein Tag, der zusammen und tiefer geführt hat. Und der nebenbei manches Vorurteil über die Stadt weg- gefegt hat.

1. ANALYSE DES TEXTES

Mit der “Speisung der Fünftausend” (Mt 14,13-21) überarbeitet Matthäus seine markinische Vorlage (Mk 6,30-44). Er kürzt den Text und pointiert insbe- sondere den Dialog zwischen Jesus und den Jüngern neu. Auffällig ist auch, dass das “Lehren” (Mk 6,34d) durch das “Heilen” (Mt 14,14c) ersetzt wird, während es Lukas lediglich ergänzt (Lk 9,11c). Gattungsmäßig ist der Text inzwischen all- gemein als “Geschenkwunder” klassifiziert und reiht sich damit in die alttesta- mentlichen Speisungswunder ein (MannalWachteln: Ex 16 und Num 11 und ins- besondere die Brotvermehrung durch Elischa: 2 Kön 4,42-44). Dabei bleibt jedoch ein wenig bearbeitetes Gefühl von jesuanischen und frühgemeindlichen Erfahrungen und Traditionen. So spricht Ulrich Luz von einer “Situation voll Dürftigkeit und Hunger” und “Sehnsucht nach Brot und Fülle”. «Hinzu kamen

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bestimmte Erfahrungen, nämlich die Erinnerung an die Mahlzeiten, die Jesus mit anderen Menschen gehalten hat, die gemeinsamen Agapen und das Herren- mahl in der Gemeinde»1. François Bovon rechnet gar «mit einer möglichen Kon- tamination mit den Abendmahlstexten». «Gattungsmäßig wird die Perikope also immer mehr zur Kultlegende»2. Joachim Gnilka erkennt «die Geschichte als der Tradition des palästinensischen Judenchristentums zugehörig»3. Peter Dschul- nigg sieht “die hohe Christologie” der Geschichte4.

2. HERMENEUTISCHE VERGEWISSERUNG

Dem deutschen Philosophen Hans-Georg Gadamer nach, der mit seiner wir- kungsgeschichtlichen Hermeneutik auch die Theologie nachhaltig beeinflusst hat, gibt es eine Verschmelzung des historischen und des Gegenwarts-Horizon- tes (“Zukunft braucht Herkunft”): «Die Ausschöpfung des wahren Sinnes aber, der in einem Text oder einer künstlerischen Schöpfung gelegen ist, kommt nicht irgendwo zum Abschluss, sondern ist in Wahrheit ein unendlicher Prozess»5. In der Rezeptionsästhetik brachte dieser Ansatz – nicht unwidersprochen und wei- terentwickelt – eine Ergänzung zur historisch-kritischen Methode, die insbeson- dere in der auffällig stärkeren Beachtung der Wirkungsgeschichte eines Textes deutlich wurde (dialogische Exegese). Ulrich Luz resümiert in diesem Zusam- menhang zu unserer Perikope: «Gerade die Vielfalt der verschiedenen Deu- tungsansätze könnte ein Ausdruck der Lebendigkeit des auferstandenen Jesus sein, der in den Gemeinden seine damalige Geschichte fortführt»6.

3.WARUM MÜSSEN PRIESTER NICHT MEDIZIN STUDIEREN?

Es gibt über 40 Stellen in den Evangelien, die beschreiben, wie Jesus Men- schen von allen Krankheiten und Leiden heilt: Blinde, Stumme, Taube, Besesse- ne, Aussätzige, Gelähmte, Tote. Oft geht die Heilung mit Sündenvergebung ein- her. Jesus sieht den Menschen ganzheitlich. Seine Rede vom Reich Gottes ist wesentlich gepaart mit ganzheitlicher Heilung des Menschen. Matthäus ist die- ser Aspekt bisweilen so prioritär, dass er in unserer Perikope sogar das Lehren aus der markinischen Vorlage streicht («und er lehrte sie lange»: Mk 6,34) und ersetzt durch das Heilen («und er heilte die Kranken, die bei ihnen waren»: Mt 14,14). Vor der Verkündigung des Wortes steht das unbedingte tätige Erbarmen.

1 U. LUZ, Das Evangelium nach Matthäus, 2. Teilband, Düsseldorf 42007, 397. 2 F. BOVON, Das Evangelium nach Lukas, 1. Teilband, Zürich 1989, 470. 3 J. GNILKA, Das Evangelium nach Markus, 1. Teilband, Zürich 1978, 258. 4 P. DSCHULNIGG, Das Markusevangelium, Band 2, Stuttgart 2007, 185.

5 H.-G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Tübingen 1960, 282. 6 LUZ, Das Evangelium nach Matthäus, 2. Teilband, 403.

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Entsprechend ist auch Jesu Beauftragung der Zwölf: «Geht und verkündet: Das Himmelreich ist nahe. Heilt Kranke, weckt Tote auf, macht Aussätzige rein, treibt Dämonen aus!» (Mt 10,5) und der Zweiundsiebzig: «Heilt die Kranken, die dort sind, und sagt den Leuten: Das Reich Gottes ist euch nahe» (Lk 10,9). Insbesondere die Apostelgeschichte berichtet in der Folge vom entsprechenden Wirken der Apostel in den Urgemeinden (vgl. Apg 3,1-10; 5,12-16; 9,33-35; 14,3; 14,8-10; 19, 11ff.; 28,7-9 usw.).

Der Kirche ist die Erinnerung an dieses erste Standbein Jesu fast vollständig verloren gegangen. Die Gabe und der Auftrag zur Verkündigung durch Heilung wurde erst relativiert (bereits durch die Gnadentheologie in 1 Kor 12), dann schleichend durch eine einseitige Amtstheologie quasi entsakramentalisiert. Zwar gibt es die Krankensalbung als originären Dienst des Priesters; aber dieser Dienst reduziert sich in der Regel auf den reinen Ritus, während die kontinuier- liche seelsorgliche Begleitung von Kranken und Sterbenden oft genug aus Zeit- gründen anderen Seelsorger(innen) überlassen wird. Auch gibt es den geweihten Diakon, aber dieser Dienst hat – erst recht, wenn er lediglich eine Weihe-Vor- stufe zum Priester ist – nicht selten nur noch wenig mit Diakonie und Caritas zu tun. Und so werden folgerichtig auf den Pastoralkonferenzen die immer weniger werdenden Priester auf die vermeintliche “Kernaufgabe” Eucharistiefeier und Sakramentenspendung verpflichtet, während die Aufgaben im diakonischen und caritativen Bereich “auch gut von den Laien” übernommen werden könnten. Letzteres ist zwar richtig; aber für den Priester ist das fatal: so steht er nur noch mit einem Bein in der Nachfolge Jesu.

4. ESSEN UND TRINKEN ALS KERNBOTSCHAFT

Was wäre die Bibel, was wäre das Reich Gottes, was wäre die Kirche ohne (ausreichend) Essen und Trinken! Bei Jesus hat das Essen zunächst einmal exi- stenziell etwas mit Gerechtigkeit und Erbarmen zu tun: «Ich war hungrig, und ihr habt mir zu essen gegeben» (Mt 25,35) und «Ich will sie nicht hungrig weg- schicken, sonst brechen sie unterwegs zusammen» (Mt 15,32). Die Speisung eines hungrigen Menschen führt im Reich Gottes zum ewigen Leben. Sie hat sogar Vorrang vor heiligen Gesetzen (wie das Essen der heiligen Brote im Tem- pel durch David: Mk 2,25f.). Das gemeinsame Essen ist ein Akt der Barmherzig- keit und ein Angebots-Ruf zur Umkehr (wie das Essen mit Zöllnern und Sün- dern, z. B. Mt 9,10-13). Das festliche Mahl ist ein Bild für das Himmelreich (Mt 22,1-14), das letzte Paschamahl Jesu schließlich die Stiftung eines neuen Bundes (Mt 26,20-29). Bei Johannes ist die üppige Weinvermehrung sogar das erste Zei- chen zur “Offenbarung seiner Herrlichkeit” (Joh 2,1-12). Für die Gegner Jesu, die ihn am asketischen Johannes dem Täufer messen und schockiert sind über die Mißachtung der Essensvorschriften (Mt 15,2), ist er der “Fresser und Säufer” (Mt 11,19). Der Umgang Jesu mit Essen und Trinken emotionalisiert auf beiden Seiten, er eröffnet Begegnungen, grenzt gleichzeitig aber auch traditionelle Krei- se ohne Reich-Gottes-Zukunft aus.

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Einen hintergründigen Ansatz zum besseren Verständnis biblischen Essens hat jüngst Frank Crüsemann in einem bemerkenswerten Aufsatz zu Gen 2f. bei- getragen: “Essen und Erkennen. Essen als Akt der Verinnerlichung von Normen und Fähigkeiten in der hebräischen Bibel”. Darin geht es um das “Essen von Worten” (so z. B. Jer 15,16; Ez 2,8-3,3; Jer 1,9; Ps 40,9; auch Spr 16,24). Crüse- mann zeigt auf, «dass der Aneignungsprozess von Worten, Texten samt ihren Inhalten und Wirkungen als ein Vorgang des Essens und Trinkens und damit analog zur Speiseaufnahme vorgestellt wird»7. Mit diesem erweiterten Verste- henshintergrund («“Worte essen” ist im Deutschen ungewöhnlich und auch durch die Rezeption biblischer Sprache nicht eingebürgert worden»)8 ergeben sich möglicherweise auch für die Wort-Verkündigung und die Essen Jesu Analo- gien, die weiter untersucht werden sollten. Hätte Jesus diesen sprachlich intuiti- ven Hintergrund tatsächlich bei sich internalisiert, hätte nicht nur das letzte Abendmahl sakramentalen Charakter.

So oder so bleibt die begründete Vermutung, dass die Speisung der Men- schen, denen Jesus vom Reich Gottes erzählt, nicht nur wunderbare Zugabe ist, sondern Teil der Kernbotschaft selbst. Damit gehört sie aber auch zur Kernauf- gabe seiner Jünger und der Kirche.

5. EINE PASSION FÜR DEN MENSCHEN

Nach wie vor überwiegt die “moralische Deutung”9 in der Textauslegung: Wir sollen das, was wir haben, teilen und denen geben, die weniger oder nichts haben (Lebensstil). Es gibt auch heute immer noch (soziale) Ungerechtigkeiten, die es zu bekämpfen und überwinden gilt. Die Globalisierung von Politik und Wirt- schaft macht es den meisten Menschen aus Städten und Dörfern schwieriger denn je, an den Errungenschaften der Welt einen gerechten Anteil zu erhalten. Die Gemeinde der Christen hat hier eine (Kern-) Aufgabe und Berufung.

In der durchaus krisenhaften Situation unserer Kirche scheint mir aber auch eine “ekklesiologische Deutung” legitim zu sein. Matthäus setzt dabei gegenüber den anderen Synoptikern einen kleinen Akzent. Ausgangspunkt ist die Auffor- derung der Jünger, Jesus möge die Menschen wegschicken, damit sie sich etwas zu essen kaufen können. Nur Matthäus betont in direkter Jesus-Rede: «Sie brau- chen nicht wegzugehen» (14,16), um dann wie Markus (6,37) und Lukas (9,13) zu ergänzen: «Gebt ihr ihnen zu essen!». Es sind die Menschen aus den Städten, mit denen Jesus Mitleid und deren Kranke er geheilt hat. Das verbindet. Sie brauchen das Terrain nicht zu verlassen. Die Jünger tragen nun die Verantwor-

7 F. CRÜSEMANN, Essen und Erkennen (Gen 2f.). Essen als Akt der Verinnerlichung von Normen und Fähigkeiten in der hebräischen Bibel, in M. GEIGER - C.-M. MAIER - U. SCHMIDT (Hg.), Essen und Trinken in der Bibel. Ein literarisches Festmahl für Rainer Kessler zum 65. Geburtstag, Gütersloh 2009, 85-100, hier 96.

8 CRÜSEMANN, Essen und Erkennen (Gen 2f.). Essen als Akt der Verinnerlichung von Normen und Fähigkeiten in der hebräischen Bibel, 90.

9 LUZ, Das Evangelium nach Matthäus, 2. Teilband, 398.

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tung - und sind mit aller Zeit und allen Möglichkeiten ausgerüstet, in der für Alle unbehausten und einsamen Gegend zu handeln.

Unsere Perikope beschreibt eine grundsätzliche Vernetzung. Jesus mag Men- schen. Er hat Mitleid, Erbarmen, Empathie mit ihnen. Er hat im doppelten Sinne eine Passion für Menschen (im Sinne von Leidenschaft). Er kümmert sich um ihre Grund-Bedürfnisse. Leib und Seele, Heilung und Heil, Reich Gottes und Alltags-Leben der Menschen sind für ihn eine Einheit. Alles kann zum Sakra- ment, zum sichtbaren Zeichen der verborgenen Heilswirklichkeit werden. «Die judenchristlichen Leser/innen erinnerten sich [...] zugleich an ihre eigenen Mahlzeiten in Familie und Gemeinde und an das Herrenmahl»10.

Unsere kirchliche Realität entwickelt sich zurzeit in weiten Teilen in eine andere Richtung. Durch die Strukturreformen (Gemeinde-Fusionen zu größe- ren Einheiten) vergrößert sich die Distanz der Amtsträger und Kirchen-Beauf- tragten zu den Menschen. Den Priestern bleibt oft nur Zeit für das vermeintliche “Kerngeschäft” Sakramentenspendung (Ritus). Von “Priester sein” oder gar einer “caritas pastoralis” («nicht nur durch die Ausübung der Amtshandlungen, sondern noch mehr durch die Selbsthingabe, die die Liebe Christi zu seiner Herde deutlich macht»11 spricht in diesem Zusammenhang kaum noch jemand. Für die kirchliche Beheimatung der Gemeinden seien vorwiegend die Laien zuständig, hieß es letztens folgerichtig in einer Kirchenzeitung12. Die Distanz zu den Menschen geht nicht selten einher mit einer schleichenden Refeudalisierung insbesondere des bischöflichen Amtes (als “Selbst-Schutz” vor den Menschen).

In unserer Bibelstelle brauchen die Menschen nicht wegzugehen. Aber auch die Jünger nicht. Keiner hat an dem einsamen, abseits gelegenen Ort einen Heimvorteil oder ein bleibendes Zuhause. Alle haben sich auf den Weg gemacht. Zeit und Ort für das Netzwerk, die Lebens- gemeinschaft Jesu sind Hier und Jetzt. Mit allen Bedürfnissen und Verantwortlichkeiten. Und mit einem beson- deren Auftrag für die Jünger: Sie sollen (heute) weder delegieren noch sich distanzieren. So kann die Botschaft von Heil und Heilung herüberkommen. Die Menschen werden sich später an ein “Gesamt-Kunstwerk” erinnern, an einen Tag, der zusammen und tiefer geführt hat.

6. EPILOG

Mit Cesare und drei Freund(inn)en sitzen wir abends im Restaurant “Brüg- ge” in Ibbenbüren. Aus unterschiedlichen Lebens- und Arbeitsbereichen hat es uns immer wieder hier zusammen geführt. Verbindungsglied war Klemens, der ehemalige Berufsschul- und Krankenhauspfarrer, der vor vier Jahren (am 6.

10 LUZ, Das Evangelium nach Matthäus, 2. Teilband, 401.

11 BISCHOFSSYNODE, Instrumentum laboris Der Bischof als Diener des Evangeliums Jesu Christi für die Hoffnung der Welt, X. Ordentliche Vollversammlung, 1998, 118.

12 H.-J. JOEST, in Kirche + Leben. Wochenzeitung im Bistum Münster 5/2011, 1.

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Februar 2007) gestorben ist. Für Viele – auch für uns – gilt er als heiligmäßiger Mann. Er war ein Freund der Armen, der Muslimen vor Ort und saß als Flucht- helfer in DDR-Gefängnissen. Klemens (übersetzt “der Gütige”) war immer plei- te, weil er alles an Bedürftige weiter gab: “Ich hab mir oft überlegt: Wie würde Jesus jetzt hier an meiner Stelle in Ibbenbüren handeln? Und deshalb muss ich das tun.” Er hatte viele Freunde, die ihn und sein Engagement unterstützten - aber auch manche, die ihn deswegen nicht verstehen konnten. Oft haben wir uns beim gemeinsamen Essen ausgetauscht, herausgefordert und gegenseitig gestärkt. Jetzt erinnern wir uns bei der Abendmahlzeit mit Trauer und Stolz an ihn und überlegen, wie es mit der Sache Jesu weitergehen kann. Bei seiner Beer- digung, auf der auch ein Jude und ein Moslem am Grab gesungen haben, habe ich gesagt: Jetzt, wo Klemens tot ist, müssen wir alle etwas mehr Klemens sein - gütig zu unseren Mitmenschen.

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Il ruolo narrativo di Mt 16,17-19 nella trama del primo vangelo

ROBERTO PALAZZO

I detti riportati in Mt 16,17-19 appartengono al patrimonio specifico mat- teano. Marco e Luca condividono con Matteo solo la parte iniziale dell’episodio di Cesarea (Mt 16,13-16; Mc 8,27-29; Lc 9,18-19) e non hanno il seguito presente in Matteo. Questo loro «silenzio» è «l’argomento più valido a cui si appoggiano i negatori dell’autenticità»1 di Mt 16,17-19.

Per la maggior parte degli studiosi le espressioni che Gesù rivolge a Pietro nei vv. 17-19 non possono essere attribuite al «Gesù terreno», ma sono un’inter- polazione aggiuntiva che, per come si presentano, sono state elaborate dall’e- vangelista «per la sua comunità fortemente caratterizzata in senso giudaico-cri- stiano».2

L’intento di questo studio è quello di tentare una definizione sincronica riguardante il motivo per il quale Mt 16,17-19 è inserito nel posto di fatto occu- pato nella trama del Vangelo matteano e cosa ciò possa significare in riferimen- to a Gesù, a Pietro e al gruppo dei discepoli. Con questo, non si vogliono stabili- re, ancora una volta, dopo tante argomentazioni contrarie ma anche alcune favo- revoli all’autenticità dei detti rivolti a Pietro e posti da Matteo sulle labbra di Gesù, i motivi per i quali: sono stati pronunciati dal Maestro di Nazaret, sono il frutto della redazione matteana o di una particolare tradizione conosciuta dal primo evangelista, ma se e come l’aggiunta di Matteo all’episodio di Cesarea di Filippo ha qualche relazione narrativa con tutta la descrizione evangelica a essa

1 O. DA SPINETOLI, «I problemi letterari di Matteo 16,13-20», in Atti della XIX Settimana biblica, Bre- scia 1967, 82.

2 J. BLANK, «Petrus – Rom – Papsttum. Eine folgenreiche Geschichte», in V. VON ARISTI, Das Papst- tum. Dienst oder Hindernis für die Ökumene, Regesburg 1985, 19. Dello stesso parere sono anche: R. SCHNACKENBURG, «Das Vollmachtswort vom Binden und Lösen, traditionsgeschichtlich gesehen», in P.G. MÜLLER – W. STENGER (edd.), Kontinuität und Einheit, Freiburg 1981, 141-157; ID., Matthäusevangelium 1,1–16,20, Würzburg 1985, 153; G.W.E. NICKELSBURG, «Enoch, Levi, and Peter. Recipients of Revelation in Upper Galilee», in Journal of Biblical Literature 100(1981), 575-600; B.P. ROBINSON, «Peter and His Succes- sors. Tradition and Redaction in Matthew 16,17-19», in Journal for the Study of the New Testament 21(1984), 85-104; R.H. HIERS, «“Binding” and “Loosing”: The Matthean Authorizations», in Journal of Biblical Lite- rature 104(1985), 233-250; J. GNILKA, Il Vangelo di Matteo, Brescia 1991, II, 107; ID., «“Tu es Petrus”. Die Petrus-Verheissung in Mt 16,17-19», in Münchener Theologische Zeitschrift 38(1987), 3-17; L. SCHENKE, Die Urgemeinde. Geschichtliche und theologische Entwicklung, Berlin 1990, 74.

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precedente e non debba così essere considerata unicamente per il valore che di solito le si assegna come inserzione-elaborazione redazionale.

Per la lettura sincronica-narratologica che si vuole effettuare del brano di Mt 16,13-20 si dovranno considerare anzitutto i personaggi e i motivi letterari in esso presenti, e se e come sono stati sviluppati precedentemente nella narrazio- ne. In secondo luogo, si dovranno valutare le caratteristiche narrative del grup- po dei discepoli, sia come protagonisti dell’episodio di Cesarea, ma ancor prima per il fatto che sono presenti lungo tutta la prima parte del vangelo (4,18–16,20). Successivamente si dovrà chiarire se e in che modo la descrizione di Pietro in Mt 16,13–20 – le cose da lui dette direttamente, quelle rivoltegli da Gesù e quelle attribuitegli dal narratore – sono in continuità con le informazioni date di lui nei precedenti episodi petrini di Matteo o/e ne aggiungono altre. Infine, si potrà forse comprendere lo specifico ruolo narrativo di Mt 16,17-19, come climax del percorso dialogico che Matteo conduce con il lettore tramite la prima parte del suo vangelo, per mostrargli le tappe che portano la relazione intra-diegetica tra Pietro e Gesù e tra il gruppo dei discepoli, Pietro e Gesù, a un punto decisivo circa la scoperta delle identità di ciascuno di essi.

1. IL SENSO DELLA PRIMA COMPARSA DEI DISCEPOLI E DI PIETRO IN MATTEO

Dal riferimento geografico di Mt 16,13: «Essendo giunto Gesù nella regio- ne di Cesarea di Filippo», come dagli altri riferimenti spaziali riportati da Mat- teo, non è possibile ricostruire una precisa successione, storicamente documen- tabile, dei luoghi raggiunti da Gesù nel suo itinerario di predicazione in Galilea e in Giudea. Tuttavia le indicazioni spaziali e temporali riferite dai quattro van- geli canonici sono le uniche informazioni che possediamo per ricostruire il quan- do e il dove Gesù si è recato. Ogni tentativo di comprensione della successione dei tempi vissuti e dei luoghi percorsi da Gesù non può prescindere da quello che i vangeli di fatto segnalano, introducendo gli episodi con precise coordinate spa- zio-temporali e disponendoli in successione l’uno all’altro. Questo stato di cose, prima di indurre il lettore a operare un confronto tra le somiglianze e le diffe- renze presenti nei vangeli canonici, onde cercare di stabilire i tempi e i percorsi realmente effettuati da Gesù nella sua terra – tramite la classica indagine stori- co-critica –, lo porta a notare lo sviluppo narrativo e la continuità storico-topo- grafica, che ogni vangelo stabilisce disponendo gli eventi raccontati nel modo in cui ancora oggi li leggiamo. Tutto ciò poggia sulla convinzione che la scrittura evangelica non presenta solo dei dati che devono essere decodificati opportuna- mente, dai quali, poi, ricavare informazioni utili per la sua comprensione – quasi ci trovassimo di fronte a un baule pieno di oggetti messi alla rifusa, che possono essere capiti solo allorquando si è trovata la collocazione originaria di ognuno –, ma anche come racconto già coordinato e coeso che può essere studiato e capi- to nella «sua» linearità narrativa. In questa prospettiva, i collegamenti stabiliti tra le vicende narrate dai vangeli, soprattutto quelli dove le compiono medesimi

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personaggi, non sono secondari allo stadio storico, a quello dell’ambiente cultu- rale o sociale che si possono recuperare dalle stesse vicende, ma già in sé utili a definire, partendo dal punto di vista dell’evangelista, della sua comunità e, non di meno, della propria tradizione e della capacità di ricordare gli eventi, il quando e il dove Gesù ha detto e fatto determinate cose, e a comprendere il messaggio che con essi si vuole fornire. Per questo motivo riteniamo che l’episodio di Mt 16,13-20 debba essere studiato – lì dove è posto nel Vangelo matteano – alla luce di quanto narrato precedentemente circa i discepoli e Pietro: i protagonisti che insieme a Gesù in esso compaiono.

Per quanto concerne il gruppo dei discepoli, occorre subito notare che quelli nominati in Mt 16,13-20 non rappresentano coloro che indistintamente seguono, ascoltano o si confrontano con Gesù, ma i Dodici. Dopo la loro prima menzione in Mt 4,18-22 – la chiamata dei primi quattro discepoli – non saranno più menzionati nell’arco di narrazione di Mt 5,1–9,37, tranne che in Mt 10,1s dove è riportato l’elenco dei dodici discepoli-apostoli e alcune istruzioni di Gesù. Si può infatti supporre, per i motivi che dappresso elencheremo, che tutte le volte che si menzionano i discepoli tra queste due citazioni (Mt 4,18-22 e Mt 10,1-4s), non ci si riferisce al gruppo dei dodici scelti da Gesù, ma a tutti coloro che indi- stintamente lo seguono e si pongono liberamente in ascolto della sua parola.3 Così, la menzione di Pietro in Mt 16,13-20 può essere collegata ai precedenti brani matteani in cui è narrato non solo perché in essi si scrive di lui, ma perché ci sono dei motivi letterari interni al brano in questione che suggeriscono tale let- tura e che, anche in questo, in seguito indicheremo.

2. LA PRIMA VERA COMPARSA DEL GRUPPO DEI DISCEPOLI E IL LORO INCONTRO CON IL MAESTRO

Matteo riporta nel capitolo 10 del suo vangelo la lista completa dei dodici discepoli e le istruzioni a loro rivolte da Gesù. Nel brano di Mt 4,18-22 si riferi- sce invece la chiamata di quattro discepoli e in Mt 9,9 quella di Levi, il figlio di Alfeo. Anche Marco e Luca raccontano nella stessa successione di Matteo la chiamata dei quattro pescatori (Mc 1,16-20 e Lc 5,1-3.10-11), quella di Levi (Mc 2,13-17 e Lc 5,27-32) e quella dei Dodici (Mc 3,16-19 e Lc 6,14-16). L’unica dif- ferenza, notevole, tra questi tre brani di Matteo e quelli degli altri due sinottici, riguarda la modalità espositiva con la quale Matteo introduce la chiamata dei

3 Dalla narrazione evangelica si può chiaramente distinguere tra un appello rivolto a tutti indistin- tamente e uno diretto a individui specifici. Non sempre si può invece stabilire con la stessa sicurezza se con il termine maqhtai. s’indicano solo coloro che Gesù si è scelti personalmente o anche quelli che per loro desi- derio si sono uniti a lui. Cf. M. HENGEL, The Charismatic Leader and His Followers, Edinburgh 1981, 59-63; E.P. SANDERS, Jesus and Judaism, London 1985, 222-227; ID., The Historical Figure of Jesus, London 1993, 123-127; J.P. MEIER, «The Circle of the Twelve. Did It Exist during Jesus’ Public Ministry?», in JBL 116(1997), 635-672; ID., Marginal Jew, New York 2001, III, 627-630; G.E. LADD, Jesus and Kingdom. The

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Dodici. Infatti, mentre Marco e Luca collegano la scena della chiamata al resto della narrazione tramite espressioni introduttive circostanziali («Poi [dopo i fatti appena descritti], Gesù salì sul monte [...] e ne costituì dodici»: Mc 3,13; «Quan- do fu giorno, [...] scelse dodici»: Lc 6,12), il brano di Mt 10,1-4, non avendo alcu- na introduzione spazio-temporale, è sganciato dalla catena degli eventi già rac- contati e perciò acquista un significato assoluto e solenne. L’impressione che ciò produce nel lettore è di considerare l’elenco completo dei Dodici con le relative istruzioni impartite da Gesù – anche queste, come l’elenco, espresse in termini generali – come il «punto decisivo» della presentazione dei discepoli nel Vange- lo di Matteo, in quanto seguaci di Gesù e modelli per i cristiani della comunità di Matteo.4 Questo è avvalorato dal fatto che in tutti gli episodi, precedenti Mt 10,1-4, il termine maqhta.j è usato in senso generico per indicare la presenza dei discepoli come ascoltatori, esecutori o semplici accompagnatori di Gesù in deter- minate vicende e mai – tranne che nell’episodio della barca agitata dalle onde (Mt 8,23-27) – si attribuisce loro qualche particolare caratteristica personale che li ponga in diretto confronto con Gesù, con la folla o con altri personaggi. Dopo Mt 10,1-4, invece, ai maqhtai. è assegnato un ruolo attivo nella narrazione: doman- dano spiegazioni sul perché Gesù parla in parabole e il significato di quella della zizzania e del campo (13,10.36); dichiarano di aver capito il suo modo di parlare (13,51); ordinano a Gesù di congedare la folla e poco dopo eseguono il suo comando di dare a essa i pani (14,15-21); sono turbati nel vederlo camminare sulle acque (Mt 14,26); riferiscono dei farisei scandalizzati delle sue parole (Mt 15,12); gli chiedono di esaudire una donna che lo implora di guarire sua figlia (Mt 15,23); gli domandano dove possono trovare cibo per la folla che li segue (15,32-38); Gesù chiede loro, per due volte, perché non capiscono quanto egli ha fatto (Mt 16,9.12). Da questo stato di cose si può allora pensare che Matteo abbia articolato la descrizione dei maqhtai. in due momenti. Nel primo, circoscritto alla sezione di Mt 4,18–9,38, li presenta come personaggi piatti5 che si muovono sulla scena del racconto come comparse: tutta l’attenzione è concentrata su Gesù, sulle sue parole e sui suoi gesti. Nel secondo, invece, costituito dal tratto di nar- razione che va da Mt 10,1 a Mt 16,12, i discepoli sono dei veri protagonisti: inter- vengono, reagiscono, assumono posizione davanti a Gesù e agli altri personaggi del racconto. Ugualmente avviene per la descrizione di Pietro. In Mt 4,1–9,38 non si racconta di nessuna sua reazione alle parole e ai gesti di Gesù rivolti a lui o ad altri personaggi (cf. la guarigione della suocera, in Mt 8,14). Le volte, inve- ce, in cui è citato da Mt 10,1 a Mt 16,12 è tratteggiato come un personaggio che interviene, si autopropone e discute con Gesù e le folle.6

Eschatology of Biblical Realism, London 1966, 248-254; G. LOHFINK, Jesus and Community, Philadelphia 1985, 31-35.

4 Cf. U. LUZ, «The Disciples in the Gospel according to Matthew», in G. STANTON (ed.), The Inter- pretation of Matthew, Philadelphia 1983, 101-105; M.J. WILKINS, «The Concept of Disciple in Matthew’s Gospel as Reflected in the Use of Terme Mathētēs», in NTS 59(1988), 171-172.

5 Cf. Mt 5,1; 8,23-27; 9,10-11.18.

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L’osservazione, appena fatta, di come sono disposti gli episodi riguardanti Gesù-discepoli-Pietro nel Vangelo di Matteo serve sì a individuare la loro collo- cazione nella narrazione evangelica, ma non permette ancora di capire il perché di tale organizzazione. Per tale obiettivo, occorre valutare i brani dove le tre cate- gorie di personaggi sono descritte.

3. PROBLEMATIZZAZIONE DEL RAPPORTO GESÙ-DISCEPOLI

L’insegnamento e le guarigioni operate da Gesù, nell’arco dei capitoli 5,1–9,38, avvengono in un contesto pubblico, nel quale sono presenti i discepoli, le folle, gli scribi e i farisei. Si può infatti constatare che il lungo discorso di Gesù (Mt 5,2–7,29) e gli episodi di Mt 8,1–9,38 si realizzano indistintamente «sotto gli occhi» di queste quattro categorie di personaggi, le cui reazioni alle parole e ai gesti di Gesù sono di tre tipi.

Quella delle folle è extra-diegetica, nel senso che non è diretta a Gesù o ad altri personaggi del racconto ma solo al lettore: egli è l’unico che «può sentirla». Ciò significa che le loro tre constatazioni: «Chi è mai costui al quale i venti e il mare obbediscono?» (8,27); «A quella vista, la folla fu presa da timore e rese glo- ria a Dio che aveva dato un tale potere agli uomini» (9,8); «Non si è mai vista una cosa simile in Israele!» (9,33), sono delle riflessioni, per così dire, interiori, che manifestano la difficoltà di coloro che le elaborano a codificare le parole e i gesti di Gesù secondo categorie a loro già note; inoltre dichiarano la loro capa- cità di attenzione nell’avvertire l’unicità di tale personaggio, ma non dimostrano la loro audacia di rivolgerle direttamente a Gesù per avere spiegazioni. Questo modo di procedere non serve solo a segnalare la perplessità e l’indecisione sorte nelle folle in specifiche occasioni, allorché videro Gesù agire e parlare in deter- minate circostanze, ma è una dichiarazione della generale meraviglia e dello stu- pore che le sue parole e suoi gesti suscitavano e che alcuni episodi permetteva- no di ricordare concretamente. Il fatto, poi, che Matteo collochi tali informazio- ni nella prima parte del suo scritto, e non oltre, è anch’esso pedagogico per il let- tore: mostrare, conformemente al comportamento che si ha di fronte al nuovo, che gli schieramenti di approvazione e di rifiuto di quanto Gesù diceva e faceva si crearono solo dopo la generale e indistinta meraviglia che generò la sua per- sona; ma anche per sottolineare che Gesù non intervenne in alcun modo per spiegare, correggere o confermare i vari sentimenti provati nei suoi confronti.

Diverso, invece, è il caso degli scribi e dei farisei. Essi contestano esplicita- mente il modo di parlare e di fare di Gesù: «Costui bestemmia» (9,3); «Il vostro maestro mangia con pubblicani e peccatori» (9,11). Questioni alle quali Gesù risponde (cf. 9,4-6; 9,12-13). Così, se l’atteggiamento delle folle è lasciato, per così dire, cadere senza alcun ulteriore riferimento da parte di Gesù, perché connatu- rato al graduale sviluppo di comprensione che sarebbe dovuto avvenire in esse, quello degli scribi e dei farisei è prontamente «bloccato» dai suoi interventi di risposta, perché errato e malevolo.

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La prima volta, infine, che in Matteo si riporta una reazione dei discepoli a Gesù, non è né extra-diegetica come quella delle folle né di rimprovero come quella degli scribi, ma è una richiesta di aiuto con la quale gli si attribuisce un titolo che lo qualifica correttamente. Tuttavia la conseguente risposta di Gesù, pur non dichiarando impropria la richiesta fatta dai discepoli, ne evidenzia la fal- libilità nella non attuazione, del suo contenuto, nella situazione di difficoltà che essi sperimentano: «Salvaci, Signore, siamo perduti. [...] Perché avete paura, uomini di poca fede?» (8,25-26). In altri termini, i discepoli chiedono a Gesù, definendolo Signore, di salvarli, ma paradossalmente se fossero stati concreta- mente convinti della sua signoria e del suo potere di salvarli non avrebbero dovuto chiedergli nulla. Tale paradosso, inoltre, è svelato dalla risposta di Gesù: «Perché avete paura, uomini di poca fede?». Se questa domanda, infatti, non ci fosse, la richiesta d’intervento dei discepoli non solo non esprimerebbe la con- traddizione in cui essi cadono, ma sarebbe anche pienamente adeguata alla situa- zione e al personaggio a cui si rivolgono per cambiarla (chi altri se non Gesù, il Signore, potrebbe calmare il lago agitato dalle onde?). Ciò mostra dunque che nei discepoli c’è una distanza essenziale tra il loro confessare Gesù come Signo- re capace di salvarli e il chiedere d’intervenire, che esprimerebbe la loro paura e la loro poca fede in ciò che di fatto professano con le labbra.

La descrizione della relazione tra le folle, gli scribi/farisei, i discepoli e Gesù giunge all’apice del confronto e alla radicale distinzione dei ruoli nel seg- mento narrativo di Mt 10,1–16,20. Qui le folle e gli abitanti dei luoghi e delle città dove Gesù ha parlato e operato sono apertamente rimproverati da Gesù per non aver accolto la sua parola e per essersi scandalizzati dei suoi gesti (11,2-24). La loro incredulità è talmente grande da impedire che si operino miracoli tra di loro (13,58). Invece, sempre in questi capitoli di Matteo, la reazione di Gesù all’irri- tazione dei farisei, che giungono addirittura a consigliarsi su come e che cosa fare per toglierlo di mezzo (12,14), è l’allontanamento da essi7 (12,15). In questi due modi, narrativamente parlando, la relazione tra folle, farisei/scribi e Gesù si interrompe. Non si dà alcun elemento o «occasione» narrativa, lungo la narra- zione di Mt 5,1–16,20, che lasci aperta qualche possibilità al ripensamento per il riavvicinamento di Gesù a queste due categorie di personaggi. Tutto si cristalliz- za in due atteggiamenti: le folle e gli scribi/farisei sono sempre più radicalmente orientati alla non accoglienza di Gesù, fino a volerlo uccidere; Gesù, da parte sua, li ammonisce e si allontana da loro. Quest’ultimo modo di fare di Gesù rive- la la vera identità dei suoi oppositori: sono degli ostinati, che rifiutano qualsiasi forma di accoglienza di ciò che egli dice e fa; ma soprattutto evidenzia chi è il detentore di tutti i fili del racconto, che stabilisce lo statuto narrativo della trama

6 Cf. Mt 14,28.29; 15,15.

7 La radicale avversione a Gesù, di quelli che Matteo definisce «scribi e farisei», è quasi sicuramente accentuata dall’evangelista perché il periodo in cui egli scrisse il suo vangelo coincise con quello nel quale i due gruppi stavano definendo il proprio specifico ruolo nel giudaismo. Cf. J. NEUSNER, Formative Judaism. Reli- gious, Historical and Literary Studies, Chico 1982; J.A. OVERMAN, Matthew’s Gospel and Formative Judaism. The Social World of the Matthean Community, Minneapolis 1990, 150-151.

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e dei personaggi: Gesù. È lui il protagonista indiscusso dell’intera vicenda evan- gelica, ed essendo comunemente accettato da ogni lettore come colui da cui ha origine tutto il racconto, è conseguentemente chiaro che anche le cose che egli dice degli altri personaggi sono rivelative delle loro identità nello stesso.

Il rapporto narrativo tra i discepoli e Gesù, in Mt 10,1–16,20, diversamen- te da quello con le folle e gli scribi/farisei, è effettuato sul registro del capire-non capire dei discepoli circa le cose che Gesù dice e fa. I discepoli fanno un’espe- rienza, in un certo senso, ravvicinata di Gesù per volere stesso di Gesù («A voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato»: 13,11; cf. anche 13,18-33). È questo il motivo narrativo che giustifica, nella logica del racconto, la prima domanda che Gesù rivolge a essi, alla quale essi rispondono positivamen- te: «Avete capito tutte queste cose? Gli risposero di sì» (13,51). In realtà, dalle cose descritte successivamente, si evince che la loro comprensione delle parole e dell’agire del loro Maestro non corrisponde a quanto di fatto essi esprimono: hanno paura nel vederlo camminare sulle acque e pensano sia un fantasma (14,26-27). Anche l’iniziale audacia di Pietro viene meno (14,28). Infine, anche quando i discepoli ricevono ulteriori segni esplicativi della potenza divina pre- sente in Gesù (15,32-38; 16,5-11), continuano a non capire e a non avere intellet- to (15,17; 16,9.11).

I discepoli, dunque, a differenza delle folle, degli scribi e dei farisei che sono lasciati nella loro incapacità di conoscere Gesù, da Gesù stesso8 («... a loro non è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli [...] affinché guardando non vedano e udendo non ascoltino né capiscano»:9 13,10) sono spronati a reagire da tre sue domande sul perché del loro permanere nell’incomprensione («ou;pw noei/te»: 15,7; 16,9.11). Anche uno di loro, Pietro, che è descritto in slanci d’inten- dimento del Maestro (14,28; 15,15), alla fine si trova allo stesso loro livello; e la domanda-rimprovero sul continuare a non capire vale anche per lui. In definiti- va, l’incapacità di capire dei discepoli e il continuo richiamarli alla comprensio- ne da parte di Gesù significa che questo è un motivo narrativo che Matteo uti- lizza per descrivere il rapporto tra loro. Esso giunge a un punto nevralgico in Mt 16,9.11, dove per il lettore nasce l’interrogativo: riusciranno mai i discepoli a fare il salto di qualità che Gesù si aspetta da loro? Quando capiranno chi egli è vera- mente?

8 Probabilmente, la ripresa da parte della tradizione sinottica (Mc 4,10-12; Mt 13,10-15; Lc 8,9-10) di Is 6,9-10, deve essere intesa allo stesso modo della formulazione isaiana: è per il disegno di Dio che alcuni comprendano e altri no. Cf. M. BLACK, An Aramaic Approach to the Gospel and Acts, Oxford 1967, 212-214.

9 Questo logion più che esprimere, nel tempo post-pasquale, la delusione dei discepoli per la man- canza di accoglienza del loro annuncio, proverrebbe da Gesù stesso. Così J. GNILKA, Die Verstockung Israels. Isaias 6,9-10 in der Theologie der Synoptiker, München 1961, 198-205 e C.A. EVANS, «To See and Not Per- ceive. Isaiah 6,9-10 in Early Jewish and Christian Interpretation», in JSOTS 64(1989), 103-106. Si veda anche T.W. MANSON, The Teaching of Jesus, Cambridge 1931, 77-78 e B. CHILTON, A Galilean Rabbi and His Bible. Jesus and Evolution of Consciousness, Atlanta 2000, 91-93.

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4. UN CLIMAX ATTESO DAL LETTORE: L’INCONTRO TRA PIETRO-DISCEPOLI-GESÙ E LO SVELAMENTO DELLE LORO RECIPROCHE IDENTITÀ

Il brano di Mt 16,13-20 può essere considerato il climax, cioè il momento risolutivo, di tutta la narrazione precedente. Gesù,3 nel chiedere esplicitamente ai discepoli – gli unici personaggi intra-diegetici a differenza di altri (folle, scribi e farisei) che sono ripresentati nella narrazione per continuarne la caratterizza- zione – che cosa si pensi di lui, velocizza massimamente il racconto sulla que- stione fondamentale che ha interessato il racconto matteano fino a questo punto: l’identità di Gesù per il gruppo dei discepoli. Da quanto descritto in Mt 16,13-20, il lettore conosce che colui che dà la risposta corretta a tale quesito è Pietro, ma sa anche, da quanto Gesù stesso afferma, che il vero rivelatore di se stesso non è lui, bensì il Padre che è nei cieli. È, quindi, chiaro che nessuno dei discepoli, Pie- tro compreso, è stato capace di conoscere – di capire – chi fosse Gesù. A questo punto, il tema del capire e non capire è stato completamente risolto ed è stata, di conseguenza, anche definitivamente chiarita l’identità dei discepoli in rapporto al Maestro: essi non sono in grado di conoscerlo tramite la carne e il sangue ma solo grazie al Padre. Dopo di ciò, la comune tradizione sinottica inizia un nuovo percorso tematico, nel quale Gesù parla apertamente (Mt 16,21; Mc 8,32; Lc 9,23): «Da allora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli...».10 Resta da comprendere perché solo Matteo riporti i tre detti di Gesù rivolti a Pietro, in uno sviluppo narrativo ritenuto comunemente completato senza di essi. Consi- derandoli un’aggiunta redazionale, che potrebbe anche essere espunta, rimar- rebbe inalterato il senso complessivo del racconto che Matteo vuole trasmette- re? E se invece li si considerasse coerenti allo svolgimento redazionale che Mat- teo opera nel suo vangelo per la figura di Pietro,11 con ciò sarebbe spiegata solo l’impostazione matteana, per la quale Pietro è sia modello del discepolo sia supremo capo della Chiesa,12 o anche qualcosa di più della relazione tra questi, Gesù e gli altri discepoli?

Nei tre episodi petrini (Mt 10,2-4; 14,22-33; 15,10-20), precedenti quello di Mt 16,13-20, a Pietro sono assegnati delle caratteristiche e dei ruoli che la tradi- zione marciana non conosce (cf. i paralleli di Mc 3,16-19; 6,45-52; 7,14-23). Per Matteo, nell’elenco dei discepoli Pietro è il «primo» (Mt 10,2); è colui che osa chiedere a Gesù, nello stato di generale sconvolgimento di tutti i discepoli, di camminare sulle acque (Mt 10,28); infine, quando i discepoli chiedono a Gesù spiegazioni dei suoi discorsi, anche Pietro lo fa personalmente (Mt 15,15). Que- sto duplice modo di caratterizzare il pescatore di Galilea in quanto membro del

10 Cf. J.D. KINGSBURY, «The Structure of Matthew’s Gospel and His Concept of Salvation History», in CBQ 35(1973), 453-454; ID., Matthew. Structure, Christology, Kingdom, London 1976, 24-25.

11 Matteo, rispetto a Marco, sottolinea notevolmente il ruolo di Pietro: è definito primo (Mt 10,2); il suo nome è presente in circostanze che evidentemente erano riferite all’insieme dei discepoli (Mt 15,15 e 18,21); è descritto come modello del discepolo, al quale Gesù affida azioni e compiti importanti (Mt 14,28- 31; 16,16-19; 17,24-27).

12 Cf. R. AGUIRRE, Pedro en la iglesia primitiva, Estella 1991, 51-56.

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R. PALAZZO – Il ruolo narrativo di Mt 16,17-19 nel primo vangelo

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gruppo dei discepoli e come uno che si staglia su di loro nel prendere iniziative personali da rivolgere al Maestro, produce di fatto una distinzione intra-diegeti- ca tra Pietro e gli altri discepoli circa la comprensione dell’identità di Gesù. In altri termini, questi episodi portano il lettore a chiedersi: se e in che modo le tre descrizioni, nelle quali Pietro si relaziona a Gesù nella sua individualità perso- nale e quelle nelle quali il resto dei discepoli si rapporta al Maestro comunita- riamente, si uniranno in qualche obiettivo comune, oppure indicano due distinti cammini di sequela dietro Gesù. Sono proprio i detti di Mt 16,18-19 che creano un collegamento tra i brani su Pietro e quelli sugli altri discepoli, altrimenti risol- ti nel significato attribuibile ai soli singoli brani che ne parlano. Tutte le promes- se fatte da Gesù a Simone, figlio di Giona (sarà la pietra sulla quale Gesù edifi- cherà la sua Chiesa, riceverà le chiavi e il potere di legare e di sciogliere), al di là del significato che gli si può assegnare,13 mostrano come nella prospettiva di Matteo i poteri che Gesù dà a uno dei suoi discepoli sono prima di tutto ricor- dati come sua libera e personale iniziativa; sono conseguenti alla conoscenza e all’accoglienza della sua vera identità: il Cristo, il Figlio di Dio; e mirano alla costruzione (edificare la Chiesa) e all’ordinamento di tutti coloro che lo acco- glieranno come tale in comunità. Si può allora a questo punto constatare che Matteo, prima di iniziare la seconda parte del suo vangelo (16,21–25,46), conclu- de la lunga sezione dedicata al rapporto conoscitivo tra Gesù e i discepoli, attri- buendo alle tematiche e ai protagonisti in essa presentati la definitiva chiave di lettura in cui devono essere compresi: l’identità di Gesù è dischiusa dalla rivela- zione del Padre; Pietro è costituito mallevadore di tale identità; tutti i discepoli diverranno per suo mezzo comunità credente.14

13 Cf. GNILKA, Il Vangelo di Matteo, II, 97-105 e H.L. STRACK – P. BILLERBECK, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, München 1965, I, 739s.

14 A. SCHLATTER, Der Evangelist Matthäus, Stuttgart 1929, 507: «L’ipostatizzazione della fede, che le assegna effetti senza che ci sia bisogno anche di un credente, appartiene a una logica tutta diversa da quel- la che ha informato la vita spirituale di Gesù e degli evangelisti. Per essi la comunità di Dio era costituita da persone umane. Perciò quando si pensa alle origini della comunità, si parla non di una fede o di un con- cetto, bensì dell’uomo al quale Gesù affida la sua opera affinché tramite lui sorga la nuova comunità».

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L’analēmpsis elianica di Gesù (Lc 9,51; 24,51; At 1,2.11.22)

COSIMO PAGLIARA

Il Vangelo di Luca riprende un elemento della tradizione elianica a propo- sito del «rapimento» del profeta Elia per rileggere l’ascensione di Gesù. Già in 9,51 annuncia l’«assunzione» (analēmpsis) che doveva compiersi a Gerusalemme. Una variante linguistica per esprimere tale evento è presente in Lc 24,51 con il verbo passivo anapherein; quest’ultimo ritorna in At 1,9 con il passivo di epairein. L’uso di questi passivi, cosiddetti divini, implica l’azione di Dio, come anche quel- lo di egeirein per indicare la sua risurrezione. L’interpretazione di questi passivi non può essere limitata a considerare l’azione solo dall’esterno, quasi Dio fosse un «ascensore» nell’evento dell’ascensione di Gesù, ma va considerata dal punto di vista della dynamis che egli accorda al Cristo.1 Per descrivere l’evento dell’a- scensione il narratore lucano ha attinto al canovaccio elianico, che si rifà alla ver- sione della LXX sul «rapimento» di Elia «in cielo». La corrispondenza letterale con il modello elianico del rapimento al cielo è sorprendente:

– 2Re 2,11: avnelh,mfqh Hliou [...] eivj to.n ouvrano,n – 1Mac 2,58: Hliaj [...] avnelh,mfqh eivj to.n ouvrano,n – Sir 48,9: o` avnalhmfqei.j – Lc 9,51: ta.j h`me,raj th/j avnalh,myewj auvtou/ – At 1,2: evxele,xato avnelh,mfqh – At 1,11: o` avnalhmfqei.j avfV u`mw/n eivj to.n ouvrano.n – At 1,22: avnelh,mfqh avfV h`mw/n.

A queste corrispondenze si aggiungono quelle che presentano variazioni linguistiche al tema del «rapimento» o «ascensione» al cielo:

– Lc 24,51: avnefe,reto eivj to.n ouvrano,n – At 1,9: u`pe,laben auvto.n avpo. tw/n ovfqalmw/n auvtw/n.

Tali ricorrenze sono motivo sufficiente per offrire un’indagine dei vari con- testi lucani in cui questo modello veterotestamentario è presente e a cui le nar- razioni protocristiane dell’ascensione si sono ispirate.

1 S. LEGASSE, Marco, Borla, Roma 2000, 874, nota 91.

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1. LC 9,51: «I GIORNI DELLA SUA ASSUNZIONE»2

1.1. Il testo nel suo contesto

L’importanza che Luca dà al viaggio di Gesù verso Gerusalemme nella parte centrale del suo vangelo (9,51–19,44) è ben conosciuta. Tanto per essere più precisi, uno dovrebbe parlare della sua «assunzione» (avna,lhmyij), non «ascensione» (a;nodoj). Quest’ultimo termine non è mai usato, ma è diventato familiare in uno studio di Cristo più elaborato (cristologia più approfondita). La decisione di Gesù di salire a Gerusalemme è indicata nella prima frase del brano: «Stando per compiersi il tempo della sua dipartita, egli prese la risoluzione di recarsi a Gerusalemme» (9,51). Provenendo da nord, uno deve «salire/ascende- re» per raggiungere Gerusalemme. In verità Luca richiama questo aspetto in 19,28, quasi alla fine del viaggio: «Dette queste cose, Gesù proseguì avanti agli altri salendo verso Gerusalemme».

Il denominatore comune delle sequenze di 9,1-50, che precede il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, è la domanda su Gesù: «Chi è dunque costui?» (9,9). In 9,7-9 la domanda è posta, in primo luogo, da persone estranee al gruppo dei discepoli e, successivamente, si evolve in favore dei discepoli: Gesù stesso inter- roga i suoi discepoli in proposito (9,18-20) e comunica loro il destino che lo attende. L’episodio della trasfigurazione rappresenta il culmine di questo svilup- po tematico: Gesù non è Mosè né Elia, ma il Figlio del Padre. Luca sottolinea che l’identità di Gesù non può essere percepita nella sua relazione con Mosè ed Elia o con un personaggio veterotestamentario, ma solo nella relazione che lo costi- tuisce Figlio di Dio.

Il cambiamento di prospettiva è chiaro: l’ingresso del discepolo nel miste- ro della persona di Gesù non avviene identificandolo con le figure di Mosè e di Elia, ma lasciandosi afferrare in questa relazione filiale da colui il cui destino di passione e risurrezione è parte imprescindibile nel suo cammino verso il Padre. Il discepolo è, anche, coinvolto a seguire Gesù, camminando verso il Padre: «Se qualcuno vuol venire dietro a me...» (Lc 9,23).

La domanda che il lettore si pone è se Luca «imita» un episodio dell’Anti- co Testamento o evoca la figura di Elia in base a 2Re 2,9-11. Nel capitolo 7, Luca raggruppa una serie di miracoli «imitando» miracoli simili o paralleli a quelli di Elia e di Eliseo.3 Al centro del racconto (7,24.35) vi è una disputa tra Gesù e la

2 La maggior parte dei commentari traduce «ta.j h`me,raj th/j avnalh,myewj auvtou/» con «i giorni della sua assunzione»: K.H. RENGSTORF, Il Vangelo secondo Luca, Paideia, Brescia 1980, 220; H. SCHÜRMANN, Il Van- gelo di Luca, Paideia, Brescia 1983, 60; S. GRASSO, Luca, Borla, Roma 1999, 292. Al contrario J. SCHMID (L’E- vangelo secondo Luca, Morcelliana, Brescia 1965, 228) traduce con «il tempo in cui doveva essere levato (dal mondo)», intendendo così la sua morte e non la sua ascensione al cielo.

3 Tale possibilità è stata studiata estesamente da T.L. BRODIE, «Towards Unraveling Luke’s Use of the Old Testament: Luke 7:11-17 as an Imitation of 1 Kings 17:17-24», in NTS 32(1983), 247-267; ID., «Luke 7,36:50 as an Internalization of Kings 4:1-37: A Study in Luke’s Use of Rhetorical Imitation», in Bib 62(1983), 457-485.

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gente su Giovanni il Battista come profeta sullo stile di Elia (vv. 24-29), il pre- cursore promesso in Ml 3,1 e 3,23. Tuttavia vi è anche un’altra rappresentazione di Elia, come predicatore e risanatore. Questa caratteristica non può essere applicata a Giovanni, la cui attività terapeutica (se mai ce ne fosse) è silente nella tradizione evangelica. Tuttavia, corrisponde perfettamente alla figura di Gesù, così come si è notato nell’episodio a Nazaret.

Davvero Luca è alla ricerca del testo midrashico? Il lessico di Luca, sia in Lc 9,51 sia in At 1,2.9.11, presenta delle somiglianze letterarie con 2Re 2,9-11 che orientano il lettore ad approfondire tale tentativo lucano di descrivere l’analēm- psis di Gesù ricorrendo a quella di Elia.

1.2. L’articolazione del testo

La formula introduttiva evge,neto + evn tw/| introduce una nuova sequenza (Lc 9,51-56). Tale espressione è propriamente redazionale, ma riveste anche un valo- re teologico, perché segna la tappa di un avvenimento che si dispiega nel tempo e nello spazio: il viaggio di Gesù verso Gerusalemme attraverso la Samaria. Due nuove circostanze segnano un cambiamento rispetto al contesto precedente: la formula del compimento dei giorni, indizio dell’avvicinarsi di un evento signifi- cativo, l’innalzamento o assunzione (v. 51a) e il luogo dove si compirà: Gerusa- lemme (v. 51b).

La coerenza tematica interna della pericope è assicurata dalla reiterata ricorrenza del verbo di movimento poreuomai («partire»); in 51b l’uso del verbo al singolare esprime la decisione di Gesù di recarsi a Gerusalemme; l’uso al plu- rale nei vv. 52b.53b indica che Gesù non è più solo ma, nel suo viaggio verso un altro villaggio, è accompagnato dai suoi discepoli. Tale distinzione è avvalorata dalla triplice menzione del termine «volto» (prosōpon: vv. 51b.52a.53a) che caratterizza l’identità e l’autorità di Gesù di recarsi a Gerusalemme.

L’unità letteraria è strutturata in un’unica sequenza che può essere così suddivisa in due brevi racconti e in una conclusione: la decisione da parte di Gesù di recarsi a Gerusalemme (vv. 51-53); l’intervento di Giacomo e Giovanni (vv. 54-55); l’inizio del programma itinerante di Gesù (v. 56).4 In ambedue i rac- conti affiora la figura di Elia.

1.3. L’intertesto lucano

La scena dell’«elevazione» di Elia in un carro di fuoco è raccontata in 2Re 2,9-11. Tale evento è come l’ultimo tratto di un viaggio che si snoda gradata- mente in precise tappe: Elia, in compagnia del suo discepolo Eliseo, inizia il suo viaggio a Gilgal (v. 1), passando per Betel (vv. 2-3) e per Gerico (vv. 4-5), giunge

4 GRASSO, Luca, 292-293.

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al Giordano (vv. 6-8) e, dopo aver attraversato il fiume, prosegue nel suo cam- mino verso oriente in quella stretta pianura che si trova tra il fiume Giordano e il monte Nebo. In questo spazio pianeggiante, mentre Elia è in cammino con Eli- seo, dice al suo discepolo: «Chiedi quello che vuoi che io faccia per te, prima che io ti sia tolto» (2Re 2,9: pri.n h' avnalhmfqh/nai, me avpo. sou). Più tardi, mentre cam- minano insieme, il percorso dei due viandanti subisce una repentina interruzio- ne: arriva un carro di fuoco e il profeta viene rapito al cielo (2Re 2,11: avnelh,mfqh Hliou). È evidente che l’intreccio del racconto è dato dal motivo del viaggio: l’e- levazione di Elia verso il cielo è come preparata e compensata da un lungo viag- gio attraverso la Samaria e la valle del Giordano. Tale percorso da Gilgal alle steppe di Moab in 2Re 2,1-12 viene ripercorso a ritroso nella seconda parte del racconto, dopo l’elevazione di Elia, da parte del discepolo Eliseo, che attraversa il Giordano in modo miracoloso (vv. 13-25) e, dopo una sosta a Gerico (vv. 19- 22), risale a Betel (vv. 23-24) e giunge sul Carmelo (v. 25a) e, infine, ritorna a Samaria (v. 25b).

In base ai movimenti dei due personaggi possiamo ricavare la seguente articolazione del racconto:

a. Elia in cammino con Eliseo

b. Arrivo alle Steppe di Moab:

b. Il ritorno di Eliseo

Il susseguirsi graduale delle singole tappe del viaggio presenta una chiara struttura concentrica e simmetrica. Il climax del racconto è la scena dell’eleva- zione di Elia al cielo (vv. 9-12). Tale centro e vertice è racchiuso dai due itinera- ri del viaggio, descritti in modo parallelo e orientati a una meta diversa. Il viag- gio di Elia con il suo discepolo Eliseo va considerato insieme al viaggio di ritor- no di Eliseo. Pertanto la scena dell’elevazione di Elia non va considerata solo nell’ambito delle scene di 2Re 2,1-15, ma all’interno dell’intera unità letteraria di 1Re 2,1-25: è nel contesto dell’unità globale che l’elevazione di Elia riceve un significato pieno e funzionale.5

Gilgal (v. 1) Betel (vv. 2-3) Gerico (vv. 4-5) Giordano (vv. 6-8)

Ascensione di Elia (vv. 9-12)

Carmelo (v. 25a) Betel (vv. 23-24) Gerico (vv. 19-22) Giordano (vv. 13-15)

5 J. GRAY, I-II Kings. A Commentary, Westminster, Philadelphia 31979, 472-475; C. ALCAINA CANOSA, «Eli- seo succede a Elia (2Re 2,1-18)», in EB 31(1972), 321-324; G. DEL OLMO LETE, La vocación del lider en el antiguo Israel. Morfología de los relatos bíblicos de vocacíon, Pontifical University, Salamanca 1973, 169-172; J.A. MONTGOMERY, The Books of Kings, Clark, Edinburgh 1967, 353; E. WÜRTHWEIN, Die Bücher der Könige.

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La dinamica del racconto parallelo dei due viaggi (vv. 1-8 e vv. 13-15.19- 25a) mostra l’intenzione narrativa di sottolineare l’evento centrale del racconto: l’elevazione di Elia (vv. 9-12). Quest’ultima è articolata a dittico, in due parti fra loro complementari mediante elementi letterali: l’uso reiterato dell’espressione «wayehî» (e avvenne) nei vv. 9 e 11 ha la funzione di evidenziare i punti cruciali all’interno di un racconto ed è il «segno macro-sintattico» che maggiormente caratterizza un testo come narrazione; infatti, lo si può trovare non solo quando s’introduce un racconto ma anche lungo la narrazione.6 Inoltre nel nostro conte- sto all’espressione con «wayehî» seguono due proposizioni temporali-circostan- ziali. Nel v. 9 la circostanza iniziale «appena furono passati» precede l’azione principale di Elia che si rivolge al suo discepolo. Ugualmente nel v. 11 la circo- stanza iniziale «mentre continuavano a camminare conversando» precede le azioni principali «ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco s’interposero fra loro due. Elia salì nel turbine verso il cielo». Tali indizi letterari mostrano che i due piccoli quadri narrativi presentano un’introduzione parallela e mostrano una coerenza all’interno di una scena nella sua globalità.

Nel primo quadro viene descritto il viaggio di andata verso le steppe di Moab da parte di Elia con il suo discepolo Eliseo, e viene presentato facendo ricorso alla tipologia della vita di Mosè. Il profeta Elia per concludere la vicen- da terrena della sua missione profetica si reca in quel luogo dove Mosè aveva concluso la sua attività di legislatore (Dt 34,1ss); per poter arrivare nella pianu- ra delle steppe di Moab presso il monte Nebo, Elia compie il miracolo della divi- sione delle acque del Giordano, simile a quella divisione delle acque realizzata da Mosè (Es 14,21), e mentre Elia usa la mediazione del suo mantello (2Re 2,8) Mosè ricorre a quella del suo bastone; infine, in questo luogo delle steppe di Moab Elia trasmette il suo carisma a Eliseo, come ugualmente Mosè prima di concludere i suoi giorni trasmette i suoi poteri a Giosuè. Eliseo diventa il suc- cessore di Elia alla maniera di Giosuè che era diventato il successore di Mosè.

Segue la scena dell’elevazione di Elia al cielo che si articola in due momen- ti. Nel primo, appena passato il Giordano, Eliseo chiede a Elia se lo rende parte- cipe di una duplice parte del suo spirito profetico. Elia risponde positivamente annunciando una condizione previa per tale conferimento: «Se mi vedrai quan- do sarò rapito lontano da te, ciò ti sarà concesso» (v. 10). Eliseo deve essere ini- ziato al mistero che sta per accadere, deve essere capace di «vederlo» nel momento in cui viene elevato al cielo. Il profeta di Tisbe conosce per esperienza la porta d’ingresso allo spirito profetico: non si può essere introdotti di proprio arbitrio, ma c’è un cammino di iniziazione che ogni profeta deve compiere. L’i- dentità profetica comporta un itinerario di ammissione nell’ambito della cono-

1.Kön. 17-2.Kön. 25, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1984, 273-278; G.H. JONES, 1 and 2 Kings, Eerd- mans, Grand Rapids (MI) 1984, I-II, 381-383; A. ROFÉ, Storie dei profeti. La narrativa sui profeti nella Bib- bia ebraica: generi letterari e storia, Paideia, Brescia 1991, 55-60. Cf. anche R.A. CARLSON, «Élisée – le suc- cesseur d’Élie», in VT 20(1970), 403-405.

6 A. NICCACCI, Sintassi del verbo ebraico nella prosa biblica classica, Franciscan Printing Press, Jeru- salem 1986, 32.

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scenza del mistero di Dio: così è stato per Mosè (Nm 12,6-8; Es 34,5ss), per lo stesso Elia (1Re 19,9ss), per Isaia (Is 6), per Ezechiele e altri (Ez 1–2; Ger 23,18). Se Eliseo vuole ricevere l’eredità profetica di Elia, è necessario che Dio lo renda capace di «vedere» (essere iniziato) il mistero di Dio che sta per afferrare il pro- feta di Tisbe.

Tra gli elementi che caratterizzano l’elevazione di Elia al cielo come rac- conto teofanico emerge soprattutto il particolare dei «carri e cavalli di fuoco» (v. 11a) che irrompono con forza nella scena e separano Elia da Eliseo. Tale imma- gine come espediente stilistico è abbastanza frequente nei racconti che descrivo- no interventi teofanici di YHWH (Ab 3,8; Is 66,15; Sal 68,18). A confermare la natura teofanica dell’evento è il «turbine» che avvolge Elia e lo rapisce in cielo (v. 11b).7 Il turbine che solleva Elia è caratterizzato come un vento di tempesta che rapisce Elia nello spazio divino che è il cielo. Lo stesso termine viene ripre- so da Ez 1,4, dove viene descritto come un vento impetuoso proveniente dal nord e che secondo la mitologia cananaica, familiare a Ezechiele, era lo spazio dell’assemblea divina (Is 14,13). Tale vento o turbine dava luogo a una nuvola tempestosa che nella poesia cananaica e in quella dell’antico Israele era collega- ta con un’apparizione divina (Sal 18,915; Ab 3,14).8 Il narratore intende qui dare un valore di esperienza visuale all’evento che sta per costituire Eliseo come suc- cessore elianico.

L’evento di Elia che «sale al cielo in un turbine di fuoco» e che trasmette il suo spirito profetico al discepolo Eliseo perché continui a mostrare la presenza di Dio nella storia (Sir 48,1-13; 1Mac 2,58) pone una serie di difficoltà ermeneutiche nell’intento di scoprire il senso di un fatto tanto misterioso. Non c’è dubbio che da un punto di vista letterario il lettore è colpito dal fatto che Elia viene sottrat- to violentemente agli occhi dei suoi discepoli in una tempesta di fuoco. Tuttavia si chiede cosa si nasconda dietro a una così immaginosa descrizione.

Un primo tentativo di interpretazione nella ricerca esegetica ha ammesso che Elia fu elevato in cielo. Da questa dimensione spaziale, senza l’esperienza della morte, ritornerà sulla terra per preparare il ritorno glorioso del Signore. Tale interpretazione viene supportata dalla profezia di Ml 3,23-24. Ma a esclu- dere questa possibilità ermeneutica vi è l’affermazione di Mc 9,12, in cui si affer- ma che tale profezia si è compiuta in Giovanni Battista, quest’ultimo identifica- to con Elia (cf. Mt 17,10-13).

Si potrebbe obiettare che solo Eliseo è stato protagonista della visione in cui Elia viene sottratto al suo discepolo, una visione interna alla coscienza di Eli- seo e che in un secondo momento manifesta ai cinquanta figli dei profeti.

L’elemento immaginoso è un’ulteriore difficoltà: turbine di fuoco prodot- to da un carro di cavalli che presenta bagliori di fuoco. Una tale descrizione può orientare il lettore a un’interpretazione allegorica. Ma a un’attenta analisi lette-

7 A. SCHMITT, Entrückung, Aufname, Himmelfahrt. Untersuchungen zu einem Vorstellungsbereich im Alten Testament, Verlag Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1973, 91-98 e 107-109.

8 J. BLENKINSOPP, Ezechiele, Claudiana, Torino 2006, 32.

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raria del vocabolario utilizzato dal narratore emergono alcuni particolari che richiedono una particolare attenzione.

a) Innanzitutto l’uso del verbo lāqāh. («prendere») in 2Re 2,3-5: per ben due volte viene ripetuta un’identica espressione: «Non sai tu che oggi il Signore porterà via il tuo signore al di sopra della tua testa?» (vv. 3.5). L’uso del verbo lāqāh. presenta delle affinità con alcune tradizioni veterotestamentarie: Gen 5,24, «Enoc camminò con Dio, poi scomparve perché Dio l’aveva preso (lāqāh. )»; Sal 49,16, «Dio... mi strapperà (lāqāh. ) dalle mani degli inferi»; Sal 73,24, «... e poi mi accoglierai (lāqāh. ) nella tua gloria». Tali contesti indicano lo speciale inter- vento di Dio nella morte del giusto, il quale durante la sua vita terrena vive in intimità col suo Signore e di conseguenza il suo destino è quello di essere assun- to nella comunione piena con Dio. Elia, che durante la sua vita è continuamente afferrato dalla presenza-incontro con Dio, alla fine è rapito, perché possa stare con lui e indicare a ogni uomo la meta della vita. La vocazione profetica rag- giunge il suo vertice nel rapimento di Elia: immersione piena in Dio. Se nella sua vita Elia ha fatto trasparire la realtà di Dio, nella sua morte la forza di Dio affer- ra nelle sue mani il profeta che ha vissuto alla sua presenza e l’ha mostrata con forza nello scenario della storia.9

b) L’uso del verbo hālah seguito dal complemento hāšâmajim. Per ben due volte il rapimento di Elia al cielo viene presentato nel contesto di 2Re 2: al v. 1, «... quando il Signore stava per far salire al cielo in un turbine Elia» (‘ālah); al v. 11, «... Elia salì nel turbine verso il cielo» (‘ālah). Nell’Antico Testamento si afferma di Dio che spesso scende sulla terra, ma nessun uomo può salire al cielo; al massimo vi sale la preghiera (Tb 12,12). È evidente che il rapimento di Elia, insieme a quello di Enoc (Gen 5,24), è stato un privilegio riservato alla persona del profeta. Tuttavia resta la difficoltà di capire in tale evento dove e come sia stato collocato il corpo del profeta. Al di là di tale difficoltà è molto più impor- tante l’effetto che il narratore vuole creare sul lettore: Elia come profeta ci inse- gna che è necessario essere disposti a scomparire quando si è adempiuta la pro- pria missione e trasmettere il proprio carisma profetico ad altri.

Qualcuno ha accostato l’evento del rapimento di Elia alla sua capacità di levitare (1Re 18,12; 2Re 2,1-12.16-18). Anzi, a un «viaggio dell’anima», inteso come se l’anima, o la coscienza, abbandoni il corpo e venga portata altrove, in uno spazio lontano.10

9 A. SPREAFICO, La voce di Dio, EDB, Bologna 2009, 165.

10 BLENKISOPP, Ezechiele, 70: a parte il motivo che tale evento è attestato nella cultura sciamanica, la contraddizione più grande è che viene definita una sensazione dell’anima. Ci sembra una contraddizione che l’anima possa avere delle sensazioni.

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1.4. Interpretazione

1. L’anv al, hmyij di Gesù in 9,51. Dal punto di vista della critica redazionale 9,51 non faceva parte della forma tradizionale del racconto di Lc 9,51-56, che aveva il suo incipit, invece, in 9,52a. Non si esclude che il motivo sia stato di natura stili- stica: mettere in rilievo l’intera sezione del viaggio con un’espressione che avesse la funzione di titolo.11 Difatti l’espressione di 9,51 presenta una costruzione che si articola nei seguenti elementi: una formula introduttiva (VEgen, eto de. env tw)/| , segue una proposizione principale con kai. autv oj. seguito da un verbo finito, esv thr, isen. È palese in tale inizio letterario un influsso stilistico della LXX e quindi un’imitazio- ne intenzionale di elementi stilistici della versione greca nel racconto lucano.12 Altri elementi letterari confermano la natura redazionale di 9,51. Innanzitutto la costruzione env tw|/ seguito da un infinito sostantivato sumplh-rous/ qai, quest’ultimo in quanto infinito presente esprime un’azione durativa che viene meglio espressa da una proposizione temporale con l’imperfetto:13 stavano per compiersi i giorni. Ènota,poi,lapredilezionediLucaperiverbicomposti:sumplhrow, .

Riguardo alla traduzione del termine avna,lhmyij esiste una difficoltà reale: «rapimento», «elevazione», «assunzione»?14

Il termine analēmpsis come sostantivo ricorre solo in 9,51 e nel suo signifi- cato fondamentale può presentare una varietà di sfumature semantiche: «solle- vamento», «assunzione», «reintegrazione».15 In alcune tradizioni della letteratu- ra intertestamentaria o giudaica, generalmente, il termine greco analēmpsis può significare «assunzione».16 Nell’Antico Testamento si trovano i precedenti delle «assunzioni» di Enoc (Gen 5,24b) e soprattutto di Elia (2Re 2,11 LXX; 1Mac 2,58; Sir 48,9).

Con l’inciso iniziale egv en, eto il narratore intende attirare l’attenzione del letto- re. Con tale costruzione viene introdotta una complessa formula di compimento di un tempo in cui si avvicina un avvenimento significativo, indicato con un termine particolare, analēmpsis. L’espressione presa singolarmente non è facilmente deci- frabile dal punto di vista teologico e presenta un campo semantico polivalente:

a) Il termine greco al di fuori della Bibbia può indicare la morte,17 in Lc 9,51 può indicare la morte di Gesù, la cui dimensione temporale ha un momen- to ben delineato nel piano divino («mentre stavano compiendosi i giorni»).18

11 G. ROSSÉ, Il Vangelo di Luca. Commento esegetico teologico, Città nuova, Roma 1992, 361. 12 M. ZERWICK, Graecitas biblica Novi Testamenti exemplis illustratur, PIB, Romae 1966, 123. 13 ZERWICK, Graecitas biblica, 163-164. 14 F. BOVON, Luca, Paideia, Brescia 2006, 41.

15 J. KREMER, «analēmpsis», in Dizionario esegetico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1995, I, 222.

16 Cf. Testamento di Levi (Test.L.) XVIII,3; Assunzione di Mosè (Ass.Mos.) X,12; Apocalisse siriaca di Baruc (2Bar) XVIL,7. In FILONE, Quis rerum divinarum heres sit 298, il termine greco analēmpsis indica l’azione di elevare, sollevare; mentre in Salmi di Salomone (Ps.Sal) IV,18 significa la morte.

17 G. FRIEDRICH, «Lk 9,51 und die Entrückungschristologie des Lukas», in Orientierung an Jesus. FS. J. Schmid, Herder, Freiburg 1973, 48-77.

18 G. DELLING, «avnalamba,nw/avna,,lhmyij», in Grande lessico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1970, VI, 27-31; J. KREMER, «avna,,lhmyij», in Dizionario esegetico del Nuovo Testamento, I, 220-222.

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b) Ma la metafora linguistica in Lc 9,51 può rimandare a qualcosa che riguarda lo spazio temporale oltre la morte. Infatti, non è escluso che possa indi- care la risurrezione di Gesù, ascensione ed esaltazione, poiché questi eventi nella letteratura lucana (Vangelo e Atti) indicano la fine dell’attività del Gesù storico e quindi, ben si adatta a essi la formula plurale dei «giorni» che vanno compien- dosi.19 Inoltre l’evento analēmpsis non viene descritto in sé, ma inteso nella sua polivalenza di «giorni», uno spazio temporale che viene parafrasato con il termi- ne «assunzione».

2. Il termine avna,lhmyij: la morte o l’ascensione di Gesù? La discussione è ancora aperta per sapere se il termine avna,lhmyij riguarda la morte o l’ascensio- ne di Gesù. C’è chi propende per il primo significato (la morte di Gesù) per i seguenti motivi: il termine ricorre nella letteratura paleocristiana; il contesto lucano conduce al significato della morte e della sofferenza (Lc 9,51: «evsth,risen tou/ poreu,esqai eivj VIerousalh,m», cf. 11,49-51; 12,49-50; 13,31-33.34; 17,25; cf. anche gli annunci della passione: 9,22.44; 17,25; 18,31-33).20

Il contesto temporale in cui il termine è inserito è l’«approssimarsi dello scadere dei giorni di Gesù» (9,51: «evn tw/| sumplhrou/sqai ta.j h`me,raj»). L’inciso temporale è al plurale e non si può dedurre che si tratti dei giorni che saranno «pieni» con la crocifissione, morte, risurrezione e ascensione.21 A chiarire tale significato dell’infinito presente è utile richiamare l’uso al singolare in At 2,1: «evn tw/| sumplhrou/sqai th.n h`me,ran th/j penthkosth/j» (nel compiersi del giorno della Pentecoste). Dal punto di vista sintattico la formulazione di 9,51 va intesa con la prospettiva che i giorni dell’assunzione stavano per iniziare a compiersi. Il teno- re dell’espressione lucana sta a indicare non tanto la meta dei giorni di Gesù di Nazaret quanto il cammino verso il compimento del piano salvifico di Dio;22 è il tempo biblico di Dio su Gesù che volge al compimento.23 Il contesto più ampio del vangelo suggerisce che l’attività itinerante di Gesù nella sezione precedente di 5,1–9,50 è circoscritta al territorio della Giudea, mentre ora in 9,51 riceve un orientamento ben preciso: è in cammino verso Gerusalemme.24

19 G. LOHFINK, Die Himmelfahrt Jesu, Kösel Verlag, München 1971, 212-214. 20 LOHFINK, Die Himmelfahrt Jesu, 215-217. 21 Alcuni interpretano «il compiersi dei giorni» con un riferimento alla morte e risurrezione di Gesù:

A. SCHLATTER, Das Evangelium des Lukas, Calwer Verlag, Suttgart 21960, 270; LOHFINK, Die Himmelfahrt Jesu, 214.

22 G. EGELKRAUT, Jesus’ Mission to Jerusalem: A Redaction Critical Study of the Travel Narrative in the Gospel of Luke, Lk 9:51-19:48, Peter Lang, Frankfurt a.M. 1976, 78-80.

23 E. SCHWEIZER, Das Evangelium nach Lukas, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1986, 110.

24 La differenza tra le due parti narrative di Lc 9,1-50 e 9,51–19,27 è stata evidenziata da H. CON- ZELMANN, Il centro del tempo. La teologia di Luca, Piemme, Casale Monferrato 1996, 40.

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2. LC 24,51: FU PORTATO IN CIELO «avnefe,reto eivj ouvrano,n» 2.1. Il testo nel suo contesto

Il racconto dell’ascensione rappresenta l’epilogo del Vangelo lucano ed è preceduto dall’apparizione di Gesù ai suoi (Lc 24,36-49), che concretamente si rende presente «in mezzo a loro» (v. 36). Tale concretezza si manifesta anzitutto attraverso la sua corporeità di Risorto: Gesù non è un fantasma, né solo spirito, ma lo si può guardare e toccare (vv. 36-43).

In secondo luogo il narratore vuole mostrare l’identità tra il Risorto e il Gesù di Nazaret che i discepoli hanno conosciuto nel cammino di sequela prima della sua morte in croce. Questa enfasi sulla corporeità del Risorto sarà ripresa anche nel racconto dell’ascensione di At 1,2.9.11; 10,41 ed è un motivo preva- lentemente lucano (10,41; 13,35.37). Qual è la funzione di questa enfasi sulla dimensione corporea della nuova esistenza di Gesù come Risorto? Innanzitutto evitare un’errata interpretazione della sua presenza in mezzo ai suoi discepoli: non si tratta di riconoscere in «un personaggio misterioso o sconosciuto» l’esse- re di Gesù;25 ma la dinamica di queste scene di risurrezione intende condurre il lettore al riconoscimento di un elemento continuativo della nuova esistenza di Gesù: la permanenza della natura corporea.26

All’esperienza del Risorto che si fa vedere e toccare, incontrare e ricono- scere (Lc 14,36-49), segue la scena in cui viene «tolto» ai discepoli, mentre li benedice.

2.2. L’articolazione del testo

Nel concludere il suo vangelo il narratore ci presenta una scena in cui descrive gli ultimi momenti della presenza visibile di Gesù. Lo sviluppo del rac- conto è caratterizzato dai seguenti elementi stilistici e tematici. In 24,50 il Risor- to scende da Gerusalemme, dove è apparso agli Undici, e si reca a Betania. Dopo aver indicato il luogo in cui avviene l’evento dell’ascensione, introduce due azio- ni di Gesù: «Alzate le mani, li benedisse» (9,51). Tale gestualità segnala attraver- so due verbi di movimento la partenza di Gesù dai suoi discepoli: «Si staccò da loro e fu portato verso il cielo». Il primo verbo mostra Gesù che si distacca dai suoi; il secondo indica la meta del percorso finale della sua esistenza: il cielo.

25 C.M. MARTINI, «L’apparizione agli apostoli in Lc 24,36-43 nel complesso dell’opera lucana», in E. DAHNIS (ed.), Resurrexit. Actes du Symposium international sur la résurrection de Jésus, LEV, Città del Vati- cano 1974, 230-245 e 233. Inoltre, sottolinea che questa presenza tattile nell’apparizione agli Undici non è solo un fatto empirico, ma è in funzione del loro compito di testimonianza sul Risorto: «Sono solo gli apo- stoli che hanno avuto un’esperienza piena, inequivocabile del Risorto e hanno ascoltato le sue parole fino all’ultima. Essi sono dunque i soli testimoni autorizzati, autentici del Risorto». Pertanto «si comprende così il valore del nostro brano, poiché la testimonianza apostolica e il contatto con il Risorto saranno l’unico fon- damento su cui poggerà tutto lo sviluppo della Chiesa degli Atti» (p. 241).

26 B. RIGAUX, Dieu l’a ressuscité, Duculot, Gembloux 1973, 262.

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Al gesto di Gesù segue quello dei discepoli, che si prostrano davanti al Risorto e ritornano a Gerusalemme in un clima di gioia (v. 52). La scena si con- clude con la menzione del tempio dove i discepoli si radunano per lodare Dio.

2.3. L’intertesto lucano

Nel canovaccio letterario presente nell’Antico Testamento e nel mondo giu- daico è presente in modo descrittivo il rapimento di alcune personalità profetico- carismatiche che, per aver svolto un ruolo cruciale nella storia biblica, sono ammesse alla comunione con Dio.27 Nella versione della LXX tale evento non vienedescrittoconilverboanaferōmaconanalambanō,comein2Re2,10-11.Tut- tavia, in senso letterale anaferō è usato in Lc 24,51 per indicare l’evento di «essere portato altrove»,28 mentre analambanō è «essere portato in alto, sollevare, pren- dere per sé».29 Tale motivo lo abbiamo già rilevato per l’intertesto di Lc 9,51.

2.4. Interpretazione

La scena di 24,50-53 rappresenta non solo il culmine dei racconti lucani della risurrezione, ma è il climax di quell’exodos che egli è chiamato a realizzare a Gerusalemme sin da Lc 9,31.30 Infatti, Gesù trasfigurato conversa con Mosè ed Elia circa il suo exodos che «si sarebbe compiuto a Gerusalemme», e in 9,51 viene comunicato al lettore che «stavano per compiersi i giorni della sua analēm- psis». Il termine exodos comprende l’intero cammino di Gesù verso la città santa (9,51–24,53), dove viene catturato e muore in croce. Tale percorso, previsto dal piano divino, culmina nell’ascensione al cielo.

La terminologia con cui l’evangelista descrive l’evento dell’ascensione di Gesù attinge al genere del «rapimento», alla partenza di esseri celesti: anaphe- rein, «salire».31 Il verbo è all’imperfetto passivo e suggerisce che si tratta di un’a- zione continuativa: un salire progressivo («veniva sollevato»).32 Tale uso al pas- sivo è l’unico uso nel Nuovo Testamento di anapherein e, di conseguenza, richie- de che ci sia un agente, la nube o Dio stesso.33

27 Cf. Enoc (Gen 5,24; Sir 44,16; 49,14), Elia (2Re 2,1-18; Sir 48,9-14). 28 K. WEISS, «avnafe,rw», in Grande lessico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1984, XIV, 986. 29B.SIEDE,«lamban, w»,inDizionariodeiconcettibiblicidelNuovoTestamento,EDB,Bologna1976,1410. 30 J.M. GUILLAME, Luc interprète des anciennes traditions sur la résurrection de Jésus (Etudes bibli-

ques), Gabalda, Paris 1979, 203; J.A. FITZMYER, The Gospel according to Luke X-XXIV, Garden City, NY 1985, 1587.

31 Per i riferimenti al vocabolario dell’«elevamento» nella letteratura antica, cf. LOHFINK, Die Him- melfahrt Jesu, 42, nota 72.

32 G. FRIEDRICH, «Lk. 9,51 und die Entrückungschristologie des Lukas», in Orientierung an Jesus. FS. für J. Schmid, hrsg. P. HOFFMANN, Herder, Freiburg 1988, 54, nota 57.

33 GUILLAME, Luc interprète, 231: «Le complément circonstanciel n’étant pas indiqué, il convient sans doute de sous-entendre quelque agent ou instrument transporteur: la char, la nuée (cf. Ac. 1,9) ou Dieu lui-

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Nella presentazione lucana dell’esaltazione di Gesù il narratore ricorre a delle categorie di pensiero tipiche della letteratura biblica. Il pensiero giudaico e veterotestamentario ha affrontato il tema dell’esaltazione del «giusto» in un lungo processo di riflessione. Infatti, il «giusto», l’uomo di Dio, non subisce la stessa sorte dei comuni mortali, ma a lui viene riservata una sorte ultraterrena: viene «elevato», «esaltato». L’eco di questa riflessione è presente in alcuni testi lucani sull’ascensione di Gesù. Per l’apocalittica giudaica e per il pensiero vete- rotestamentario l’esaltazione del giusto non può avere luogo sulla terra.34 La sorte comune della morte e dello sheol non può intaccare la personalità del «giu- sto» e in particolar modo di alcuni personaggi ideali dell’Antico Testamento: Enoc, Abramo, Mosè, Elia, Esdra e altri. La narrazione lucana privilegia la figu- ra di Elia, di colui che ha avuto un ruolo cruciale nella storia d’Israele e il cui nome esprimeva il programma della sua vita: «YHWH è mio Dio». A motivo dei suoi meriti il profeta di Tisbe viene elevato da Dio nel mondo celeste.

Con il ricorso al vocabolario che ha caratterizzato l’«elevamento» di Elia il narratore inserisce l’esaltazione di Gesù in questa corrente del pensiero giu- daico, ma con la differenza che la sua «ascensione» è basata su elementi più pre- cisi e reali. La visibilità dell’«ascensione», presentata da Luca in 24,51, è prope- deutica a scoprire l’accesso di Gesù alla gloria del mondo divino, all’esaltazione del suo corpo.

Rispetto a 9,51 si nota una variazione di espressione sul tema dell’eleva- zione di Gesù:

– «kai. avnefe,reto eivj to.n ouvrano,n» (24,51) – «ta.j h`me,raj th/j avnalh,myewj» (9,51). La differenza di vocabolario è dettata da esigenze narrative: in 24,51 l’in-

teresse del narratore è di presentare l’aspetto sensibile di quella grande realtà primaria che sarà l’esaltazione di Gesù. I discepoli vengono preparati ad acco- gliere l’evento dell’esaltazione con la prova tangibile o manifestazione esteriore di Gesù che «veniva sollevato». Tale interpretazione è supportata dall’uso di anapherein come precisazione del verbo diestē («si staccò»). Tale combinazione esprime lo svolgersi dell’ascensione di Gesù come un movimento verso l’alto, una «partenza» definitiva di Gesù, ovvero la rappresentazione concreta della sua elevazione. L’uso dell’imperfetto passivo del verbo anapherein («veniva solleva- to») fa da sfondo all’aoristo diestē («si staccò»). La partenza definitiva di Gesù è il punto culminante finale della serie delle apparizioni del Risorto e sottolinea l’inizio della sua carriera celeste presso il Padre.

même. Le verbe comme aussi ces représentations diverses font partie du vocabulaire de “enlèvement” dans la littérature antique».

34 I motivi di questo movimento di pensiero risiedono in alcune coordinate dell’esperienza quoti- diana: che valore hanno le promesse terrene di giustizia? Perché la storia del popolo giudaico non rispec- chia più quegli orientamenti iniziali di un grande regno di pace e di prosperità? A questi interrogativi si aggiungono la riflessione sulle prove della vita e il contatto sempre più continuo con il mondo ellenistico. Tanti fattori, quindi, che spingono il pensiero giudaico a enfatizzare la riflessione sul mondo dell’aldilà.

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3. AT 1,2.11.22: «avnelh,mfqh», «avnalhmfqei.j», «avnelh,mfqh» 3.1. Contesto

Il racconto dell’ascensione di Gesù in At 1,4-12 presenta un legame narra- tivo con il racconto dell’ascensione del Vangelo di Luca (Lc 24,44-53).35 Tuttavia, tale aggancio non è così naturale come si pensa, ma presenta alcune divergenze sull’arco di tempo in cui avvenne l’ascensione: il giorno di Pasqua (Lc 24,50) oppure quaranta giorni dopo (At 1,3.12)? Tale tensione narrativa si spiega con la diversa funzione che l’evento dell’ascensione ha nell’opera lucana: in Lc 24,50- 53 rappresenta il culmine della vita terrena di Gesù e in At 1,1-13 costituisce l’in- cipit del «tempo della Chiesa».36

Nell’arco narrativo che va da 9,51 a 24,44-53 il cammino di Gesù è descrit- to nel suo orientamento verso Gerusalemme, il luogo degli eventi che segnano il percorso finale della fase terrena di Gesù; a tale cammino corrisponde quello della testimonianza del Cristo risorto nel tempo della Chiesa. Tale cammino parte da Gerusalemme per giungere «sino ai confini della terra» (At 1,8).

3.2. Articolazione

L’unità narrativa di At 1,1-26 ha la funzione di introdurre gli eventi che uniscono il «tempo di Gesù» e quello «della Chiesa».37 Tale introduzione è arti- colata in due fasi: la sequenza di 1,1-11 ha la funzione stilistica di collegare mediante uno sguardo retrospettivo il «primo libro» (prw/toj lo,goj) – quanto viene narrato nel vangelo – con il nuovo racconto (il libro degli Atti) che carat- terizza «il tempo della Chiesa». Termina, quindi, con un breve sommario su tutto quello che Gesù ha fatto nell’arco di tempo dei quaranta giorni dopo la Pasqua e con un esclusivo riferimento alle «apparizioni durante quaranta giorni» agli apostoli. Le due espressioni su «tutto quello che Gesù ha fatto e insegnato dal- l’inizio» (v. 1) e l’essere «assunto in cielo» (v. 2) sintetizzano molto bene la pro- spettiva dell’evangelista sul percorso terreno di Gesù. A tale itinerario il narra- tore lega il contatto personale che il Risorto intrattiene con gli apostoli (vv. 3-11). Il carattere introduttivo di 1,1-11 è stato considerato nella sua funzione di vetto- re generativo che introduce al contenuto e alla trama dell’intero libro degli Atti.38 L’estensione di questa sequenza introduttiva è delimitata da una signifi- cativa inclusione sull’ascensione di Gesù:

35 Sul rapporto tra At 1,1-14 e Lc 24,44-53: G. SCHNEIDER, Gli Atti degli apostoli, Paideia, Brescia 1985, 106-111 (Parte prima).

36 SCHNEIDER, Gli Atti, 108; C.K. BARRET, Luke the Historian in Recent Study, Epworth, London 1961,

56-57.

37 Sulla delimitazione dell’introduzione esistono una varietà di proposte. Seguo gli indizi letterari e teologici forniti da G. BETORI, Perseguitati a causa del nome, Pontificio istituto biblico, Roma 1981, 25-34. Cf. R. PESCH, Atti degli apostoli, Cittadella, Brescia 1992, 29 e 59-60.

38 PESCH, Atti degli apostoli, 26.

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– 1,1-2: «o` VIhsou/j ... avnelh,mfqh» – 1,11: «o` VIhsou/j o` avnalhmfqei.j». È significativo che il duplice richiamo all’ascensione di Gesù, mediante l’u-

tilizzo di un termine elianico, caratterizzi questa parte introduttiva che, da un lato, riassume quanto precede e, dall’altro, è programmatica di quanto verrà nar- rato sull’esperienza salvifica del nuovo popolo di Dio.

Con At 1,12 inizia la trama della prima parte degli Atti: le origini della Chiesa in Gerusalemme (1,12–2,47). Tale parte è racchiusa da due sommari: il primo si configura come un testo transitorio e introduttivo a questo primo bloc- co narrativo (1,12-14) e il secondo di 2,42-47 che riassume il «momento fondan- te» della Chiesa. All’interno di questi brani delimitativi si trovano due racconti: il primo racconta il particolare di Mattia che sostituisce Giuda nella composizio- ne del collegio apostolico (1,15-26), l’altro descrive l’evento di pentecoste (2,1- 41). Il riferimento all’ascensione di Gesù è presente nel primo brano, che consta di tre brevi parti narrative (15.23-24a.26) e di due parti discorsive che riportano un esteso discorso di Pietro (vv. 16-22) e una breve preghiera della comunità (vv. 24b-25).

Nella prima parte del discorso di Pietro (vv. 16-22) per giustificare l’ele- zione suppletiva di Mattia, al posto di Giuda, il narratore comunica al lettore il suo punto di vista sull’identità di un «apostolo»: la comunione di vita assieme ai Dodici con Gesù, a partire dall’«entrata» (dal battesimo) sino all’«uscita» di Gesù (Lc 9,31), vale a dire della sua ascensione, senza interruzione (v. 22). Anche per Eliseo fu indispensabile la comunione di vita con il profeta Elia fino alla sua ascensione al cielo per ricevere i «due terzi» dello spirito profetico del suo maestro.

3.3. L’intertesto lucano

Alcuni elementi, specie quelli riguardanti il campo semantico del «vedere», fanno ritenere che Luca abbia ripreso tradizioni sull’ascensione o rapimento di Elia (2Re 2; Sir 48). Anche nel racconto del rapimento di Elia viene enfatizzata la visibilità dell’evento, posta in risalto dal reiterato uso del verbo «vedere»:

– eva.n i;dh|j (v. 10) – Elisaie e`w,ra ... ouvk ei=den auvto.n (v. 12). Sia la radice ebraica r’h sia il verbo o`ra,w presentano come campo seman-

tico primario il vedere fisiologico, ma aperto alla visione trascendente della realtà che si offre al proprio campo visivo (Ez 1,1; Am 9,1; Gen 12,7; Es 3,2-3).39 Se Eliseo sarà capace di comprendere il rapimento di Elia e di penetrarne il significato sul piano trascendentale, divino, allora potrà ricevere l’eredità dello spirito del profeta di Tisbe.

39 Cf. M. NOBILE, Teologia dell’Antico Testamento, Leumann (TO) 1998, 178-179.

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È una narrazione di tipo sapienziale per invitare il lettore a scoprire ciò che c’è dietro l’elemento esterno delle apparenze; a fare esperienza del mistero mediante un autentico vedere, mediante un comprendere profondo. Tale espe- rienza rappresenta il momento culminante dell’incontro di Dio con la storia degli uomini. Al lettore capace di assaporare il significato di questo evento vien dato di comprendere anche il senso della storia che il narratore intende trasmet- tere. Il rapimento di Elia al cielo «visto» da Eliseo rappresenta un’esperienza cruciale nello scorrere empirico degli eventi. È un evento che getta luce sui lega- mi che intrecciano i fatti storici della vita dell’uomo.

Il testo sul rapimento di Elia ha un forte potenziale comunicativo che vale la pena evidenziare: l’umanità di Elia s’incontra con il mistero ineffabile di Dio. Tramite Elia che viene assunto, le opere di Dio continuano a manifestarsi nella storia degli uomini, mediante l’umanità di Eliseo investita dallo spirito profetico elianico. Se da un lato Eliseo non riesce ad accettare lo strappo fisico del rapi- mento di Elia, dall’altro il suo vedere, reso acuto dalla fede, riesce a comprende- re che il «salire» di Elia ha come meta il cielo, la sfera divina.

Un altro elemento elianico a cui s’ispira Luca è il carro di fuoco tirato da cavalli, anch’essi caratterizzati dal fuoco (2Re 2,11). Tale immagine del carro e dei cavalli di fuoco è un mezzo stilistico per indicare che si tratta di una teofania, di una manifestazione potente di Dio. In Lc 1,9, invece, è la nube che accoglie Gesù. In entrambi i casi, 2Re 2,11 e Lc 1,9, è evidente che il carro di fuoco e la nube esprimono l’idea di veicolo con cui Gesù ed Elia vengono sottratti allo sguardo dei loro discepoli.

Ma l’elemento di ripresa più appariscente è l’uso del verbo al passivo di avnalamba,nw. In 2Re 2,9-11 ricorre due volte:

– nella prima ricorrenza è utilizzato da Elia per indicare l’imminente rapi- mento: eva.n i;dh|j me avnalambano,menon avpo. sou/ («se riuscirai a vedermi quando sarò preso da te»: v. 9);

– nella seconda è la voce del narratore a presentare il rapimento di Elia: kai. avnelh,mfqh Hliou («ed Elia salì al cielo»: v. 11). Elia è sottratto alla dimen- sione terrena ed è assunto in cielo.

3.4. Interpretazione

1. Ambito descrittivo e prospettico. Il richiamo descrittivo al vangelo (At 1,2: «primo libro»), il cui scopo principale è descrivere l’attività di Gesù che ter- mina non con la morte ma con l’ascensione, serve al narratore per rafforzare il punto di vista prospettico del «secondo libro», dedicato al «tempo della Chiesa». I giorni di Gesù a Gerusalemme coincidono con i giorni del suo «distacco» (9,51) e si concludono con «il giorno» dell’ascensione (1,22), prima del quale i discepo- li vengono preparati al loro compito nell’arco temporale di quaranta giorni. Per- tanto l’inciso lucano sul «giorno» dell’ascensione intende sottolineare l’elemen- to prospettico dell’evento: la missione di Gesù (Lc 2,32; 4,18) affidata ai Dodici

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prima dell’ascensione (Lc 24,46-49; At 1,4-8) passa agli apostoli. Per adempiere un tale mandato missionario gli apostoli, restando a Gerusalemme, devono attendere il dono dello Spirito per essere abilitati a esercitare il compito di testi- moni del risorto.

2. La ripresa della scena dell’ascensione. È una variante non ripetitiva di Lc 24,51-53 dal punto di vista sia del contenuto sia sintattico. Una diversità emer- gente sta nell’uso del verbo anapherein, «salire», in Lc 24, 51 e analambánesthai in At 1,2.9.22.

– In At 1,2

Luca è l’unico tra gli scrittori neotestamentari ad attestare la conclusione del ministero di Gesù con l’evento dell’ascensione. Il testo del prologo presenta alcuni problemi: il primo di natura stilistica (l’uso del men nel v. 1 non ha un suo corrispondente de); il secondo di natura letteraria (il breve sommario del v. 2 pre- senta un’incompletezza di contenuto: viene ripreso l’evento dell’ascensione con- tenuto in Lc 24,50-53 ma non viene descritto se non in At 1,9-11). Tali problemi inducono il lettore a considerare il prologo degli Atti come un richiamo del rac- conto di «tutto quello che Gesù fece e insegnò [...] fino al giorno in cui [...] egli fu assunto in cielo (fu tolto dal mondo)». Vale a dire dal momento in cui riceve il battesimo da Giovanni (3,21), cui segue la sua attività di guarire e annunciare il vangelo, sino alla benedizione che rivolge agli apostoli prima di essere «tolto dal mondo». Significativa è la sequenza temporale con cui viene ripresa l’attività di Gesù:

– inizio (h;rxato) – fare e insegnare (poiei/n te kai. dida,skein) – fu assunto (avnelh,mfqh). L’incertezza di tradurre il passivo anelēmphthē con «fu assunto»40 o con «fu

tolto dal mondo» traspare in molti commentari. Una prima interpretazione ritie- ne che il termine anelēmphthē nel greco ellenistico significhi «morire, essere assunto nel senso di andarsene, rimozione da questo mondo». Tale accezione del verbo troverebbe conferma anche nell’uso del sostantivo análēmpsis in Lc 9,51.41 A una tale comprensione linguistica del verbo analambánesthai è stata avanzata l’idea di far ricorso ai paralleli neotestamentari in cui il senso orienta il lettore al significato tradizionale di ascensione.42

40 Alcuni autori interpretano il termine nel senso tradizionale di ascensione: J.A. FITZMYER, Gli Atti degli apostoli. Introduzione e commento, Queriniana, Brescia 2003, 174 rende il passivo con «fu assunto». Altri si fermano al significato base del greco ellenistico di analambánesthai, «essere rimosso dal mondo»: P. BOSSUYT – J. RADERMAKERS, Lettura pastorale degli Atti, EDB, Bologna 1996, 27 e 192: «Fu tolto (dal mondo) [sollevato]».

41 In 9,51 il termine avna,lhmyij viene riferito in senso stretto al «morire» di Gesù da FRIEDRICH, «Lk. 9,51 und die Entrückungschristologie des Lukas», 48-77.

42 J. DUPONT, «Anelēmphthê (Act. I.2)», in NTS 8(1961-62), 154-157.

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L’indicazione del giorno in cui «fu assunto al cielo» è contraddistinta dal- l’incarico conferito da Gesù stesso agli apostoli, i quali furono personalmente scelti da lui. La loro missione viene fatta risalire al tempo che precede la risurre- zione di Gesù. La funzione di anelēmphthē in At 1,2 è quella di proiettare il Gesù glorificato sul tempo che precede la risurrezione, vale a dire sul Gesù terreno.43

La posizione sintattica dell’indicazione temporale «sino al giorno» sugge- risce le seguenti considerazioni: dal punto di vista letterario rappresenta il «punto finale» del racconto evangelico,44 dal punto di vista teologico, rappresen- ta un «arco» narrativo che garantisce la continuità storico-salvifica del Gesù sto- rico e del Cristo glorificato.45 L’avvenimento dell’assunzione viene presentato in At 1,2 con uno sguardo all’indietro, a Lc 9,51 – ma non a 24,51 – e con un inten- to prospettico ad At 1,11.22.

– In At 1,9-11

L’evento dell’ascensione viene descritto mediante l’accumulo di verbi che ne caratterizzano la visibilità:

– blepo,ntwn (v. 9) – avteni,zontej (v. 10) – ÎevmÐ ble,pontej ... evqea,sasqe (v. 11). Oltre tali verbi, che riguardano il campo semantico del «vedere», viene uti-

lizzata l’espressione avpo. tw/n ovfqalmw/n auvtw/n (v. 9). Inoltre il motivo del guarda- re è sempre correlato con l’espressione «al (o in) cielo»: per ben due volte con- nota sia il guardare dei discepoli (vv. 10a.11a) sia l’allontanarsi di Gesù (vv. 11b.c).

Al lettore non sfugge la diversità semantica con cui il narratore descrive l’evento dell’ascensione di Gesù. Che cosa esprime questa diversità terminologi- ca? Difatti troviamo fondamentalmente tre espressioni linguistiche diverse:

– evph,rqh: un aoristo passivo per descrivere in modo piuttosto breve l’even- to in sé. Al lettore che finora ha seguito gli eventi dell’assunzione di Gesù (Lc 24,59; At 1,2) la formulazione risulta insolita. Il verbo epairō solitamente ricorre all’attivo ed è collegato a organi del corpo umano: a) sollevare gli occhi (Lc 16,23): Gesù rivolge gli occhi ai discepoli (Lc 6,20), il pubblicano non osa levare gli occhi al cielo (Lc 18,13); b) l’espressione «alzare la voce» in parecchi contesti lucani precede esclamazioni, appelli, allocuzioni (Lc 11,27); levare la voce (Lc 14,11; 21,36; 22,22; At 1,12-14; 2,14); c) levare le mani (Lc 24,50-52: Gesù «leva» le sue mani per benedire i suoi discepoli).46

43 Il testo di At 1,1-8 viene caratterizzato come «sguardo retrospettivo e discorsi di congedo» da E. HAENCHEN, Apostolgeschichte, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 71977, 142, 154, 158. Cf. SCHNEIDER, Gli Atti, 264 e 290.

44 SCHNEIDER, Gli Atti, 264-265.

45 Nel senso di «confine» è inteso da G. STÄHLIN, Gli Atti degli apostoli, Paideia, Brescia 1973, 11, ma tale significato può dare adito a una «demarcazione» tra il Vangelo e il libro degli Atti degli apostoli. È pre- feribile privilegiare l’aspetto della continuità.

46 U. BORSE, «evpai,rw epairō», in Dizionario esegetico del Nuovo Testamento, I, 1278-1279.

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Nel nostro contesto di At 1,9 l’azione avviene «davanti agli occhi» dei disce- poli, ma la formulazione è al passivo.47 Si tratta di un’azione soprannaturale per affermare che Gesù «fu levato in alto» da un intervento divino. Tuttavia, l’inciso «davanti ai loro occhi» mostra che l’enfasi è sulla «testimonianza oculare» più che sull’evento dell’ascensione: i discepoli sono destinati a diventare «testimoni ocu- lari» (At 2,32-41; 5,31-42).48 La reiterata indicazione sulla percezione visiva dei discepoli sembra indicare che l’evento dell’ascensione sia narrato dal punto di vista degli spettatori, chiamati a diventare testimoni dell’accaduto.49

Un cambio terminologico avviene in At 1,10, dove il narratore, per descri- vere l’ascensione di Gesù, non usa più il verbo epairō («elevare»), ma poreuomai («andare via»). Tale verbo era stato utilizzato per caratterizzare il cammino di Gesù nella sezione del «grande viaggio» (Lc 9,51.53.56.57; 10,38; 13,33; 17,11), ma anche in altri contesti (Lc 4,30.42; 7,6.11; 22,22.39; At 1,10.11). Gesù in que- sto «cammino» è diretto verso Gerusalemme, dove «sarebbe stato tolto dal mondo» (Lc 9,51.53; 17,17), ora come Risorto è in cammino per andare in cielo (At 1,10.11). Negli scritti neotestamentari posteriori l’«andare in cielo» di Gesù sarà legato al motivo della sua esaltazione (1Pt 3,22). Pertanto, il «cammino» o l’«andare via» di Gesù lo conduce in un primo momento verso la morte (Lc 22,22 e altrove) e, dopo, alla sua esaltazione. È evidente che la morte e l’ascensione rappresentano due tappe cruciali del cammino di Gesù.

Il motivo del rapimento viene ripreso nel v. 11a nell’istruzione degli ange- li con il ricorso all’uso del verbo analambánesthai («sollevare, assumere»). Il «guardare» dei discepoli (vv. 10-11) viene orientato al vero traguardo del- l’análēmpsis di Gesù: nel cielo. Tale indicazione è ripetuta tre volte nel v. 11 e produce nel lettore un effetto di un cantus firmus:50

– «perché state a guardare in cielo» – «che è stato assunto in cielo» – «ritornerà come voi lo avete visto allontanare in cielo». Lo sguardo fisso dei discepoli verso il cielo – traguardo dell’análēmpsis di

Gesù da 9,51 – viene spostato dagli angeli interpreti al loro cammino di «testi- monianza del Risorto, secondo le ultime parole di Gesù».51 È una correzione implicita dell’atteggiamento dei discepoli, intenti a guardare il cielo. È vano attendere colui che è stato visibilmente assunto, sottratto alla vista dei discepoli, perché ritornerà nuovamente. L’análēmpsis di Gesù, la sua assunzione visibile, iniziata da 9,51 è garanzia della sua venuta nella parusia.52

47 ZERWICK, Graecitas biblica, 63, § 236; FITZMYER, Gli Atti, 190. 48 PESCH, Atti degli apostoli, 78-79. 49 GUILLAME, Luc interprète, 215. 50 PESCH, Atti degli apostoli, 78.

51 SCHNEIDER, Gli Atti, 282.

52 A. VÖGTLE, «Aufgefahren in den Himmel», in G. BEIN (ed.), Das Glaubensbekenntnis. Aspekte für ein neues Verständnis, Stuttgart-Berlin 1967-1968, 41-45, specialmente 43: «L’esaltazione di Gesù in cielo garantisce la sua parusia in forza della potenza e della signoria divina». Cf. PESCH, Gli Atti degli apostoli, 8.

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– In At 1,21

Il motivo dell’análēmpsis ricorre, poi, nel più ampio discorso di Pietro (At 1,16-22) sull’elezione suppletiva di Mattia e in particolar modo in quella preci- sazione lucana sull’inizio e sulla fine dell’opera di Gesù del v. 22a. Ritorna l’e- spediente della visibilità circa l’análēmpsis di Gesù al cielo per ampliare (la for- mulazione «fino al giorno in cui fu assunto» è ripresa da At 1,2) e ridefinire lo statuto di testimone oculare che deve caratterizzare l’elezione suppletiva del nuovo candidato. Con una locuzione (alquanto lunga) viene ridefinito lo statuto di colui che sta per diventare testimone della risurrezione di Gesù: a partire dal battesimo di Giovanni sino al giorno della sua análēmpsis (assunzione), deve essere stato insieme agli Undici, ovvero, un permanente testimone oculare del- l’attività di Gesù. L’ininterrotta testimonianza oculare – dall’inizio dell’attività di Gesù sino alla sua análēmpsis al cielo – è un presupposto cruciale per l’attività dei discepoli: trasmettere la loro esperienza oculare sul cammino di Gesù e «testimoniare l’identità del Risorto (che essi «videro», Lc 24; At 1,9-11) «col Gesù terreno».53

4. CONFRONTO CON MC 16,19-20

La sequenza di Mc 16,19-20 evoca l’evento dell’ascensione: Gesù è «assun- to al cielo» e conclude la sua missione terrena sedendosi alla «destra di Dio». Per descrivere il primo momento, quello dell’ascesa al cielo, il narratore attinge al vocabolario presente in At 1,2.11.22, utilizzando non il verbo anaphēro di Lc 24,51 ma analambanō. Il modello letterario ripreso è quello del racconto del «rapimento» di Elia «in cielo», nella versione dei LXX. Anzi, in Mc 16,19-20 c’è un’intenzionale ripresa letterale dell’espressione che descrive l’azione del «rapi- mento» di Elia:

– Mc 16,19: «avnelh,mfqh eivj to.n ouvrano.n» – 2Re 2,11: «avnelh,mfqh Hliou ... eivj to.n ouvrano,n». Il testo di Marco rispetto al racconto elianico di 2Re 2,11 non descrive l’e-

sperienza di Eliseo che poteva contemplare per un istante il suo maestro mentre veniva rapito in cielo, ma privilegia una lettura teologica dell’evento. Non così Luca, che è molto più vicino al modello elianico: i discepoli potevano contem- plare per un istante l’ascensione di Gesù (At 1,9; Lc 24,51). Un’ulteriore prova che si tratta di un evento teologico è il seguito del racconto: «kai. evka,qisen evk dexiw/n tou/ qeou/» (e sedette alla destra di Dio). Un’espressione, quest’ultima, che appartiene al vocabolario classico della teologia di Marco (12,36; 14,62),54 attin- ta al Sal 110,1 (LXX), per indicare la glorificazione pasquale del Cristo. La meta di Gesù al cielo si arricchisce di un ulteriore elemento: la sua intronizzazione. In tale descrizione il narratore, rispetto ai personaggi che assistono all’ascensione di

53 SCHNEIDER, Gli Atti, 302-303, nota 66. 54 LEGASSE, Marco, 784.

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Gesù, si mostra onnisciente, perché descrive qualcosa che sfugge allo sguardo umano. Tali considerazioni sono indizi chiari per affermare che l’evento dell’a- scensione di Gesù in Mc 16,19-10 non è stato percepito dal narratore come un evento che poteva essere visto dai discepoli. Anche un elemento sintattico orien- ta a questa lettura teologica dell’evento dell’ascensione: l’uso della costruzione men... de... Il narratore, con tale espediente sintattico, stabilisce un’articolazio- ne tra l’ascensione-esaltazione di Gesù e la partenza dei discepoli in missione (v. 20). La missione dei discepoli dipende dall’evento teologico precedente.

5. CONCLUSIONI

L’importanza di Elia nella letteratura della tradizione ebraica ha prodot- to i suoi effetti speciali nella descrizione dell’ascensione di Gesù nel Vangelo e nel libro degli Atti degli apostoli. Il verbo preferito da Luca per l’ascensione è avnalamba,nesqai, utilizzato in Lc 9,51e At 1,2.11.22. Sebbene tale verbo non abbia svolto una funzione determinante nei testi extrabiblici, viene scelto dalla LXX per descrivere l’assunzione delle persone fisiche di Enoc (Sir 49,14; Gen 5,24) e in particolar modo di Elia (2Re 2,9-11; Sir 48,9; 1Mac 2,58). La nostra analisi ha mostrato che non si tratta di una semplice coincidenza terminologica, ma alcuni elementi della tradizione ebraica diventano uno schema di base in cui fattori letterari e motivi teologici s’intrecciano per descrivere l’ascensione di Gesù. L’analisi dei vari contesti lucani ha escluso il ricorso del narratore al motivo del «viaggio divino» della profezia apocalittica. Piuttosto il punto di vista del narratore presenta una visione terrena dell’análēmpsis di Gesù: i testi- moni sono vicini e nello stesso tempo sono lasciati dietro, non vengono descrit- ti come persone che non seguono colui che si allontana da loro; la loro visione è caratterizzata dal solo sguardo terreno (Lc 24,51: «si staccò da loro e veniva portato su in cielo»; At 1,9: «mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi»). La scena dell’ascensione viene descritta come il termine di una vita terrena.

Il linguaggio attinto ai testi della tradizione elianica è deliberatamente evi- dente in Lc 9,51 e At 1,2.9-11; ovvero le tradizioni elianiche hanno ispirato il ritratto di Gesù che ascende al cielo. Il nostro studio ha individuato un preciso interesse per Elia nel descrivere l’análēmpsis di Gesù sia nel metodo redaziona- le di Luca che nel Sondergut che ha utilizzato.

Il compimento del tempo comprende gli eventi della morte, risurrezione e ascensione. Il termine análēmpsis viene utilizzato per indicare la salita di Gesù verso Gerusalemme luogo dell’ascesa al cielo (9,51) funzione prospettica; in Atti, invece, salita di Gesù verso il cielo. Quindi per Luca questo evento non è riducibile soltanto all’ascesa al cielo, ma include anche i preliminari della pas- sione, morte e risurrezione. L’análēmpsis non è proprio un percorso fisico di salita verso Gerusalemme o un viaggio geografico verso Gerusalemme, e che termina con la scena finale dell’ascensione, ma con l’ascendere al cielo Gesù

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porta a compimento il progetto che viene reso manifesto all’inizio del viaggio verso Gerusalemme: 9,51. Tale città non è la meta dell’análēmpsis di Gesù, ma solo una tappa.55

55 GRASSO, Luca, 643.

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Annotatiuncula philologica atque historica in Lucam XVIII,12

MARCELLO DEL VERME

L’idea di scrivere una noticina filologica per onorare un collega e amico nel suo 70° genetliaco è suggerita anche dalle competenze filologiche (e storiche) del festeggiato presenti in alcuni apprezzati suoi contributi sul NT e sul giudai- smo antecedente, contemporaneo o di poco posteriore al NT. Di qui la decisione di offrirgli questa annotatiuncula philologica, che ci sembra abbia ricadute anche storiche. Studieremo Lc 18,12, un versetto che rivela una fecondità semantica – se ben tradotto – del tutto ignorata o almeno disattesa nelle molteplici tradu- zioni del NT e nei commentari a Luca. Su questo versetto ho già scritto altre volte,1 ma desidero ritornarvi perché mi sembra che la traduzione da me propo- sta sia sfuggita ai revisori della traduzione della Bibbia in lingue moderne (soprattutto in quelle apparse in Italia) negli ultimi decenni. A nostro avviso, la traduzione di Lc 18,12, che qui riproponiamo, meriterebbe una qualche conside- razione. Ci si perdoni questa autoreferenzialità, che potrebbe perfino apparire (e forse lo è) eccessiva: se così fosse, chiediamo venia ai pochi o numerosi lettori.

1.TESTO E CONTESTO DI LC 18,11-12 Riportiamo il testo di Lc 18,11-122 con la nostra traduzione:3

11o` Farisai/oj staqei.j pro.j e`auto.n tau/ta4 proshu,ceto\ ~O qeo,j( euvcaristw/ soi o[ti ouvk eivmi

1 M. DEL VERME, «Le decime del fariseo orante (Lc 18,11-12). Filologia e storia», in Vetera christia- norum 21(1984), 253-283, spec. 257 e 267ss, riveduto e ampliato in ID., Giudaismo e Nuovo Testamento. Il caso delle decime (Studi sul giudaismo e cristianesimo antico 1), Napoli 1989, spec. 32, nota 35, e 84-92.

2 Secondo l’edizione critica di K. ALAND – M. BLACK – C.M. MARTINI – B.M. METZGER – A. WIKGREN, The Greek New Testament, New York-London-Edinburgh-Amsterdam-Stuttgart 31975, che è uguale a quel- la di E. NESTLE – E. NESTLE – K. ALAND, Novum Testamentum Graece, Stuttgart 261979. L’edizione critica di A. MERK, Novum Testamentum Graece et Latine, Romae 91964, rispetto alle due appena citate presenta qual- che (piccola) variazione, che riferiremo e valuteremo in seguito, oltre alla differente punteggiatura, un aspetto questo del tutto trascurabile.

3 Su di essa torneremo infra.

4 Merk preferisce la lezione tauta proj eauton, attestata nelle migliori tradizioni testuali: papiri (ad es. P75), codici (acBTQY892 e 1241), versioni (itaur, e vg syrpal copbo arm) e scrittori antichi (ad es. Or Cyp). Con B.M. METZGER, A Textual Commentary on the Greek New Testament. A Companion Volume to the United Bible Societies’ Greek New Testament, London-New York 31975, 168, noi riteniamo che la lezione proj eau-

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w[sper oi` loipoi. tw/n avnqrw,pwn( a[rpagej( a;dikoi( moicoi,( h; kai. w`j ou-toj o` telw,nhj\ 12nhsteu,w di.j tou/ sabba,tou(5 avpodekatw/6 pa,nta o[sa ktw/mai)7

11Il fariseo, stando in piedi,8 da solo [lett.: per se stesso] pregava così: «Dio, ti ringrazio, perché io non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri, o anche come questo pubblicano.

12Io digiuno due volte la settimana e pago le decime su tutto ciò che acquisto».9

I due versetti di Lc 18,11-12 si trovano all’interno di una parabola (rac- conto esemplare?) con la quale Luca abbozza un quadro di religiosità farisaica. E qui si deve subito una precisazione: indicare cioè lo statuto ermeneutico da noi seguito nella lettura del materiale parabolico. Il nostro approccio è di tipo «tra- dizionale» o «classico». Sulla scia di Jülicher-Dodd-Jeremias e altri valorizziamo soprattutto l’ambientazione delle parabole attribuendo valenza storica (ma non

ton tauta – perché «internally the more difficult sequence» – sia da preferire stando alla regola di ecdotica: lectio difficilior lectio potior. Questa lezione fu perfezionata da D itd geo2 in kaq’eauton tauta.

5 Di.j tou/ sabba,tou, un avverbio numerale + un genitivo temporale, è un ottimo esempio per docu- mentare la persistenza nel greco del NT del costrutto classico usato per circoscrivere il tempo/periodo entro il quale si compie un’azione. Cf. F. BLASS – A. DEBRUNNER, Grammatica del greco del Nuovo Testamento, nuova edizione di F. REHKOPF, Brescia 1982, § 91, 1.3 (ed. or. Göttingen 141976).

6 P75 e i codici B a* riportano il presente del verbo composto avpo-dekato,w (da dekato,w, che ricorre 4 volte nel NT) nella forma avpodekateu,w, che viene accettata anche dalle concordanze di W.F. MOULTON – A.S. GEDEN – R. MORGENTHALER, e dai lessici di F. ZORELL e W. BAUER. A sostegno della nostra scelta di avpodekatw/ facciamo notare che anche in Lc 11,42a ricorre il presente avpodekatou/te, che suppone avpodekato,w e non avpo- dekateu,w. Ancora nel greco dei LXX (ad es. Gen 28,22; Dt 14,22; 26,12; 1Sam 8,15.16.17) ricorrono soltanto forme verbali di avpodekato,w, a traduzione dell’ebr. rX[ (qal. pi. hif.). Cf. E. HATCH – H.A. REDPATH, A Con- cordance to the Septuagint and the Other Greek Versions of the Old Testament (Including the Apocryphal Books), Graz 1954 [= Oxford 1897], I, 126.

7 Tutte le edizioni critiche riportano ktw/mai (presente attivo del verbo kta,omai), la cui esatta tradu- zione è stata – e viene tuttora fraintesa o trascurata – dai più. Sul significato di kta,omai ci soffermeremo tra breve.

8 Nel greco si legge staqe␣j, un participio aor. passivo (al posto dell’aor. attivo sta,j) da intendere come una semplice formula retorica per introdurre un personaggio a parlare. Nessuna allusione, quindi, al contegno «sprezzante» del fariseo, come a volte – nel passato ma ancora oggi – si è cercato di leggervi. Anche del pubblicano, infatti, si afferma al versetto seguente: o` de. telw,nhj makro,qen e`stw.j ktl. (v. 13a), ma il suo modo di pregare, dimesso e penitente, è divenuto addirittura «proverbiale»: ~O qeo,j, i`la,sqhti, moi tw/| a`martwlw/| (v. 13b). Per questi participi cosiddetti «grafici», cf. M. ZERWICK, Graecitas Biblica Novi Testamen- ti exemplis illustratur, Romae 51966, §§ 230-231 (174-175); 363-365 (256-257).

9 Il digiuno bisettimanale e il versamento delle decime da parte del fariseo orante al tempio di Geru- salemme sono due tratti importanti per capire la fisionomia del personaggio lucano. Noi riteniamo che si possa trattare di un rbx (hāvēr, lett. associato, pl. ~yrbx, hāvērîm), nel contesto dei gruppi (socio-)religiosi del giudaismo contemporaneo o di poco posteriore al Vangelo secondo Luca, che fu redatto poco dopo il 70 d.C. (DEL VERME, Giudaismo e Nuovo Testamento, spec. 84-92 e bibliografia in nota, da completare con H. CAZELLES, «rbx», in GLAT II, 764-770. Nel presente contributo noi tratteremo soltanto le decime (del fariseo), perché del digiuno bisettimanale – sia nel giudaismo contemporaneo a Gesù sia nella comunità cri- stiano-giudaica della Didaché – abbiamo discusso altrove (M. DEL VERME, «Il digiuno bisettimanale degli u`pokritai,, e quello degli “altri” (Did. 8,1). Gruppi in cerca di identità», in Munera Parva. Studi in onore di Boris Ulianich, 1: Età antica e medievale, a cura di G. LUONGO, Napoli 1999, 93-123, aggiornato e pubblicato poi in inglese (ID., «Who Are the People Labelled as “Hypocrites” in Didache 8?», in Henoch 25[2003], 1- 35; e Didache and Judaism. Jewish Roots of an Ancient Christian-Jewish Work, New York 2004, 166-168 e 172-176).

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M. DEL VERME – Annotatiuncula philologica atque historica

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indiscriminata!) ai dati concreti, religiosi e storico-culturali, che sono molto fre- quenti, ma non esclusivamente, nelle parabole evangeliche. Come viene univer- salmente riconosciuto dagli esegeti, le parabole dei vangeli sono, infatti, più direttamente riconducibili alle tradizioni (autentiche) riguardanti l’insegnamen- to di Gesù di Nazaret. Esse vengono correntemente classificate tra le forme let- terarie (Gattungen) tipicamente «gesuane» nel blocco degli Herrenworte (= detti di Gesù) riportati nei vangeli.10 Per dati concreti intendiamo i cosiddetti realia, ossia i dettagli narrativi e descrittivi presenti nella narrazione, che aiutano a rico- struire il quadro storico in cui viene ambientata la parabola.

La parabola di Lc 18,9-14a, che a noi qui interessa soprattutto per il suo richiamo al pagamento delle decime (e al digiuno) del fariseo orante (vv. 11- 12),11 offre al lettore ulteriori motivi per valutare sia la sua fecondità dottrinale sia la ricchezza di apporti storici, se si valutano con la dovuta attenzione critica proprio i realia ricorrenti nel testo. Indirettamente, poi, i dati concreti fanno diga di contrasto a quegli approcci «astorici» di taluni esegeti quando esaminano le pericopi neotestamentarie di genere parabolico. Peraltro, anche metodi di lettu- ra più recenti, in particolare quelli attenti al versante retorico e/o narratologico dei testi del NT,12 appaiono non del tutto convincenti. Ancora, l’attenzione ai

10 Cf. R. BULTMANN, Die Geschichte der synoptischen Tradition (FRLANT NF 12), Göttingen 71967, 179-222.

11 Tutti i tratti compositivi della parabola sono stati da noi analizzati nella monografia DEL VERME, Giudaismo e NuovoTestamento, 73-94 e passim.

12 In alcuni recenti approcci ermeneutico-teologici e linguistici al NT le parabole finiscono per per- dere la loro caratteristica specifica di «racconto», descrizione cioè di una situazione reale. Talvolta sono interpretate e valutate come pure metafore o all’interno di uno statuto poetico che è svincolato dalle fina- lità originarie delle parabole, che sono escatologiche e cristologiche. Si arriva a una lettura meramente este- tica, psicologica, antropologico-esistenziale e, al limite, «secolare». Si parla ancora di una polivalenza di significati dei testi parabolici in nome dell’inesauribilità della metafora. Conseguentemente, le parabole finiscono per perdere ogni referenzialità alla storia di Gesù e al giudaismo a lui contemporaneo o a quello del tempo della redazione dei vangeli; nel nostro caso, a Luca. Qualche esempio, tra i tanti: per D.O. VIA, The Parables. Their Literary and Existential Dimension, Philadelphia 1967, 120, la parabola di Lc 18,9-14a condannerebbe l’uomo (= il fariseo) che si sottrae al rischio della vita per cercare sicurezza nell’attività reli- giosa; L. SCHOTTROFF, «Die Erzählung vom Pharisäer und Zöllner als Beispiel für die theologische Kunst des Überredens», in Neues Testament und christliche Existenz. FS. für H. Braun zum 70. Geburtstag, hrsg. H.D. Betz – L. SCHOTTROFF, Tübingen 1973, 457-458, finisce per ridurre la figura del fariseo a mera «caricatura» (pp. 448-452). E, più recentemente, J.J. KILGALLEN, «Luke 18,11 – Pharisees and Lukan Irony», in Revue bibli- que 113(2006)1, 53-64, con riferimento a Lc 18,11 e 16,14-18, si sofferma, in particolare, sul «tono ironico» dei due passi. Luca avrebbe organizzato il materiale narrativo per enfatizzare – a commento della moralità dei farisei – «... the intense irony between what they said and how they lived» (cf. «Summary», p. 65), o «Luke closes his discussion of Pharisaic conduct with irony; other men may be avaricious, unjust, adulterous – but then so is the Pharisee, as Luke 16,14-18 make manifest» (p. 64); A. PESONEN, «The Pharisee and the Tax-collector within the Psyche», in J.H. ELLENS (ed.), Text and Community. Essays in Memory of Bruce M. Metzger (New Testament Monographs 20), Sheffield 2007, II, negando ogni richiamo nei due personaggi in scena – il fariseo e il pubblicano – alla realtà sociale e religiosa del giudaismo contemporaneo a Gesù, ana- lizza il testo di Luca per evidenziare «the narcissistic personality disorder» o «the narcissistic vulnerability» del fariseo, si direbbe una sorta di indagine sulla patologia del personaggio. L’alta autostima del «perfec- tionist Pharisee» – una realtà negativa! – si contrappone al «no-good, worthless tax-collector» – una realtà positiva! Per concludere che «... identification as a sinner [del pubblicano] is seen as a constructive attitu- de, as in the Lutheran tradition» (pp. 56-57). La precomprensione e preoccupazione teologica dell’autore è qui palese. In fine, ricordiamo altri tre contributi: T. POPP, «Werbung in eigener Sache (Vom Pharisäer und Zöllner)», in R. ZIMMERMANN (ed.), Kompendium der Gleichnisse Jesu, Gütersloh 2007, 681-695, che ana-

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«dati concreti» di tipo storico-culturale può gettare nuova luce sui testi e, talvol- ta, diventare perfino la spia privilegiata per fissare – non aprioristicamente e non soggettivamente – la «punta» o insegnamento centrale delle parabole. Senza ricadere, ovviamente, con ciò in un facile e gratuito allegorismo, che è stato con- futato da tempo a partire dagli studi di A. Jülicher.

Il radicamento nella storia è richiesto anche dall’indole propria delle parabole, ossia dal loro carattere essenzialmente dialogico-argomentativo di tipo narrativo.13 Su questa linea si è svolto l’approccio «classico» dell’esegesi moderna (Bultmann, Dodd, Jeremias, Linnemann, Eichholz, Dupont... e lo stes- so Jülicher) nello studio delle parabole evangeliche. Su questa stessa linea ci muoviamo anche noi, ma con attenzione ai dati religioso-culturali maggiore di quella che si legge correntemente nei commentari a Luca. Concentreremo allo- ra la nostra attenzione sul pagamento delle decime del fariseo lucano in conco- mitanza e raffronto con quanto riferiscono circa questa istituzione le fonti giu- daiche, sia quelle coeve sia quelle di poco posteriori alla redazione del Vangelo di Luca.

Come si diceva, Lc 18,11-12 si situa all’interno di un brano più ampio (18,9- 14a), che gli studiosi del genere parabolico classificano quasi concordemente sotto la categoria dei «racconti esemplari» (Beispielerzählungen),14 insieme ad altri tre testi, uguali nella forma e riportati anch’essi soltanto da Luca (= Son- dertraditionen o Sondergüter), e che ricordiamo: il buon samaritano (10,30-37), il ricco stolto (12,16-20[21]), Lazzaro e il ricco (16,19-31).

lizza la personalità del fariseo lucano come una sorta di «manifesto propagandistico»; R. KRÜGER, «El desen- mascaramiento de un despreciador prestigioso», in Revista Bíblica 49 [Nueva Epoca n. 27] (1987), 155-167, che attraverso una lettura semiotica della parabola conclude che il programma narrativo del testo lucano e il suo messaggio (per la comunità cristiana) è duplice e contrapposto: il fariseo parla «a los cristianos pre- stigiosos y despreciadores» mentre il pubblicano «a los pecadores despreciados en el seno de la iglesia» sug- gerendo ai primi una inversione di rotta: cambiare cioè attitudine verso i peccatori (pp. 166-167); e F.G. DOWNING, «The Ambiguity of “The Pharisee and the Toll-collector (Luke 18:9-14)” in the Greco-Roman World of Late Antiquity», in The Catholic Biblical Quarterly 54(1992), 80-99, che nell’ambiguità e parodia dei due personaggi («two figures, both of whom are ambiguous, subtly effective parodies», p. 99) – letti nel contesto più ampio della tarda antichità greco-romana – intravede una precisa coerenza del testo lucano con l’insegnamento di Gesù riferito altrove nella tradizione evangelica.

13 Così anche noi con V. FUSCO, Oltre la parabola. Introduzione alle parabole di Gesù, Roma 1983, 58-59. Questo lavoro del compianto collega e amico (R.I.P.) è tuttora valido – anzi da raccomandare – per la sintetica ma documentata critica dei molti metodi di lettura delle parabole nel «dopo Jeremias». Cf. anche lo studio, meno recente, di W.S. KISSINGER, The Parables of Jesus: a History of Interpretation and Biblio- graphy (ATLABS 4), Metuchen, NJ-London 1979; e quello, più recente, di R. ZIMMERMANN (ed.), unter Mitarbeit von G. KERN, Hermeneutik der Gleichnisse Jesu. Methodische Neuansätze zum Verstehen urchri- stlicher Parabeltexte, Tübingen 2008.

14 Secondo un modo di vedere che si è diffuso tra gli esegeti a partire da A. JÜLICHER, Die Gleich- nisreden Jesu, 1: Die Gleichnisreden im allgemeinen, Tübingen 31910 (1a ed. Freiburg i.Br. 1886), che ritene- va appunto come Beispielerzählungen tutti i brani lucani (cf. ad es. 10,30-37; 12,16-20[21]; 16,19-31; 18,9-14) la cui narrazione si situa nel contesto religioso-morale, sicché al lettore non viene richiesto un «trasferi- mento di giudizio» dalla situazione della parabola alla lezione da accogliere, ma prevale l’esplicito invito all’accoglimento e messa in pratica del messaggio: «Va’ e anche tu fa’ allo stesso modo» (Lc 10,37). Per altri autori, che condividono questa stessa linea interpretativa, cf. DEL VERME, Giudaismo e Nuovo Testamento, 75-77, note 141-142.

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Assieme a pochi altri studiosi,15 noi riteniamo che la definizione di «rac- conti esemplari» per queste pericopi lucane sia insoddisfacente, perché esse non si prefiggono «semplicemente di presentare dei modelli di comportamento morale, positivi o negativi che siano, ma di far scaturire un giudizio, la valutazio- ne di un certo modo di pensare e di vivere».16 Nella parabola del fariseo e del pubblicano, infatti, Luca non si prefigge di additare come esempio negativo il primo e positivo il secondo personaggio, ma vuole comunicare al lettore la valu- tazione dei due agli occhi di Dio. È qui la «punta» della parabola, come si evin- ce anche dal fatto che tutta la narrazione sfocia nel giudizio finale: «Io vi dico: questi [= il pubblicano] tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro [= il fariseo]» (v. 14a), che svela autoritativamente (le,gw u`mi/n) il punto di vista di Dio (e di Gesù) sui due oranti.

Nell’intenzione di Luca il dittico realistico dei due personaggi in preghiera al tempio di Gerusalemme funge da risposta «a quei sicuri [opp. confidenti] in se stessi di essere [opp. perché erano] giusti e che disprezzano gli altri» (v. 9), per i quali Gesù narrò la parabola. La preghiera del fariseo – un testo pieno di asin- deti e di altri costrutti semitizzanti17 – è espressa nella forma della berāhkāh (lett. ringraziamento, benedizione), un genere letterario di tipo laudativo (privato o pubblico) che è frequente nella letteratura veterotestamentaria (specie nei Salmi) e negli scritti giudaici post-biblici. La berāhkāh veniva proclamata duran- te la liturgia templare e sinagogale del tempo di Gesù, e la ritroviamo nel NT e nella posteriore letteratura rabbinica.18

La preghiera del fariseo di Lc 18,11-12, sia che la parabola sia ritenuta di origine palestinese e gesuana (come a noi sembra), sia che se ne attribuisca la

15 Ad esempio, J. JEREMIAS, Die Gleichnisse Jesu (AThANT 11), Göttingen 51965 (tr. it. Le parabole di Gesù, Brescia 1967), che diffidente verso le classificazioni in generale (pp. 22-23) non fa uso della cate- goria Beispielerzählungen ma annovera i quattro testi lucani (cit. nella nota precedente) o tra le parabole sull’imminenza del giudizio e imperativo dell’ora (Lc 12,16-21 e 16,19-31) o tra quelle della misericordia di Dio verso i peccatori (Lc 18,9-14) (pp. 196s, 216-221 e 166-171). Soltanto per la parabola del buon samari- tano (Lc 10,30-37) l’autore sembra presupporre in realtà – si noti infatti la titolatura: «adesione vissuta» – la categoria dei «racconti esemplari». Anche FUSCO, Oltre la parabola, 128-140 formula riserve circa la clas- sificazione dei quattro testi lucani sotto la categoria di «racconti esemplari».

16 FUSCO, Oltre la parabola, 138.

17 Puntualmente notati e studiati da JEREMIAS, Le parabole di Gesù, 166ss, che tra l’altro scrive: «In nessun’altra parabola riportata [da Luca] si accumulano tanti asindeti semitizzanti (vv. 11.12.14) come in questa [Lc 18,9-14]; del resto, la lingua e il contenuto permettono di riconoscere un’antica tradizione pale- stinese».

18 Cf. W. BEYER, «euvloge,w ktl.», in GLNT III, 1153-1169; O. MICHEL, «o`mologe,w ktl.», in GLNT VIII, 567-580, da integrare con J.-P. AUDET, «Esquisse historique du genre littéraire de la “bénédiction” juive et de l’“eucharistie” chrétienne», in Revue biblique 65(1958), 371-399; J. HEINEMANN, «The Patterns of the “Liturgical” Berakha and Their Origins», in ID., Prayer in the Period of the Tanna’im and the Amorra’im, Jerusalem 21966, 52-56; J. BERGMAN – W. SODEN – G. VON MAYER, «(tôdâ) hdnt hdy (jdh)», in GLAT III, 529- 552; e «Appendice bibliografica» a cura di E. HAMACHER – B. ANUTH – B. DALLMANNS – I. KRETSCHMANN, «hdy (jdh)», ivi, 532.

Annotazioni filologiche sulle berāhkôth in generale – specie quelle ricorrenti nell’epistolario paoli- no – con puntuali raffronti con i Salmi canonici e pseudepigrafi, 1QH e altri testi similari si possono legge- re anche nella monografia di M. DEL VERME, Le formule di ringraziamento post-protocollari nell’epistolario paolino (Presenza 5), Roma 1971.

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paternità allo scrittore Luca (meno verosimilmente),19 riflette la situazione sto- rica della preghiera nella formula religioso-istituzionale della berāhkāh, che risul- ta attiva durante tutto il periodo del giudaismo del secondo tempio.

2.TRADUZIONI DI LC 18,12

In questo paragrafo riportiamo20 le traduzioni di Lc 18,12 dalle più antiche versioni, latine e siriache,21 e alcune citazioni, esplicite (rare) o implicite e allu- sioni (più frequenti) alla parabola lucana nei testi patristici, greci e latini; infine, valuteremo le traduzioni del versetto in alcune moderne traduzioni del NT rive- dute dal greco, in particolare quelle italiane, angloamericane, francesi, tedesche, spagnole, portoghesi e qualche altra traduzione dell’Europa orientale (di lingua polacca e slovacca), per verificare se la traduzione della Vulgata, che rende Lc 18,12b avpodekatw/ pa,nta o[sa ktw/mai con «decimas do omnium quae possideo», trovi conferma o riscontro e/o abbia potuto influenzare (condizionare?) le tra- duzioni post-geronimiane.

Come abbiamo avuto modo di scrivere altrove,22 a noi sembra che la tra- duzione della Vulgata di ktw/mai con «possideo», con riferimento cioè ai «beni

19 Certo lo scrittore Luca nei di,kaioi della formula iniziale pensa a un uditorio più numeroso di quel- li che furono gli ascoltatori «storici» della parabola. I quali sono quasi certamente da individuare nel grup- po dei farisei che spesso si opponeva a Gesù. Nelle intenzioni di Luca questa parabola muove dal piano sto- rico per diventare al tempo stesso kh,rugma e didach, per le comunità cristiane destinatarie del suo vangelo. Comunità, queste, composte molto probabilmente da convertiti che provengono in prevalenza dal pagane- simo e sono dislocate sembrerebbe fuori della Palestina. Difatti, sulla provenienza palestinese e gesuana di questa Sondertradition di Luca non sono state mosse critiche di rilievo: troppo marcati sia il carattere semi- tizzante del testo sia le istituzioni religiose (ad es. il tempio di Gerusalemme e le istituzioni del digiuno e delle decime) alle quali i lettori di Luca, ellenisti ex pagani, non erano certo particolarmente interessati. Ciò spiegherebbe la difficoltà (impossibilità?) di poterne attribuire la paternità al genio creativo di Luca. Ma senza cadere per questo nell’illusione «storicistica» di captare nel testo parabolico di Luca la ipsissima vox Jesu. Come è noto, nelle parole e nei racconti «cosiddetti autentici» dei vangeli resta sempre un certo scar- to o distanza tra il dato trasmesso e letterariamente costruito e ciò che accadde nella realtà. L’«accaduto» rimane per il lettore irreversibilmente morto. Cf. sull’argomento il bel volume di C. PERROT, Gesù e la sto- ria, Roma 1981, spec. 49-68 (or. fr. Paris 1979). Anche I.H. MARSHALL, The Gospel of Luke. A Commentary on the Greek Text, Exeter 1978, 678, respingendo i dubbi della Schottroff sull’origine gesuana della parabo- la, conclude: «But one has yet to provide evidence that Jesus, the friend of tax-collectours, did not also share Luke’s outlook, and the case that Jesus is unlikely to have used this story, or that the story would have been persuasive only in the situation of the church, remains unconvincing».

20 Data l’indole e le finalità proprie di una miscellanea commemorativa, la nostra trattazione sarà alquanto sintetica, poco più di uno spoglio di testi ma sufficiente per corroborare la nostra proposta di tra- duzione di Lc 18,12.

21 Oltre alle classiche introduzioni al NT, ad esempio quelle di A. Vaccari, A. Wikenhauser e K. Aland – B. Aland, per le antiche versioni latine rinviamo a K. ALAND (ed.), Die alten Übersetzungen des Neuen Testaments, die Kirchenväterzitate und Lektionare, mit Beiträgen von M. BLACK et al., Berlin 1972; J.K. ELLIOTT, «The Translations of the New Testament into Latin: The Old Latin and the Vulgate», in ANRW Teil II: Principat, Band 26 (1. Teilband), Religion (vorkonstantinisches Christentum: Neues Testament [Sachthemen]), hrsg. W. HAASE, Berlin-New York 1992, 198-245; e M. CIMOSA, con la collaborazione di C. BUZZETTI, Guida allo studio della Bibbia latina: dalla Vetus latina, alla Vulgata, alla Nova Vulgata (Studia patristica 14), Roma 2008. Per le antiche versioni siriache del NT, cf. E.J. WILSON, The Old Syriac Gospels. Studies and Comparative Translations, with Syriac Transcriptions by G.A. Kiraz (Eastern Christian Studies I), Piscataway, NJ 2002.

22 Supra, nota 1.

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posseduti» sui quali il fariseo confessa di pagare le decime (bibliche),23 minimiz- zi e/o svaluti – renda in modo perfino erroneo?24 – il valore semantico di kta,omai, un verbo nella cui radice è prevalente il significato di «acquisto», ma non – o solo secondariamente – quello di «possesso». A meno che l’atto di «acquisto» (dei prodotti) non sia avvertito come sottinteso o ricompreso nella realtà concreta del «possesso/patrimonio».

Conseguentemente, l’oggetto delle decime del fariseo è più ampio di quan- to è prescritto nella tôrāh scritta. Oltre alle decime sugli averi (in particolare, quelle sui prodotti agricoli: grano, vino e olio), Luca alluderebbe a una «prassi (halakhah) volontaria»,25 osservata anche dal fariseo (āvērh), in forza della quale le decime venivano prelevate e versate non soltanto sui prodotti della terra ma su «tutto ciò che [si] acquista», insomma sull’intero patrimonio.

Dallo spoglio che segue constateremo come la traduzione della Vulgata di ktw/mai con «possideo» probabilmente finì per influenzare le versioni antiche, quelle medievali e moderne, e la quasi totalità dei padri greci e latini. E da essa dipendono molte, se non la maggioranza, delle moderne traduzioni di Lc 18,12, che leggiamo nelle molteplici revisioni del NT dall’originale greco che sono state eseguite negli ultimi decenni.

23 Nella legislazione anticotestamentaria molteplici sono le prescrizioni circa le decime, riconduci- bili a tre forme-tipo che nella più tarda nomenclatura rabbinica vengono chiamate: la «prima decima» (!yXar rX[m) con fondamento biblico in Nm 18,21-24; la «seconda decima» (ynX rX[m), radicata su Dt 14,22-27, e la «decima del povero» (yn[ rX[m), detta anche «terza decima», prescritta da Dt 14,28-29 (cf. anche 26,12). Questa terminologia (rabbinica) si trova già nei LXX, Giubilei, Flavio Giuseppe e nei Targu- mim palestinesi al Pentateuco. Presumibilmente, quindi, essa era già nota in epoca neotestamentaria, quan- do furono redatti i Vangeli di Matteo e Luca, ma la cosa non è documentabile con assoluta certezza. Per maggiori dettagli e altri particolari, cf. DEL VERME, Giudaismo e Nuovo Testamento, soprattutto la parte seconda: «La storia delle decime nel giudaismo del secondo tempio e di epoca tannaitica», 115- 245.

24 «Pace Hieronymus aut quicumque alius. Ignoscas rogo!». Resta aperta, però, una importante domanda che tocca la critica testuale: Girolamo (e/o altri con lui) – ci si deve chiedere – nella sua Vulgata per i vangeli traduce un manoscritto greco di Luca oppure la sua traduzione è una pura scelta personale tra le diverse lezioni di Luca (nel caso 18,12), che erano già attestate in manoscritti latini del NT, noti a Giro- lamo e più antichi dei manoscritti greci a noi pervenuti? Per questa – non del tutto ipotetica – situazione critico-testuale dei vangeli al tempo di Girolamo rinviamo alle note introduttive di ELLIOTT, «The Transla- tions of the New Testament into Latin», in particolare la Part One: «The Old Latin: I. General Introduction (199-200)» e «II. The Origins of the Latin Translations (200-202)». Cf. anche CIMOSA – BUZZETTI, Guida allo studio della Bibbia latina, per un percorso storico diacronico che va dalle prime versioni latine della Bibbia fino alla Vulgata (e Nova Vulgata). La Vetus latina, circa la quale le più antiche testimonianze provenienti dall’Africa cristiana (donde il nome di Afra) risalgono al II-III secolo d.C. (ca. 180: cf. TERTULLIANO, Monog. 11: PL 2,996; Adv. Marc. V, 4: PL 2,509; CIPRIANO, Testimonia, 2 libri: Ep. ad Fortunatum; Testimoniorum adv. Judaeos libri tres); inoltre Novaziano a Roma (ca. 250 d.C.) riporta la Bibbia secondo un testo diverso da quello del suo contemporaneo Cipriano. È fondato, quindi, ritenere che anche in Italia (donde il nome di Itala: cf. AGOSTINO, De doctrina christiana II, 15,22: PL 34,46) era nota una seconda traduzione latina della Bibbia (ripeto, quella usata a Roma da Novaziano); oppure, secondo altri studiosi, circolava a Roma una recensione della traduzione latina già diffusa in Africa. In sintesi, la Vetus latina prima di Girolamo ha avuto una storia molto complessa. Lo hanno dimostrato per i vangeli, già nel 1910, D. De Bruyne e più recente- mente B. FISCHER, Beiträge zur Geschichte der lateinischen Bibeltexte (Aus der Geschichte der lateinischen Bibel 12), Freiburg 1986, 197, nota 90.

25 Non è da escludere, però, che il comportamento del fariseo fosse dettato anche dalla sua premu- ra di versare le decime sugli acquisti, perché temeva che i prodotti acquistati non fossero stati «decimati» dal venditore.

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Antiche versioni latine e siriache26 1. Vetus latina27

Itala28 e Afra:29

26 Riporteremo i testi nei paragrafi 1-3, che seguono. Abbiamo omesso – si badi – la consultazione di altre versioni antiche, ad esempio quelle copte, georgiane, armene e gotiche, sia perché non abbiamo la specifica competenza linguistica per esaminarle sia perché esse sono generalmente alquanto tarde e, a loro volta, traduzioni spesso dal greco del NT o dal latino della Vetus latina e/o della Vulgata. Per queste tradu- zioni, però, il lettore potrà consultare con profitto alcune opere fondamentali di autori che ricordiamo: per il copbo, G. HORNER, The Coptic Version of the New Testament in the Northern Dialect otherwise Called Memphitic and Bohairic, 4 voll., Oxford 1898-1905; per il copsa, ID., The Coptic Version of the New Testament in the Southern Dialect otherwise Called Sahidic and Thebaic, 7 voll., Oxford 1911-1924; per il geo, M. BRIE- RE, La version géorgienne ancienne de l’Évangile de Luc, d’après les Évangiles d’Adich, avec les variants des Évangiles d’Opiza et de Tbet’, éditée avec une traduction latine (PO 27/3), Paris 1955; per l’arm, J. ZOHRAB, The Holy Bible (Armenian), Venice 1805; e per il goth: W. STREITBERGER, Die gotische Bibel (Germanische Bibliotek II/3), Heidelberg 1919 (rist. 1950). Per le versioni siriache in generale e, in particolare, per il Dia- tessaron di Taziano, ricco di molti spunti chiarificatori è un contributo di A. VACCARI, in Scritti in onore di Giuseppe Furlani (Rivista degli studi orientali XXXII), Roma 1957, dal titolo «Le sezioni evangeliche di Eusebio e il Diatessaron di Taziano nella letteratura siriaca», 433-452. Suscita poi una certa curiosità la resa del Diatessaron in volgare italiano: cf. Il Diatessaron in volgare italiano, testi inediti dei secoli XIII-XIV, pub- blicati da V. TODESCO – A. VACCARI – M. VATTASSO (Studi e Testi 81), Roma 1938. Riportiamo la traduzione di Lc 18,9ss: (f. 57r), Luca (18,9). Ca: CXV. «E disse ad alquanti li quali se confedava de sie, si con i fosse iusti e despresavano i altri, questa parabola: Doi homini montavano en lo templo ad adorare: uno era Fariseo, e l’altro Publicano. (11) El Fariseo stagando, cossì orava e disea: Dio, gratie referisco a tie ch’io no sonto sì con i altri homini rattori, enzusti e avulterij, e tale como è questo Publicano. (12) Io di (f. 58r)zuno do fiade la septimana e do la decima de tuto quello ch’io possedo [nostra sottolineatura]. E llo Publicano stava da lunzi e no voleva eciamdio levare li soi ochij in alto en zielo, ma ferìa lo petto so digando: – Do sia propitio a mi peccadore. (14) – En verità ve digo che questo desende zustificato en la casa soa perzò che ogno homo che se assalta firà humiliado, e ogno homo che se humilia firà exaltado» (ivi, 100-101). E questa è la tradu- zione in volgare di Lc 18,12b («... e do la decima de tuto quello ch’io possedo»), che attesta inequivocabil- mente che l’influsso dell’opera gerominiana – i.e. la Vulgata (che traduce ktw/mai di Lc 18,12b con «possi- deo») – ha avuto una lunga tradizione e un influsso incontestato nei secoli.

27 Riprendiamo il testo da A. JÜLICHER (ed.), Itala. Das Neue Testament in altlateinescher Überliefe- rung nach den Handschriften, 3: Lukas-Evangelium, durchgesehen und zum Gruck besorget von W. MAT- ZOW – K. ALAND, Berlin-New York 21976, 203, con l’invito a consultare il Verzeichnis der Handschriften, p. VII; cf. anche P. SABATIER – B. FISCHER, Bibliorum Sacrorum Versiones Antiquae seu Vetus Italica. Additur Index Codicum Manuscriptorum quibus P. Sabatier usus est [1743], 3 voll., Turnhout 1976 (rist.), e B. FISCHER (ed.), Vetus latina: die Reste der altlateinischer Bibel, 1-2, 10/3, 11-12, 21-22, 24-26, Freiburg 1951ss per i testi della Vetus latina già editi. Ulteriori utili informazioni si possono leggere anche in B.M. METZGER, The Text of the New Testament, Its Transmission, Corruption, and Restoration, Oxford 21968; ALAND (ed.), Die alten Übersetzungen des Neuen Testaments; P.-M. BOGAERT, «La Bible latine des origines au moyen âge. Aperçus historique, état des questions», in RTHL 19(1988), 303-314; e R. GRYSON, Altlateinische Handschriften. Manuscrits Vieux Latin, Freiburg 1999, 1/2A.

28 Attestata dai codici a aur b c d f ff2 i l q r1. Ulteriori precisazioni in ALAND, Die alten Übersetzun- gen des Neuen Testaments.

29 Attestata dal codice e. 30 [Ia]iuno: b m. I. 31 et: c. 32 decimo: d i q.

33 [dono]: a. 34 omnia: d q. 35 a ff2 i q; quae: r1 cet. 36 adquiro: d i q.

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Lc 18,12: Ieiuno30 bis in sabbato,31 decimas32 do33 omnium,34 quaecunque35 possi- deo.36 «Digiuno due volte alla settimana, verso le decime su qualunque cosa io possiedo».

I codici d (= Bezae Cantabrigiensis s. V), i (= Vindobonensis s. V) e q (= Monacensis s. VI/VII) riportano, invece, la lezione «adquiro», che supporta quin- di la nostra traduzione di pa,nta o[sa ktw/mai (Lc 18,12b) con «tutto ciò che acqui- sto».

2. Vetus syra e Peshitta37

Lc 18,12: ana anqd ~dm Lk ana rs[mw Fbvb !yrt ana ~ac fa 38 «Ma io digiuno due volte alla settimana e pago le decime su qualunque cosa io acqui- sto».39

Notiamo che, a differenza della Vetus latina, dove pochi codici soltanto supportano la nostra traduzione di Lc 18,12b con «acquisto», la Vetus syra e la Peshitta sostengono inequivocabilmente la nostra traduzione data la costante ricorrenza nei codici del verbo anq (qny), il cui significato primario e preponde- rante è «acquistare» e non «possedere».

37 Per la Vetus syra seguiamo l’edizione di A.S. LEWIS, The Old Syriac Gospels or Evangelion da- Mepharreshê; Being the Text of the Sinai or Syro-Antiochene Palimpsest, Including the Latest Additions and Emendations, with the Variants of the Curetonian Text, Corroborations from Many Other Mss., and a List of Quotations from Ancient Authors, London 1910: Lc 18,12 a p. 182, testo identico a quello di E.J. WILSON, The Old Syriac Gospels. Studies and Comparative Translations, with Syriac Transcriptions by G.A. Kiraz, 2: Luke and John (Eastern Christian Studies II), Piscataway, NJ 2002, 579. Per la Peshitta, G.H. GWILLIAM, The Fourfold Holy Gospel. Tetraeuangelium Sanctum in the Peshitta Syriac Version, in continuation and expan- sion of the work of the late P.E. PUSEY, London 1905: Lc 18,12 è a p. 34. Cf. inoltre St. Luke Peshitta Syriac. Euangelion Kadisha Caruzutha d’Luka – Evangelium Sanctum Praedicatio Lukae, London 1951, 34, che riprende l’edizione di G.H. GWILLIAM, Tetraeuangelium Sanctum juxta simplicem Syrorum versionem ad fidem codicum, massorae, editionum denuo recognitum, lectionum supellectilem quam conquisiverat Ph.E. Pusey, auxit, digessit, edidit G.H. GWILLIAM, accedunt capitulorum notatio, concordiarum tabulae, translatio latina, annotationes, Oxonii 1901, 432.

38 Il versetto di Lc 18,12 della Vetus syra (Lewis, Wilson) è identico a quello della Peshitta (Gwil- liam), salvo l’univerbazione di ~dmLk (qulmeddem), che nella Peshitta figura, invece, separato (~dm Lk, qul meddem). Il testo del Vangelo di Luca (Sinaiticus, Curetonianus, Peshitta e Harklense) è utilmente consul- tabile in sinossi in G.A. KRANZ, Comparative Edition of the Syriac Gospels Aligning the Sinaiticus, Cureto- nianus, Peshîttâ and Harklean Versions, 3: Luke, Leiden-New York-Köln 1996, 364.

39 Questa nostra traduzione ricalca quella inglese di WILSON, The Old Syriac Gospels, 578: «But I fast twice a week, and I tithe everything that I acquire», e di G.M. LAMSA, The New Testament from the Ancient Eastern Text. Translated from the Aramaic of the Peshitta, New York 1933, 1040: «But I fast twice a week, and I give tithes on everything I earn». Invece A.S. LEWIS, Some Pages of the Four Gospels Re-transcribed from the Synaitic Palimpsest with a Translation of the Whole Text, London 1896, 75 traduce: «But I fast twice in the week, I give tithes of all that I possess», così pure GWILLIAM, Tetraeuangelium Sanctum, 433: «Sed jeju- no bis septimana, et decimo quicquid possideo». Questi due studiosi trascurano/disattendono – ci sembra – il valore specifico del verbo anq (qny), che rende prevalentemente «acquistare» (cf. At 1,18; 4,32; 8,20; 20,28; 22,28; Mt 16,26; 1Pt 3,1; 1Tm 3,13) e secondariamente «possedere». Ci si può chiedere: le loro traduzioni subiscono forse l’influsso del testo della Vulgata? A nostro avviso, la cosa non è da escludere. Nel NT anq ricorre 17 volte (di cui 9 nell’opus Lucanum) con riferimento primario all’acquisto e non al possesso: cf. M. PAZZINI, Lessico concordanziale del Nuovo Testamento siriaco (Analecta 64), Jerusalem 2004, s.v. «anq», 375.

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Vangeli e tradizioni

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3. Vulgata40

Lc 18,12: ieiuno bis in sabbato, decimas do omnium quae possideo.41 «Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo».42

Come vedremo, salvo alcuni casi la resa di ktw/mai nella Vulgata con «pos- sideo» ha influenzato altre versioni latine che sono susseguite e diverse tradu- zioni del NT in lingue moderne, si direbbe, come una costante editoriale, che noi ci accingiamo però a criticare mettendola in discussione.

4. Testi patristici43

Nella letteratura cristiana antica, sia quella greca sia quella latina, i richia- mi alla parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14a) sono numerosi, ma per la finalità specifica del presente contributo lo spoglio dei testi si è rivelato piuttosto magro di risultati. Perché i padri di lingua greca, ma anche quelli di lin- gua latina, citano il brano lucano unicamente o più direttamente quando essi trattano il tema della preghiera. La preghiera del fariseo (Lc 18,11-12) viene con- trapposta a quella del pubblicano (v. 13) ed è valutata negativamente. Il pubbli- cano, invece, è considerato dai padri come il topos del «perfetto orante». Anche se peccatore, ma perché umile e penitente44 nei suoi tratti personali, egli viene esaltato e alla fine «giustificato», a differenza dell’altro (il fariseo). Il pubblicano orante è proposto come modello ai lettori cristiani, mentre il fariseo, visto come

40 Per note introduttive alla Vulgata, cf. ELLIOTT, «The Translations of the New Testament into Latin», in particolare la Part Two: «The Vulgate», 220-245, con un elenco dei principali manoscritti (tra i più di mille esistenti) (224-232) e una «Select Bibliography» (234-239). Cf. anche CIMOSA – BUZZETTI, Guida allo studio della Bibbia latina, 43-55.

41 Biblia Sacra Vulgatae Editionis Sixti V Pontificis Maximi iussu recognita et Clementis VIII aucto- ritate edita, logicis partitionibus aliisque subsidiis ornata a A. CALUNGA – L. TURRADO, Cinisello Balsamo 21999, con citazione in nota di Mt 23,23. Questa traduzione è ripresa anche dalla Nova Vulgata Bibliorum sacrorum editio sacrosancti oecumenici concilii Vaticani II ratione habita iussu Pauli PP. VI recognita, auc- toritate Ioannis Pauli II promulgata, editio typica altera, Città del Vaticano 21998. Annotiamo che nel Nouum Testamentum Domini Nostri Iesu Christi latine secundum editionem sancti Hieronymi ad codicum manuscriptorum fidem, recensuit I. WORDSWORTH – H.I. WHITE. Pars Prior – Quattuor Euangelia, Oxonii 1889-1898, i due illustri studiosi con la traduzione di Lc 18,12: «Ieiuno bis in sabbato decimas do omnium quae possideo», fanno correttamente presente (in nota, p. 433), che i codici d (Bezae Cantabrigensis [D] s. VI, latina uersio); i (Uindobonensis, Lat. 1235 s. VII); q (Monacensis Lat. 6224 s. VII, olim S. Corbiniani Fri- sigensis) traducono, invece, ktw/mai con «adquiro». Lo abbiamo sottolineato anche noi (supra, § 1 e nota 36).

42 Tr. La sacra Bibbia della CEI, editio princeps 2008, Bologna 2009.

43 Per la consultazione delle citazioni patristiche di Lc 18,12 ci siamo serviti dell’Index Patristicus sive clavis Patrum apostolicorum operum ex editione minore Gebhardt Harnack Zahn lectionibus editionum minorum Funk et Lightfoot admissis composuit Edgar J. Goodspeed, Naperville, Ill. 1960 (1a ed. 1907); Cla- vis Patrum apostolicorum catalogum vocum in libris Patrum qui dicuntur Apostolici non raro occurrentium adiuvante Ursula Früchtel congessit contulit conscripsit Henricus Kraft, Darmstadt 1963; e Biblia patristica. Index des citations et allusions bibliques dans la littérature patristique, Paris 1975-1995, I-VI.

44 Lc 18,13: Kai. o` telw,nhj makro,qen e`stw.j ouvk h;qelen ouvde. tou.j ovfqalmou.j eivj to.n ouvrano.n evpa/rai( avllV e;tupten eivj to. sth/qoj auvtou/( le,gwn( ~O qeo,j( i`la,sqhti, moi tw/| a`martwlw/|Å

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M. DEL VERME – Annotatiuncula philologica atque historica

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una persona altezzosa e vanagloriosa,45 viene invece criticato, e rigettato in sede morale come un’«icona della superbia», diremmo il topos del «cattivo orante».

Con la sola eccezione di Origene, Cipriano, Anfilochio d’Iconio e soprat- tutto Epifanio di Salamina (cf. infra), i padri tacciono sui «particolari» delle deci- me del fariseo (18,12b): non accennano, cioè, ad alcuna modalità operativa per questo importante tributo biblico, sul quale si andava sviluppando – come vedre- mo – una particolare halakhah, che ha lasciato traccia nella letteratura interte- stamentaria.46 Difatti, nei numerosi e molteplici testi patristici che accennano alla parabola lucana non vengono menzionati né i prodotti agricoli (e/o altri beni) che sono oggetto delle decime né i tempi del loro pagamento. Alcuni testi ricordano, certo – ed è questo degno di nota – il digiuno «bisettimanale» del fari- seo (Lc 18,12b), un particolare questo interessante per conoscere la prassi del digiuno nell’ebraismo del tempo di Gesù e di Luca, ma per le decime – interpre- tate talvolta con richiamo a Mt 23,23 e Lc 11,42 – si avverte nei padri una critica eccessiva, se non addirittura il misconoscimento dell’importanza di questa prati- ca nella vita religiosa e sociale degli ebrei. E questa esegesi patristica, minimale, ha finito – a nostro avviso – per condizionare tutta l’esegesi medievale, e spesso anche quella moderna e contemporanea (purtroppo!), quando si affronta l’argo- mento delle decime menzionate nel NT.47

Riportiamo qui alcune tra le numerose attestazioni patristiche concernen- ti la parabola del fariseo e del pubblicano in generale (Lc 18,9-14a), talvolta con la citazione diretta (raramente) o con allusione (più spesso) ai vv. 11-13. La para- bola viene ricordata in contesti di opere dove i padri trattano:

a) il tema della preghiera: cf., ad esempio, Basilio di Cesarea, Asceticon paruum 164,1 (ed. K. Zelker, Basilii regula a Rufino latine uersa: CSEL 86,187,13); Asceticon magnum 2,56 (PG 31,1120,C11); Homiliae in Psalmos (PG 29,204,D7); Gregorio di Nissa, De oratione dominica (PG 44,1184,A5); Tertullia- no, De oratione 17,2 (ed. Dierks: CCL 1,266,4); Cipriano, De dominica oratione 6: «Ieiuno bis in sabbato, decimas do omnium quaecumque possideo» (ed. C. Moreschini: CCL 3A,92,82); e Ambrogio di Milano, De officiis ministrorum 1.18,7 (ed. M. Testard, Saint Ambroise, Les devoirs, Paris 1984, 130,2); Expositio de Psalmo CXVIII 10,47; 20,4 (ed. M. Peschenig: CSEL 62);

b) la preghiera, le virtù e altri temi di carattere morale: cf., ad esempio, Ori- gene, Contra Celsum 3,64 (ed. M. Borret: SC 136, livres 3-4); Commentarii in Matthaeum (edd. E. Klostermann – E. Benz: GCS 38,205,6); Homiliae in Eze- chielem 9,2 (ed. W.A. Baehreus: GCS 33,409,22); Homiliae in Ieremiam 4,4,29:

45 o` Farisai/oj staqei.j pro.j e`auto.n ktl. Come già i padri greci e latini, alcuni moderni esegeti (cf. ad es. JEREMIAS, Le parabole di Gesù, 167), esagerando il significato dell’espressione pro.j e`auto.n (che rende il riflessivo aramaico leh + il participio staqei,j: secondo noi c’è qui un semplice accenno all’«isolamento» del fariseo, che va quindi tradotto: «stando in piedi, da solo, ossia appartato»), traducono il costrutto in que- stione con «si pose in evidenza», trascurando perciò il valore retorico, non dispregiativo (!), di staqei,j.

46 Cf. DEL VERME, Giudaismo e Nuovo Testamento, in particolare parte seconda, 1.3: «Le decime nel secondo periodo sadocita e fino alla caduta di Gerusalemme (400 a.C.-70 d.C.)», 127-176.

47 Ne abbiamo trattato in extenso nella monografia DEL VERME, Giudaismo e Nuovo Testamento.

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Vangeli e tradizioni

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nhsteu,w di.j tou/ sabba,tou( avpodekatw/ ta. u`pa,rconta, mou (= cit. di Lc 18,12); Com- mentarii in Romanos 3,9 (PG 14,954,A6); Basilio di Cesarea, Epistulae 204,4 (ed. Y. Courtonne, Saint Basile, Lettres, t. 2, Paris 1961); Regulae morales 57,1 (PG 31,788C,2); De humilitate 4 (PG 31,533,A13); Enarratio in prophetam Esaiam (PG 30,264,B11); Gregorio di Nazianzo, Carmina theologica 1,26-27; 2,17 (PG 37,498,20; 505,92; 784,39); Carmina historica 1,1 (PG 37,999,393); Orationes 39,17 (edd. C. Moreschini – P. Gallay: SC 358,188,23); Anfilochio d’Iconio, Contra hae- reticos 14: Kai. evkei/noj ga.r avnelqw.n eivj to. i`ero.n tau/ta proshu,ceto\ euvcaristw/ soi( o` qeo,j( o[ti ouvk eivmi. w[sper oi` loipoi. tw/n avnqrw,pwn( a[rpagej( a;dikoi( moicoi,( h' kai. w`j ou-toj o` telw,nhj\ nhsteu,w di.j tou/ sabba,tou( avpodekatw/ pa,nta o[sa ktw/mai (C. Datema [ed.], Amphilochii Iconiensis Opera. Orationes, pluraque alia quae supersunt, nonnulla etiam spuria [CCG 3], Turnhout-Leuven 1978, 198 e 487- 490); Tertulliano, Aduersus Marcionem 4.36.1 (ed. A. Kroymann: CCL 1,441- 726); Lattanzio, Epitome diuinarum institutionum 62,3 (ed. S. Brandt: CSEL 19,749,14); Ireneo di Lione, Adversus haereses 3.14.3; 4.36.8 (ed. W.W. Harvey, S. Irenaei... libros quinque adversus haereses, 2 tt., Cantabrigiae 1857, libri 1-3; SC 100, libri 4-5, 78,3; 914,288); Ambrogio di Milano, Expositio Euangelii secundum Lucam 7,240; 8,72 (ed. M. Adrien: CCL 14,296,2621; 325,877); Ambrosiaster, Commentarius in epistolas Paulinas 142,8 (ed. H.I. Vogels: CSEL 81/3); e Ilario di Poitiers, Tractatus super Psalmos 125,1 (ed. A. Zingerle: CSEL 22,611,24); Tractatus super Psalmum 118 3,15 (ed. M. Milhau, Commentaire sur le Psaume 118, t. I [SC 344], 164-165);

c) o si accenna alle usanze dei farisei del tempo di Gesù: nel caso, soltanto Epifanio di Salamina dà puntuali informazioni circa il digiuno bisettimanale del lunedì e del giovedì (evnh,steuon de. di.j tou/ sabba,touÃdeute,ran kai. pe,mpthn),48 circa le decime (avpedeka,toun de. th.n deka,twsin), le primizie (ta.j avparca.j evdi,doun) e le terûmôth (triakonta,daj te kai. penthkonta,daj) dei farisei (Haereses o Panarion 16.1.5, ed. K. Holl: GCS 25,211,1; e PG 41,249, dove alla nota 3 si ricorda che anche lo scrittore Teofilatto menziona gli stessi giorni di Epifanio).

Moderne traduzioni

Riportiamo alcune traduzioni di Lc 18,12 dalle moderne revisioni della Bib- bia (qui il NT) dai testi originali. Si tratta di una scelta a campione tra le nume- rose moderne traduzioni del NT – ripetitive e spesso l’una calco dell’altra – che hanno invaso il mercato editoriale negli ultimi anni. La nescienza di diverse lin- gue straniere non ci permette di citare traduzioni in numero maggiore, ma quelle che ci accingiamo a elencare ci sembrano una campionatura sufficiente – peraltro

48 A questi due giorni di digiuno settimanale dei farisei (il lunedì e il giovedì, mentre ai cristiano- giudei viene consigliato il digiuno il mercoledì e il venerdì e la preghiera [il Pater noster] tre volte al gior- no, come nella prassi giudaica: ad esempio, Dn 6,11; Sal 55,18; e 1QS 10,1) allude anche la Didaché 8,1-3. Maggiori dettagli in DEL VERME, Didache and Judaism, 162-188 e passim.

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M. DEL VERME – Annotatiuncula philologica atque historica

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si tratta di traduzioni nelle più diffuse lingue straniere e che vanno per la mag- giore – per operare un raffronto tra esse e la traduzione da noi proposta.49

a) Italiano

(Vg) «Digiuno due volte la settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo»50

(Vg) «Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di quanto possiedo»51 (Vg) «Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo»52 (?) «Io digiuno due volte alla settimana e offro al tempio la decima parte di

quello che guadagno».53

b) Francese (?) «Je jeûne deux fois la semaine, je donne la dîme de tous mes revenus»54 (?) «Je jeûne deux fois la semaine, je donne la dîme de tous mes revenus»55 (*) «Je jeûne deux fois la semaine, je donne la dîme de tout que j’acquiers»56 (*) «Je jeûne deux fois par semaine, je paie la dîme sur tout ce que j’achète».57

c) Inglese (?) «I fast twice a week; I give a tenth of all my income»58 (?) «I fast twice a week and give a tenth of all I get»59 (*) «I fast twice a week, I give the tenth of all things I acquire»60

49 Una precisazione: il corsivo nelle traduzioni elencate è nostro; inoltre, con l’asterisco (*) o il punto di domanda (?), indichiamo le traduzioni che si discostano dalla Vulgata (i.e. *) o quando nella traduzione non è esplicitato o non è del tutto chiaro (i.e. ?) se essa sia inclusiva o esclusiva di riferimenti «a ciò che si acquista», quando si accenna al patrimonio, alle entrate o al guadagno in genere. Il segno Vg indica, invece, le traduzioni che seguono la Vulgata.

50 Cf. La sacra Bibbia della CEI, editio princeps 2008, Bologna 2009.

51 Cf. Nuovo Testamento greco latino italiano [Testo greco di Nestle-Aland. Traduzione interlineare di A. Bigarelli. Testo latino della Vulgata Clementina. Testo italiano: La Bibbia. Nuovissima versione dai testi originali, 3: Nuovo Testamento, Cinisello Balsamo 1991], Cinisello Balsamo 1998.

52 Cf. Nuovo Testamento greco e italiano, a cura di A. MERK – G. BARBAGLIO, Bologna 1990.

53 Cf. La Bibbia, traduzione interconfessionale in lingua corrente (TILC). Nuova versione, Leu- mann-Roma 22001 (3a ristampa: marzo 2007). Il riferimento al tempio, purtroppo, può confondere il lettore, perché esso mette in circolo un’idea errata. Le decime, infatti, nel periodo neotestamentario (I secolo e.v.) non venivano versate al tempio! Inviterei i revisori della traduzione interconfessionale (pardon!) a leggere il nostro volume: DEL VERME, Giudaismo e Nuovo Testamento (cf. supra, note 23 e 46).

54 Cf. La Bible de Jérusalem. La sainte Bible traduite en français sous la direction de l’École biblique de Jérusalem, Turnhout (Belgique) 1967.

55 Cf. La Nouvelle Bible Segond (NBS). Édition d’étude, Alliance biblique universelle, Finlande

2002.

56 Cf. La Bible de Jérusalem traduite en français sous la direction de l’École biblique de Jérusalem, Nouvelle édition revue et corrigée, Paris 1998.

57 Cf. La Bible, publiée par la Commission doctrinal des Évêques de France, Paris-Montréal (Cana- da) 2001.

58 NRSV [= New Revised Standard Version of the Bible], in The Greek New Testament – UBS4 – with NRSV & NIV, J.R. KOHLENBERGER III Editor – Foreword by B.M. METZGER, Grand Rapids, MI 1993.

59 NIV [= New International Version of the Bible], in The Greek New Testament – UBS4.

60 Cf. The Kingdom Interlinear Translation of the Greek Scriptures, Three Bible Texts (Greek... by B.F. Westcott and F.J.A. Hort – 1881; Interlinear English, 1969; 1984 Revision), Rendered from the Original Greek Language by the New World Bible Translation Committee, 1985 Edition, Watchtower Bible and Tract Society of New York, Brooklin, NY 1985.

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Vangeli e tradizioni

200

(Vg) «I fast twice in the week, I give tithes of all I possess».61

d) Spagnolo

(Vg) «Ayuno dos veces por semana, pago el diezmo de todo cuanto poseo»62

(?) «Ayuno dos veces por semana y pago el diezmo de todo lo que gano».63

e) Tedesco (*) «Ich faste zweimal in der Woche, ich verzehnte alles, was ich mir erwerbe»64 (?) «Ich faste zweimal in der Woche und gebe den Zehnten von allem, was

ich einnehme».65

f) Polacco

(Vg) «Pszczę dwa razy w tygodniu, oddaję␣ dziesięcinę␣ ze wszystkiego, co man»66

(*) «Poszczę dwakroć _ (w)_ tygodniu, daję _ dziesięcine (ze)_wszystkiego, co nabywam».67

g) Portoghese (Vg) «Jejuo duas vezes na semana, pago o dízimo de tudo que possuo»68 (*) «Eu jejuo duas vezes por semana, pago o dízimo de tudo o que adquiro».69

61 The Bible Authorised King James Version (The World’s Classics), edited with an Introduction and Notes by R. CARROLL – ST. PROCKETT, Oxford-New York 1997.

62 Nuevo Testamento Trilingüe, editión crítica de J.M. BOVER – J. O’CALLAGHAN, Presentatión por C.M. MARTINI (BAC 400), Madrid 31994.

63 Nueva Biblia Española, traducción de los textos originales dirigida par L. ALONSO SCHÖKEL – J. MATEOS, Madrid 1975.

64 Das Neue Testament – Interlinearübersetzung Griechisch-Deutsch, Griechischer Text nach der Ausgabe von Nestle-Aland (26. Auflage) übersetzt von E. DIETZFELBINGER. Zweite, vom Übersetzer durch- gesehene Auflage, Neuhausen-Stuttgart 1987.

65 «Das Neue Testament unseres Herrn und Heilandes Jesus Christus», Revidierter Text 1956, in The Gideons International, hrsg. von der Genfer Bibelgesellschaft, Genf 81996.

66 Pismo ␣wi␣te. Starego i Novego Testamentu «Biblia Warszawsko-Praska», W przekładzie z j␣zyków oryginalnych opracował K. Romaniuk, Warszawa 1997. Nella nuova edizione (Pozna␣ 2002) leggiamo, inve- ce, una traduzione alquanto diversa: (*) «Zachowuję post dwa razy w tygodniu, daję dziesięcinę ze wszy- stkie-go, co nabywam». Da notare: pa,nta o[sa ktw/mai è tradotto «co nabywam», cioè «tutto ciò che acquisto o vado acquistando». Nabywam, infatti, è presente continuativo del verbo nabywa␣ (acquistare), come mi è stato spiegato dal dr. A. Demitrów, doctorandus al PIB, che qui desidero ringraziare.

67 Grecko-Polski Nowy Testament wydanie interlinearne zkodami gramatycznymi, tłumaczenie, Ks. R. POPOWSKI, M. Wojciechowski, Warszawa 1997.

68 Bíblia Sagrada, Petrópolis 1982. Una traduzione similare: (Vg) «Jejuo duas vezes por semana e pago o dízimo de tudo quanto possuo», cioè come la Vulgata, anche nella Nova Bíblia dos Capuchinhos ver- são dos textos originais, Lisboa/Fatima 1998. Altre due traduzioni: (?) «Eu faço jejum duas vezes por sema- na, e dou o dízimo de toda minha renda», da Bíblia Sagrada, Edição Pastoral, S. Paulo (Brasil) 1990; e (?) «Jejuo duas vezes por semana, pago o dízimo de todos os meus rendimentos», da A Bíblia de Jerusalém, Tra- duçao do texto em língua portuguesa direttamente dos originais, S. Paulo (Brasil) 1981, restano alquanto ambigue nella resa di ktw/mai.

69 A Bíblia. Traduçao Ecumênica [Nova edição revista e corrigido, TOB, Paris 31989], São Paulo

1995.

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M. DEL VERME – Annotatiuncula philologica atque historica

201

h) Slovacco

(*) «Postím sa dva razy do týždňa, dávam desiatsky zo všetkého, ␣čo získam»70

(Vg) «Postím se dvakrat na tedeu in desetino dajem od vsega, kar dobim».71 Luca 18,12:

Versione paleo-slavo (del 1581) – ucraino

72 «Digiuno due volte a settimana, do la decima di tutto ciò che acquisto».

«

Versione paleo-slavo – russo:

Versione ucraina:

.

« «Po]usÏ dva! kra/?;i v subo?/ u< desÏ?in/ u da[ vsego el¢ ik/ a pri?Ï!u».

«Po]us/ Ï dvakra/?;i v subb©!?u< desÏ?i/nu da[À vseg©À eli/k© pri?Ï!uÀ»

73

«Qpo]/  ́dvara/zinati"/ den;,da[/desÏti/n ́z ́sego,]opridba/[».

74

«Io digiuno due volte a settimana, do la decima di tutto ciò che acquisto». «

«

«Я пощу два рази на тиждень, даю десятину з усього, що придбаю».75 «Io digiuno due volte a settimana, do la decima di tutto ciò che acquisto».

«Пощу двічі на тиждень, з усіх моїх прибутків даю десятину».76

«Digiuno due volte a settimana, do la decima di tutti i miei acquisti». «

«

«

Versione russa: «Пощусь два раза вь недълю; даю десятую часть из всего, что пріобрътаю».77 «Digiuno due volte a settimana, do la decima parte di tutto ciò che acquisto».

« «

70 Biblia Slovenský – Ekumenický – Preklad s deuterokánonickými Knihami, Svornost’, a.s. (Slo- vacchia) 2007. La traduzione di pa,nta o[sa ktw/mai con «čo získam», che significa «tutto ciò che acquisto», ci è stata confermata dalla dr.ssa Bernadetta Joyko, doctoranda al PIB, che qui ringraziamo.

71 Sveto Pismo. Stare in Nove Zavese, Slovenski standardni prevod (SSP) iz izvirnih jezikov študij- ska izdaja, Ljubljana 2001.

1

772 Біблїа Снр7~ Кин´ гбі Ве´тхаго н Иоваго Завѣта‚ поязъі´кѹ Словеискѹ (Oпрацював та при-

готував до друку Роман Торконяк) (Oстрог 1581 – Львів 2006). Questa «Bibbia di Ostroh» (1580-1581) è il 1 (O"

((O"

primo libro stampato nell’alfabeto cirillico. La presente versione è bilingue: paleo-slavo e ucraino. Il verbo «прнмѧѫѹ» dal paleo-slavo è correttamente tradotto in ucraino come «придбаю», e significa «acquisto».

73 Господа Нашего Іисуса Христа Новый Завъть на Славянскомь и Рускомь Языкъ (Санкпетербур- гъ 61823). Questa è un’edizione bilingue: paleo-slavo e russo. Il verbo «прнмѧѫѹ» viene tradotto con «пріобръшаю» e significa «acquisto».

2 74 Свѧте Пнсьмо Господа Иашого Нсса Христа. Мовоіо Рсько країиськоіо (Відеиь 1904). 2

Il verbo «прндба´ю» significa «acquisto». 75 Свьяте Письмо Старого і Нового Завіту. Мовою Русько-Українською (Переклад П.О. Куліша,

І.С. Левіцького, І. Пулюя) (Віден␣ 1912). Il verbo «придбаю» significa «acquisto».

3

776 Святе Письмо Старого та Нового Завіту (Переклав Іван Хоменко та інші) (Рим 1963). Il signifi- cato dell’espressione «з усіх моїх прибутків» è «di tutti i miei acquisti».

77 Господа Нашего Іисуса Христа Новый Завъть (Лондонь 1869). Il verbo «пріобрътаю» significa «acquisto».

3

5 5

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Vangeli e tradizioni

202

«Пощусь два раза вь недълю; даю десятую часть изь всего, что пріобрътаю».78 «Digiuno due volte a settimana, do la decima di tutto ciò che acquisto».

Versione (antico) romena:

7

«Poste/sk de do/ÏÆ ©Ûri l s=pt=m!?n=: dau? ze!uÏ?l= din; toa? te k!?te birue/sk». «

79 «Digiuno due volte a settimana, do la decima di tutto ciò che guadagno».

«

«Postescŭ de douĕ orĭ în sĕptĕmǎnǎ, daŭ deciuélǎ din tóte câte posedŭ».80 «Digiuno due volte a settimana, do la decima di tutto ciò che possiedo».

«Digiuno due volte a settimana, do la decima di tutto ciò che guadagno». «Postesc de doĕ orĭ pe sĕptǎminǎ, dau zeciuial␣ din toate câte dobêndesc».82

81

«Постесku de duoь ор# лn ceптьm!nь; dau zec$uea%& din toate k!'e

k!wt`gu».

pe s" «Digiuno due volte a spettsi"mana, do la decima di tutto ciò che guadagno/acquisto».

«Postesc de douǎ ori în sǎptǎmânǎ; dau zeciuial␣ din toate câte am».83 pe s

«Digiuno due volte a settimana, do la decima di tutto ciò che possiedo».

« « (*) «Io digiuno due volte la settimana e pago le decime su tutto ciò che

La nostra traduzione acquisto».

«

Diamo alcune motivazioni di carattere strettamente filologico, che sosten- gono la nostra proposta – insieme a quella di pochi altri esegeti e traduttori del NT – di tradurre avpodekatw/ pa,nta o[sa ktw/mai con «pago le decime su tutto ciò che acquisto»; contrariamente alla Vulgata,84 che recita: «decimas do omnium

7

/

7

// 7 78 Священ/ныя Книги Ветхаго и Новаго Завъта (Въна 1908). Il verbo «пріобрътаю» significa «acqui- sto».

79 Biblia de la Blaj 1795 (Traducator Samuil Micu) (Blaj 1795 – Roma 42000). Questa ri-edizione della versione romena del 1795 usa i caratteri cirillici. Il verbo «бнрѹе´ск/biruiesc» significa «guadagno/

8 8 80 Noulu Testamentŭ alŭ Domnuluĭ şi Mĕntuitorului Nostru Iisus Christos. Corectatŭ Intocmaĭ dupǎ Textulŭ

vinco». 87

Originalŭ(Bucurescĭ 1863).Questaversione«corretta»traducecon«posedŭ». 81 Nou%u Tectam!ntu a%u Domnu%u$ w` ;!ntu`to<=u%u$ Noct<u Iicucu ><=?t5?u (Biena 1875). «кѫштігѹ» significa «guadagno/acquisto». I caratteri di questa versione in romeno del Nuovo

Testamento (più i Salmi), sono un misto di lettere latine, tardo paleo-slave e altre. 82 Sânta Scriptur␣ a Vechiului şi Noului Testament (Bucurescĭ 1910). Il verbo «dobêndesc» significa

«guadagno/acquisto» 83 Noul Testament al Domnului Nostru Isus Hristos. Scos pe Înţelesul Tuturor de Canonicul Dr. Ioan

8

8Bǎlan (Oradea- Mare 1925). L’espressione «din toate câte am» significa «di tutto ciò che ho/possiedo». Alcu- 8

ne traduzioni più recenti del Nuovo Testamento in romeno (del 1935, 1959, e altre) sembrano andare nella

8 8direzione di Girolamo.

84 Come si diceva (supra, nota 24), resta aperta la questione se la Vulgata per i vangeli traduca un manoscritto greco di Luca oppure sia una semplice scelta tra diverse lezioni di Luca (nel caso 18,12), atte- state in manoscritti latini del NT già noti a Girolamo e che erano quindi più antichi dei manoscritti greci a noi pervenuti.

8

pe s"

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quae possideo». Come si diceva, il testo della Vulgata ha influenzato poi alcune versioni antiche post-geronimiane, e continua a influenzare/condizionare (pur- troppo!) molte, se non la maggioranza, delle moderne traduzioni dal greco del NT, in particolare quelle italiane, come si è già visto (supra, a-g).

Il significato primario del greco kta,omai (tempo presente, modo indicati- vo) è «acquisto, guadagno, mi procuro, ricevo (qualcosa)» ma non «posseggo (qualcosa)», come è rilevabile sia dai dizionari del NT85 – così già nel greco classico86 – sia dai moderni sussidi di analisi filologica del NT,87 dei quali qual- cuno è consultabile oggi anche in rete.88 A meno che il verbo «possedere» non venga inteso con significato inclusivo, in riferimento cioè all’intero patrimonio compresi quindi «gli [i recenti] acquisti».

Altro motivo, che supporta e rafforza la nostra proposta di tradurre ktw/mai con «acquisto», è il probabile riferimento, testuale e contestuale, di Lc 18,12b a una halakhah giudaica circa le decime, che iniziava ad affermarsi già nel periodo neotestamentario. Non è casuale, infatti, che tutte le citazioni del NT circa le decime giudaiche89 facciano riferimento esplicito non alla legislazione biblica tout court, che valeva per tutti, ma a specifiche tradizioni halakhiche, osservate soltanto da pochi (singoli devoti o, più spesso, membri di gruppi particolari come i aˇvērîm delle aˇvûrôth [farisaiche]).

In breve, Luca, abbozzando un quadro realistico di due personaggi che sal- gono al tempio per la preghiera, ci consegna un dittico in chiaroscuro di un fari-

85 Cf., ad esempio, F. ZORELL, Lexicon Graecum Novi Testamenti, Parisiis 31961, s.v. «kta,omai», acqui- ro mihi quod possideam, comparo mihi; c. acc. rei L 18,12; e W.F. ARNDT – F.W. GINGRICH – F.W. DANKER, A Greek-English Lexicon of the New Testament and Other Early Christian Literature (A translation and adap- tation of Walter Bauer’s, Griechisch-Deutsches Wörterbuch zu den Schriften des Neuen Testaments und der übrigen urchristlichen Literatur, fifth revised and augmented edition, Berlin 1958), Chicago-London 1979, s.v. «kta,omai» procure for oneself, acquire, get; pa,nta o[sa ktw/mai my whole income Lk 18:12.

86 Cf. H.G. LIDDEL – R. SCOTT, A Greek-English Lexicon, A New Edition revised by H. STUART JONES – R. MCKENZIE and the co-operation of many scholars, with a Supplement edited by E.A. BARBER, Oxford 91968, s.v. «kta,omai:...»; e F. MONTANARI, Vocabolario della lingua greca, con la collaborazione di I. GAROFALO – D. MANETTI, progetto di N. MARINONE, Torino 1995 [8a rist.], s.v. «kta,omai» acquistarsi, procurarsi, conqui- starsi, guadagnarsi. Soltanto in pf. (con ppf. e ftp.) kta,omai potrebbe assumere il significato di possedere, avere, cioè dopo che qualcuno ha già acquistato qualcosa.

87 Ad esempio, ZERWICK, Graecitas Biblica Novi Testamenti, ad vers. Lc 18,12: kta,omai acquiro, com- paro mihi.

88 Cf. BibleWorks7, che chiarisce il significato di ktw/mai di Lk 18:12b: ktw/mai = 1st person from kta,omai, procure for oneself, acquire, get (Mt 10:9; Lk 18:12; 21:19; Ac 1:18; 8:20; 22:28; 1Th 4:4), con riferi- mento al dizionario di ARNDT – GINGRICH – DANKER, A Greek-English Lexicon.

89 Quattro sono i passi del NT – tre nei vangeli (Mt 23,23 [par. Lc 11,42] e Lc 18,12b), il quarto in Eb 7,1-10 – che accennano alle decime, e l’interesse degli autori cade principalmente non sulla legislazione biblica delle decime. In Eb 7,4 si accenna, certo, a una «decima del meglio del bottino» che Abramo offre a Melchisedek, ma al v. 9 leggiamo «... per così dire, nella persona di Abramo anche Levi, che riceve le deci- me, ha pagato le decime», e quindi il richiamo è alla prassi veterotestamentaria della decima destinata ai sacerdoti [Levi]. La decima del bottino (Eb) così come la lista degli ortaggi «decimati» dai farisei (Mt-Lc) riportano alcuni dettagli halakhici, probabilmente oggetto di discussioni tra le scuole giudaiche del tempo di Gesù e/o della redazione di Luca. Queste discussioni orali prepararono la strada alla dettagliatissima legi- slazione rabbinica sulle decime, che leggiamo nelle maśśekhôt (= trattati) della Mishnah-Tosefta. Per un’a- nalisi dettagliata di questo argomento, cf. DEL VERME, Giudaismo e Nuovo Testamento, in particolare Parte seconda, 2.1-5: «Le decime nel giudaismo del periodo tannaitico», 176-216 e 2.6: «Antichi ordinamenti cri- stiani e istituzioni giudaiche», 216-237.

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seo «devoto» contrapposto a un pubblicano «peccatore». Per l’assunto del pre- sente contributo a noi interessa in particolare la preghiera del fariseo, specifica- tamente la sua confessione di versare con diligenza e scrupolo le decime non sol- tanto sui «prodotti della terra» – com’era prescritto dalla tôrâ scritta – ma anche sugli «acquisti». Siffatta premura del fariseo corrispondeva ed era in linea con una halakhah orale, probabilmente già in vigore al tempo di Gesù e, con maggior certezza, quando Luca redige il suo vangelo. Su questa halakhah torneremo nel paragrafo seguente per chiarire la sua forza probante (cogente?) a sostegno della traduzione di Lc 18,12b, come da noi proposta.

3. VALORE «STORICO» DI LC 18,12

Come si diceva, il digiuno bisettimanale e il versamento delle decime sugli acquisti sono due tratti importanti con i quali Luca descrive la personalità del fariseo. I due specifici adempimenti religiosi, enunciati nella parabola gesuana e lucana (Lc 18,9-14a), autorizzano anche una ricerca storica circa il personaggio in azione, nel contesto vitale dei gruppi religiosi presenti e attivi nella Palestina del I secolo e.v.

Più in generale, si potrebbero addirittura auspicare – se non provare a scri- vere – dei Compendia rerum Novi Testamenti (et antiquarum Christianarum lit- terarum) ad res Judaicas pertinentia,90 a partire proprio dai numerosi brani neo- testamentari che fanno riferimento – come Lc 18,12 – a istituzioni giudaiche (ad es. il tempio di Gerusalemme e il suo personale, le offerte al tempio e ai suoi ministranti, le festività giudaiche, i gruppi le usanze e i costumi nella vita religio- sa e sociale della/e comunità palestinesi e della diaspora, ecc.), ma senza abban- donarsi a facili e decontestualizzate – perciò gratuite – letture storicizzanti del NT, come quelle che si possono leggere (non raramente, purtroppo!) in alcune opere, peraltro meritorie, come il (Strack H.L. –) Billerbeck P., Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch91 e altri sussidi,92 correntemente uti- lizzati dagli esegeti (e storici) del NT. Con vantaggi reciproci: per gli studiosi del NT e delle origini cristiane e per gli storici del giudaismo premishnico. Il quale confluirà, a partire dalla fine del II secolo e.v., in larga parte e in forma scritta, nella letteratura cosiddetta rabbinica. Si raggiungerebbe così un sorprendente

90 Riprendendo – ma invertendolo – litteraliter il titolo di una fortunata impresa scientifica ed edi- toriale degli ultimi decenni: Compendia rerum Iudaicarum ad Novum Testamentum (CRINT 1.2.3.), Assen 1974ss.

91 München 1922-1928, voll. I-IV, più i due volumi supplementari: Rabbinischer Index e Verzeichnis der Scriftgelehrten, Geographisches Register, hrsg. J. JEREMIAS in Verbindung mit K. ADOLPF, V-VI, München 1956-1961.

92 La stessa «riserva» testuale e storica, fatta per (STRACK –) BILLERBECK, va riferita anche nell’opera di G. FOOT MOORE, Judaism in the First Centuries of the Christian Era: The Age of the Tannaim, Cambridge, Mass. 1927-1930, I-III. Cf. DEL VERME, Giudaismo e Nuovo Testamento, 15-20 («Premessa»); G. VERMES, «Jewish Literature and New Testament Exegesis: Reflections on Methodology», in JJS 33(1982) [= Essays in Honour of Yigael Yadin, ed. by G. VERMES – J. NEUSNER], 361-376; e J. NEUSNER, «“Judaism” after Moore: A Programmatic Statement», in JJS 31(1980), 141-156.

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risultato: le fonti neotestamentarie e quelle giudaiche si chiarirebbero a vicenda per osmosi di luce nel confronto, rendendo meno problematica la fissazione della cronologia e la ricerca del significato originario di talune dottrine e istituzioni giudaiche, sulle quali siamo informati da entrambe le fonti, il NT e la posteriore letteratura rabbinica. Difatti non è infrequente il caso che fonti scritte giudaiche più recenti del NT – come la letteratura rabbinica in toto (cioè Mishnah, Tosef- ta, Talmud, Midrashim e i Targumim) – aiutino a scoprire il significato originario di taluni testi neotestamentari, fatta salva l’applicazione di un’adeguata metodo- logia che giustifichi l’uso del materiale giudaico (rabbinico) posteriore alla reda- zione del NT; e che il NT, a sua volta, permetta di fissare l’antichità di talune tra- dizioni rabbiniche, circa le quali mancano specifiche attestazioni nelle fonti pre- rabbiniche o ricorrono soltanto vaghi accenni/indizi,93 se non assoluto silenzio.

Torniamo a Lc 18,12b che proviamo a leggere sullo sfondo problematico del quesito circa l’«oggetto delle decime» com’era discusso e osservato nel giu- daismo del I secolo e.v. In realtà, già nel giudaismo del secondo tempio, le fonti bibliche e parabibliche (cf. ad es. Ne 10,38; Tb 1,6-7 [rec. lunga]; 2Cr 31,4-5 e Test. Levi 9,4) attestano che la primitiva legislazione biblica dei (tre) prodotti agrico- li tradizionali (grano, vino e olio) aveva cominciato a evolversi secondo una halakhah interpretativa della tôrâ, che tendeva ad ampliare la lista dei prodotti della terra sui quali gravava il pagamento delle decime. E alcuni passi del NT confermano questa tendenza, anzi si rivelano preziosi in sede storica per cono- scere la fase transitoria o intermedia delle discussioni halakhiche circa i singoli prodotti da sottoporre alla decima prima che si pervenisse alla norma generale, sancita nella Mishnah, che estende l’obbligo «su tutto ciò che serve come cibo (per l’uomo) e che può essere conservato (per l’alimentazione) e che cresce dalla terra» (mMa‘aś. 1,1).

I farisei e gli scribi (farisaici) del tempo di Gesù erano molto interessati al dibattito/quesito circa l’oggetto delle decime, e le loro opinioni furono determi- nanti per quei giudei che, come loro, obbedivano alla tôrâ secondo la halakhah corrente. Questa situazione è documentata, tra l’altro, dai due «guai» paralleli sulle decime, riportati nei sinottici (Mt 23,23 e Lc 11,42), che vedono i farisei e gli scribi (Mt) o i farisei soltanto (Lc) schierati per «la decima sulla menta, l’aneto e il cumino» (Mt) o «la menta, la ruta e ogni genere di erbaggi» (Lc). Queste liste non sono invenzione degli evangelisti, magari per gettare il ridicolo su un’istitu- zione alla quale apparivano legati soprattutto i farisei oppositori di Gesù, ma riflettono – a nostro avviso – reali discussioni halakhiche tra le scuole giudaiche su quesiti importanti nella vita delle comunità: fissare, cioè, per la corretta prati- ca religiosa come comportarsi nei casi concreti ai quali la tôrâ (scritta) non dava esplicite risposte.94

In questo peculiare contesto di discussioni halakhiche riguardanti l’ogget- to delle decime, in una fase ancora fluida tendente all’estensione della base

93 DEL VERME, Giudaismo e Nuovo Testamento, 18-19. 94 Cf. DEL VERME, Giudaismo e Nuovo Testamento, in particolare la Parte prima, 3.1-5, 34-113.

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impositiva, va inquadrata quindi l’affermazione di Lc 18,12b: avpodekatw/ pa,nta o[sa ktw/mai, che permette di individuare – tra le specifiche abitudini dei membri delle aˇvûrôth (farisaiche) del I secolo d.C. – la prassi (facoltativa) di pagare le decime non soltanto sui prodotti della terra già previsti nella tôrâ, ma su tutti i generi di consumo acquistati al mercato o in contrattazioni private.

Il valore «storico» di questo versetto lucano è duplice: oltre a documen- tare l’ampliamento dell’oggetto delle decime esteso dai prodotti agricoli a tutti gli acquisti, esso fa luce sulle preoccupazioni dei aˇvērîm di commerciare e con- sumare nella loro vita quotidiana soltanto prodotti «debitamente decimati». Anzi, la polarità delle due figure a confronto nel testo lucano, il fariseo e il pub- blicano, potrebbe rispecchiare e lumeggiare la situazione/questione storico- sociale e religiosa degli ‘ammê hā-’āres. vs. i aˇvērîm, che pare fosse già attiva nel giudaismo del secondo tempio anche se le fonti scritte che la documentano sono più tarde, non prima cioè della fine del II secolo d.C.95 Numerose, infatti, sono le alakhoth e le attestazioni rabbiniche inerenti al contrasto ‘ammê hā- ’āres. -aˇvērîm con puntuali, specifici riferimenti alle decime e alla purità ritua- le e alimentare. Queste norme sono state tramandate per lo più sotto il nome di maestri tannaitici della scuola di Usha in Galilea, del periodo cioè dopo la seconda rivolta giudaica contro Roma (132-135 d.C.) al tempo dell’imperatore Adriano, capeggiata da Šim’on ben Kosiba’,96 il Bar Kokhba’ delle fonti cri- stiane. I nomi dei rabbini più spesso citati provengono dalla cerchia dei grandi discepoli di R. ‘Aqiba.

La fase redazionale tarda delle fonti rabbiniche fu il motivo principale che portò A. Büchler97 a concludere 1) che il contrasto ‘ammê hā-’āres. -aˇvērîm testi-

95 Su questo argomento resta fondamentale la monografia di A. OPPENHEIMER, The ‘Am-Ha-Aretz. A Study in the Social History of the Jewish People in the Hellenistic-Roman Period (ArbLGHJ 8), Leiden 1977. 96 È questo il nome ebraico del capo della rivolta, chiamato il Principe di Israele (cf. Mur. 24B, 2- 6.21-22; 24C, 2-5.19-20; 24D, 20-21; 24E, 2-4.16-17) (P. BENOIT – J.T. MILIK – R. DE VAUX [edd.], Les Grottes de Murabba ‘ât [DJD II], Oxford 1961, 122-134). I testi di Murabba‘ât, rinvenuti cioè nelle grotte di Wadi Murabba‘ât vicino al Mar Morto, sono importantissimi per documentare l’osservanza delle decime anche in periodi con gravi disagi economici per la popolazione in guerra. Tra i documenti scoperti figurano, infatti, alcuni contratti di affitto agrario, scritti in ebraico su papiro, nei quali viene pattuito che il grano da pagare come canone di affitto ai !ysnrp (parnasin, ossia i leader della comunità e funzionari della riscossione delle decime, che venivano versate poi al tesoro di Stato) sia debitamente «decimato» prima della sua consegna all’amministratore del distretto. Si fa obbligo all’affittuario di prendere su di sé l’onere aggiuntivo di versa- re le decime religiose (Mur. 24B,15-17; 24C,13-16; 24E,10-13). Questa clausola contrattuale denota, in qual- che modo, anche la preoccupazione religiosa di Šim’on ben Kosiba’ di far rispettare il precetto biblico delle decime, ma lascia soprattutto intravedere che il pagamento delle decime sui prodotti agricoli non era scon- tato né indolore per gli affittuari di questo periodo. E questi furono i principali finanziatori della durissima

ma infelice lotta contro Roma. Altri particolari in DEL VERME, Giudaismo e Nuovo Testamento, 210-216. 97 Der galiläische ‘Am-ha-‘Ares des zweiten Jahrhunderts, Wien 1906 (rist. Hildesheim 1968). L’au- tore spiega la nascita del concetto di ‘am-hā-’āres. le-mis. wôth come conseguenza del trasferimento della lea- dership dalla Giudea alla Galilea, dopo la disfatta di Bar Kokhba’. I maestri di Usha, nello sforzo di rico- struire l’integrità religiosa della nazione giudaica, bollarono nel loro insegnamento con questo epiteto sprezzante gli abitanti della Galilea, che oltre a ignorare la tôrâ disattendevano in particolare l’osservanza delle decime e la purità rituale, due precetti (= mis. wôth) sui quali i aˇvērim giocavano invece la loro repu- tazione e affidabilità. Secondo l’autore ci furono due differenti concezioni dell’‘am-hā-’āres. : l’una, di carat- tere generale (= ‘am ha-’āres. la-tôrâh), usata in diversi periodi in riferimento alla mancanza di conoscenza della Legge e che riguardò anche la Giudea; l’altra, particolare (‘am-hā-’ āres. le-mis. wôth), che si riferisce

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monierebbe una realtà storica che ebbe specifici riflessi sulla vita religiosa e sociale delle comunità, 2) e che essa interessò il giudaismo del II secolo d.C. e fu peculiare della regione della Galilea.

Il «letto di Procuste»98 entro il quale Büchler ha forzato il problema ‘am- hā-’āres. -āvēr, avendolo circoscritto nel tempo (= II secolo e.v.) e nello spazio (= Galilea), viene criticato e rigettato da altri autori, che tendono ad anticipare la nascita del contrasto tra gli ‘ammê hā-’ āres. e i aˇvērîm al periodo prima del 70 d.C.,99 operando – a ragione, come riteniamo anche noi – nello studio della let- teratura rabbinica la dovuta distinzione tra il materiale e l’insegnamento tradi- zionali (che sono antichi) e la redazione scritta (che è posteriore). Siffatta ope- razione sui testi rabbinici, che potremmo definire formgeschichtliche impegnan- do cioè la terminologia e il metodo che gli esegeti applicano, da più decenni, nello studio del materiale neotestamentario, non è ancora entrata in una fase matura.100 Ma siamo convinti che in questa «nuova frontiera» degli studi (rabbi- nici), il confronto dei testi mishnici e post-mishnici con il NT possa agevolare tal- volta questo processo storico-critico nella lettura delle fonti rabbiniche, fornen- do cioè gli anelli mancanti per suturare l’insegnamento giudaico tradizionale (orale) con gli strati redazionali della Mishnah e di altri testi rabbinici, che sono più tardivi. Soprattutto quando il NT conferma l’insegnamento tradizionale orale riportando norme o istituzioni giudaiche molto antiche, come ad esempio l’istituto delle decime.101

Conseguentemente, i giudei osservanti che ubbidivano scrupolosamente ai singoli precetti della tôrâ e desideravano seguire la halakhah corrente che rego- lava le decime, si trovavano spesso nella condizione di dover limitare o perfino

esclusivamente al periodo di Usha e che fu circoscritta alla Galilea, tesa a stigmatizzare l’inadempienza dei precetti riguardanti i prodotti della terra e la purità rituale in quella regione.

98 Questa icastica espressione è di OPPENHEIMER, The ‘Am-Ha-Aretz, 5. L’autore, avendo studiato – convincentemente, a nostro modesto avviso – la storia del cosiddetto «popolo della terra» (=‘am ha-’ āres. ) nei suoi risvolti religiosi, sociali ed economici, conclude che per la nascita del concetto di am ha-’ āres. le- ma‘aserôth – che attiene alla contrapposizione tra ‘am ha-’ āres. e āvēr nello specifico delle decime – «non si possa andare prima del tempo degli Asmonei né dopo la distruzione del secondo tempio. Fu in quel perio- do che cominciarono a essere emanate halakoth miranti a limitare i contatti con gli ‘ammê ha-’ares. per timo- re di trasgressioni circa il tevel (= prodotti su cui sicuramente non erano state versate né le ma‘asrôth né le terûmôth). E le limitazioni riguardavano due aree in particolare: 1. i prodotti agricoli da sottoporre alle deci- me; 2. l’ospitalità in casa di un ‘am ha-’ āres. . Sul punto 1. gli ‘ammê ha-’ares. non erano affidabili, perché non versavano le decime; sul punto 2. esisteva il pericolo di contrarre impurità» (ivi, in particolare 75-76).

99 Il problema è alquanto complesso e per alcuni aspetti attende di essere risolto in modo definiti- vo. Cf., nel merito, il capitolo introduttivo di OPPENHEIMER, The ‘Am-Ha-Aretz, in particolare 1-18, dove ven- gono discusse le posizioni di vari studiosi.

100 Cf. H.L. STRACK – G. STEMBERGER, Einleitung in Talmud und Midrasch, 7. Völlig neu bearbeitete Auflage, München 1982, 59-64. Aperture per l’applicazione del metodo storico-critico ai testi rabbinici sono presenti in talune ricerche passate di J. Neusner (e della sua scuola), ma negli studi più recenti l’autore appa- re più cauto. Per una critica a queste ultime posizioni di J. Neusner, rinviamo alla sezione monografica di Henoch 31(2009)2, 247-283, dal titolo: «Jacob Neusner and the Scholarship on Ancient Judaism (ed. Yaron Z. Eliav)».

101 Come è noto, sembra che le scuole rabbiniche abbiano esercitato sulle precedenti istituzioni, quelle cioè attive prima del 70 d.C., riflessioni e dibattiti prevalentemente teorici, che finiscono per «vela- re» (i.e. coprire o nascondere) anziché «svelare» (chiarire) il ruolo effettivo che quelle istituzioni ebbero nella vita reale delle comunità giudaiche prima del 70 d.C.

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interrompere ogni relazione e lo scambio commerciale dei prodotti agricoli con gli ‘ammê hā-’ āres. , a meno che non provvedessero in proprio a «decimare» i prodotti acquistati, prima di servirsene nella vita di ogni giorno. Questa situazio- ne, nella quale molto probabilmente si trovava anche il fariseo della parabola lucana (e gesuana), creava una serie di problemi nella vita di ogni giorno, pro- blemi di non facile soluzione i cui risvolti pratici hanno lasciato traccia della loro meticolosità e difficoltà nell’osservanza in uno specifico trattato della Mishnah, cioè Demay.102

Questa situazione favorì la nascita di specifiche associazioni (aˇvûrôth) di devoti giudei, zelanti della Legge, appunto i aˇvērîm (lett. gli «associati»), che si impegnavano a osservare con particolare vigore e scrupolo, tra l’altro proprio i precetti delle decime (e la purità rituale), favorendo così tra gli associati l’uso e lo scambio solamente di prodotti debitamente e regolarmente «decimati».103

4. CONCLUSIONE

Il fariseo di Lc 18,12 è molto probabilmente un associato-āvēr, membro cioè di associazioni volontarie (avûrôth) che, come si è visto, erano scrupolose nel consumare solo prodotti debitamente «decimati», e nel dubbio si premura- vano essi stessi di versare la decima sui prodotti acquistati. Egli confessa di paga- re la decima su tutto ciò che acquista (v. 12b). La figura a lui contrapposta, il pub- blicano, apparterrebbe invece agli ‘ammê hā-’āres. (lett. popolo/gente della terra), che ignoravano la Legge ed erano negligenti sia nell’osservanza dei pre- cetti riguardanti i prodotti della terra sia la purità rituale (e alimentare): anche per questo essi venivano disprezzati e ritenuti peccatori dai giudei devoti, come il fariseo della parabola lucana.

Le caratteristiche del pubblicano e del fariseo sono da prendere in seria considerazione se si vuol condurre una ricerca storica attenta ai realia e alle isti- tuzioni ricordate nella parabola lucana (e gesuana) (Lc 18,9-14). A patto, però,

102 Demay è il termine tecnico per designare i «prodotti dubbiamente decimati».

103 Per queste associazioni di aˇvērîm, cf. OPPENHEIMER, The ‘Am-Ha-Aretz, 118-156. Le condizioni che regolavano l’ammissione dei soci, gli obblighi che i nuovi associati prendevano su di sé e le abitudini interne al gruppo danno il quadro di vere e proprie congregazioni religiose o ordini di vita fraterna. L’epo- ca di maggior floridezza e diffusione di queste aˇvûrôth sembra sia stato il periodo terminale del secondo tempio (ivi, 142ss). S.J. SPIRO, «Who Was the Haber? A New Approach to an Ancient Institution», in JStJud 11(1980), 186-216, insoddisfatto dei risultati conseguiti dai numerosi studiosi (tra gli altri, G. Foot Moore, C.G. Montefiore, S. Zeitlin, G. Alon, C. Rabin, J. Neusner e già prima il nostro Büchler) intervenuti sull’ar- gomento, ha sottoposto i testi rabbinici a nuovo esame. L’autore vedrebbe nello āvēr semplicemente «un funzionario ordinario della comunità connesso con la raccolta delle decime» (186) e quindi la ăvûrâh sarebbe, a suo avviso, «un consiglio di amministratori deputati alla raccolta delle sacre imposte (comprese le decime)». Questa tesi – sembrerebbe interessante e originale – non ha avuto molto ascolto né trovato seguito. A nostro avviso, essa non spiega adeguatamente molti testi dove lo āvēr viene esplicitamente con trapposto all’‘am hā-’āres. per motivazioni religiose (come, ad esempio, per la sua osservanza del precetto delle decime e della purità rituale). Tutto ciò porta a concludere che lo āvēr definisce un’identità nel senso di «un membro di un gruppo strettamente religioso». Questa è la tesi, comune tra gli studiosi, all’interno della quale le posizioni dei singoli autori si diversificano in più punti ma concordano sull’essenziale.

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M. DEL VERME – Annotatiuncula philologica atque historica

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che si accetti la nostra (insieme a pochi altri studiosi) proposta di tradurre Lc 18,12, così: «Io digiuno due volte la settimana e pago le decime su tutto ciò che acquisto». Questa traduzione è supportata sia dal greco: avpodekatw/ pa,nta o[sa ktw/mai, sia dalla Vetus latina: decimo omnia quaecumque adquiro (dei codd. d i q), sia dalla Vetus syra e dalla Peshitta:

.ana anqd (Peshitta, opp. ~dmLk nel Sinaiticus, Curetonianus e Harklense) ~dm Lk ana rs[mw

Qualche indizio a suo sostegno si può leggere anche in opere di Origene, Cipriano, Anfilochio d’Iconio e, soprattutto, di Epifanio di Salamina.

Annotiamo, in fine, con una certa non celata compiacenza che alcune moderne traduzioni del NT dal greco – purtroppo non in quelle (e numerose!) fatte in Italia negli ultimi due decenni – condividono la traduzione di Lc 18,12b, da noi riproposta in questo contributo ma che fu formulata la prima volta più di 25 anni fa.104

104 Cf. supra, nota 1.

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Marta e Pietro: l’economia di due confessioni GIUSEPPE GHIBERTI

Il dialogo tra Gesù e Marta, prima della risurrezione di Lazzaro, ha alcuni tratti caratteristici comuni con il dialogo tra Gesù e Pietro a Cesarea di Filippo. Il primo inizia con la decisione di Marta di andare incontro a Gesù, appena sa che questi si avvicinava (Gv 11,20), arrivando da quel luogo, «al di là del Gior- dano» (10,40), dove si era ritirato per sfuggire ai suoi avversari, e finisce con la battuta di Marta, che sconsiglia di togliere la pietra sepolcrale, e la risposta di Gesù, che l’assicura: «Se credi, vedrai la gloria di Dio» (11,40). Il secondo inizia con le domande rivolte da Gesù ai discepoli a Cesarea di Filippo (Mt 16,13) e finisce con le rimostranze di Pietro, a cui Gesù risponde chiamandolo «satana» (16,23), salvo a dire in continuità immediata che «alcuni tra i presenti non mor- ranno finché non vedranno il figlio dell’uomo venire nel suo regno» (16,28).

Elemento dominante e accomunante nelle due scene è la confessione di fede dei due interlocutori di Gesù: su. ei= o` cristo.j o` ui`o.j tou/ qeou/ tou/ zw/ntoj nella confessione di Pietro (Mt 16,16) e evgw.\ pepi,steuka o[ti su. ei= o` cristoo.j o` ui`o.j tou/ qeou/ o` eivj to.n ko,smon evrco,menoj nella risposta di Marta (Gv 11,27). Che si tratti di confessione di fede è evidente dal contesto, per Pietro (che risponde alla provocazione della domanda di Gesù: «Voi chi dite...»: 16,15), e dalla for- mula introduttoria della dichiarazione di Marta («Io ho creduto»: 11,27). Si trat- ta di introduzioni atipiche,1 ma nei nostri contesti indubitabili. I contenuti con- cordano nell’elemento centrale («Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio») e si discosta- no nelle aggiunte, di colore chiaramente redazionale: in Matteo il Dio della vita e in Giovanni il Figlio veniente nel mondo.

L’organizzazione del racconto presenta analogie di impostazione non meno grandi. In ambedue i casi l’interlocutore di Gesù giunge senza tentenna-

* Mi scuso con il caro, stimatissimo amico professor Cesare Marcheselli-Casale per questo esiguo contributo, che porta non più che un’intuizione, meritevole di ben altro sviluppo. L’affanno di questi ultimi tempi non mi ha permesso di offrire di più; possano queste scarne riflessioni esprimere l’augurio fraterno di un vecchio ammiratore.

1 Ai Dodici, in Matteo, di per sé non è domandato che cosa credano, ma dalla reazione di Gesù si deduce chiaramente che la risposta è interpretata come espressione di un autentico contenuto di fede. Nel dialogo giovanneo stupisce l’introduzione al perfetto (pepisteuka), che parla di un processo già avviato in passato e continuato al presente.

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Vangeli e tradizioni

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menti alla formulazione precisa della confessione, ma in ambedue i casi esso si dimostra incoerente nel trarre le conseguenze. Pietro non accetta l’interpreta- zione che Gesù dà della sua realtà e funzione messianica, meritandosi addirittu- ra il titolo di «satana»; Marta si attira il richiamo: «Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?». In ambedue i casi il racconto introduce uno stacco fra la confessione e il «rimprovero» (in Matteo Gesù riconosce l’origine divina della confessione di Pietro; in Giovanni interviene la venuta della sorella Maria e l’an- data di tutti al sepolcro), con l’effetto di rendere il contrasto forse meno duro, ma pur sempre evidente.

In Giovanni Marta esce di scena dopo aver preso l’iniziativa di andare a chiamare la sorella Maria, e poi si succedono vari protagonisti: Maria, i giudei e soprattutto Gesù, che giunge al sepolcro e comanda di togliere la pietra; Marta ridiventa interlocutrice dominante, opponendo un’obiezione che dovrebbe esse- re dirimente (al quarto giorno il cadavere è ormai inavvicinabile) e invece attira la risposta correttiva di Gesù. Ma c’è anche un sommesso rimprovero: ti avevo detto, ma tu hai dimenticato, non hai tratto le giuste conseguenze. Che cosa aveva detto Gesù? Che qualora alla sua parola si risponda con l’accettazione di fede, si vedrà la gloria di Dio. In realtà egli aveva parlato con Marta di risurre- zione e subito dopo opera il segno di far tornare in vita. Ne consegue che risur- rezione e gloria di Dio coincidono, a conferma di una delle componenti fonda- mentali della do,xa giovannea. Marta esce definitivamente di scena e la ritrovia- mo più tardi solo intenta a servire alla cena di Betania, con rilievo però molto inferiore a quello di Maria (12,1-8, con una dialettica che sembra ricreare la scena lucana: cf. Lc 10,38-42), e alla vicenda della sua fede non è più prestata attenzione.

In Matteo, dopo la scena di Cesarea, Gesù dà il primo annuncio delle vicende finali della sua vita; Pietro gli fa le sue rimostranze e Gesù gli rimprove- ra di essergli di ostacolo satanico, e gli comanda di mettersi nella posizione e nel- l’atteggiamento del discepolo (16,23).2 Poi il discorso di Gesù si allarga a tutti i discepoli, esplicitando le condizioni di quell’andare ovpi,sw mou che poco prima aveva chiesto a Pietro.3 Il v. 24 è un tripudio di vocabolario del discepolato: maqh- tai/j, ovpi,sw mou e`lqei/n, avkolouqe,w, e il discepolato è evidentemente la condizione di verifica dell’autenticità della fede. Alla fine giunge la dichiarazione che fra i presenti (dovrebbero essere i discepoli di cui ha parlato prima, che accettano la legge della sequela) qualcuno prima di morire «vedrà il Figlio dell’Uomo venire nel suo regno». C’è una possibile coincidenza tra il «vedere venire il Figlio del- l’Uomo nel suo regno» (Mt 16,28), dei discepoli, e il «vedere la gloria di Dio»

2 Cf. G. GHIBERTI, «“Vade retro, satana” (Mt 16,23; Mc 8,33): ripulsa o chiamata al discepolato?», in L. PADOVESE, Atti del VII simposio di Tarso su s. Paolo apostolo (1/3-7-2001) (Turchia: la Chiesa e la sua sto- ria XVI), Pontificio ateneo antoniano, Roma 2002, 115-129. A monsignor Luigi Padovese, animatore dei simposi di Tarso, perito in modo tragico nella sua amata diocesi turca, va un mesto ricordo.

3 La differenza del verbo (u`pa,gein per Pietro, e;rxesqai per i discepoli) si spiega per la diversa posi- zione locale dei destinatari, ma non altera il senso dell’azione.

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G. GHIBERTI – Marta e Pietro: l’economia di due confessioni

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(Gv 11,40: lo stesso verbo che in Matteo), di Marta, qualora si ammetta una pra- tica identità fra la fede richiesta a Marta («se credi») e le condizioni della seque- la poste ai discepoli (rinnegare se stesso, prendere la croce, perdere la propria vita). Si potrà dire che è un’identità non così ovvia, eppure è innegabile una stret- ta coincidenza tra la fede e le modalità di realizzazione della sequela (si veda l’uso del «come» e del «dove» – kaqw,j e o[pou – che segnano la realizzazione con- creta – secondo Giovanni – della fede nella vita).

La presenza di queste forti somiglianze nella dialettica di racconti tra loro tanto lontani porta a ipotizzare un convincimento comune a più di un filone del- l’insegnamento neotestamentario: non è sufficiente avere raggiunto un’esatta formulazione di fede per possedere una fede vitale o per essere discepolo a pieno titolo. La constatazione parrebbe ovvia ma non lo è. Non è infrequente udire anche oggi l’affermazione che la fede o è autentica e piena o non è.4 L’af- fermazione non risulta rispondente ai dati di fatto di alcune narrazioni evangeli- che. Una verifica mi pare offerta nel quarto vangelo dalla scena dei due discepoli al sepolcro. Gv 20,8 riferisce che «l’altro discepolo» alla vista della condizione del sepolcro (con i soli panni sepolcrali) «credette» (evpi,steusen). Aggiunge però anche che ouvde,pw ga.r h;|deisan th.n grafh,n, dove il piuccheperfetto di oi=da mi sem- bra da tradurre preferibilmente con l’imperfetto. Infatti il v. 10, immediatamente successivo, suggerisce che l’esperienza avuta al sepolcro non produsse l’effetto adeguato di stimolare l’annuncio della fede conquistata ad altri (come farà la Maddalena): ambedue i discepoli se ne tornarono di nuovo a casa senza dare testimonianza. La visione del sepolcro vuoto col suo contenuto dei panni sepol- crali non era stata sufficiente per far comprendere la Scrittura, e la perfezione verrà solo all’incontro con Gesù.5 Se queste constatazioni sono interpretate esat- tamente, si deve concludere che al sepolcro uno dei due discepoli ha avuto un’i- niziale adesione di fede, ma il cammino verso la fede ha avuto il suo compimento per lui e per tutti con l’apparizione di Gesù: così fu per la Maddalena (20,16) e così fu pure per tutti i discepoli, la sera di quello stesso giorno (20,20.28).

Una qualche somiglianza è rinvenibile ancora nel quarto vangelo alla fine del ministero pubblico, quando degli stessi capi (evk tw/n avrco,ntwn) si dice che «molti credettero (evpi,steusan) in lui, ma non lo riconoscevano apertamente [lett. “non lo confessavano”] a causa dei farisei, per non essere espulsi dalla sinagoga» (12,42). Ma la somiglianza con i casi iniziali è meno stretta. Tuttavia è data con- ferma di un principio non trascurabile: il cammino della fede richiede la lotta contro ogni illusione di risultato interlocutorio, perché la conferma non è mai frutto di una conclusione umana.

4 Particolarmente determinato su questa posizione era un valido maestro come I. de la Potterie. Ricordando le discussioni di allora (che non giunsero mai a una conclusione concordante), mando anche a lui un ricordo pieno di riconoscenza.

5 L’interpretazione invece che parte dalla traduzione col piuccheperfetto farebbe pensare che i panni sepolcrali supplirono all’assenza di conoscenza della Scrittura e che, quindi, alla loro constatazione il discepolo amato giunse alla piena conoscenza della Scrittura stessa. Non si comprende però perché allora ambedue i discepoli siano tornati a casa senza trarre nessuna conseguenza dall’esperienza avuta.

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Parte Seconda Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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Da persecutore ad apostolo: le ragioni di una scelta

ALESSANDRO SACCHI

L’apostolo Paolo è il meglio conosciuto fra i primi predicatori cristiani, a motivo delle notizie che ne dà Luca negli Atti degli apostoli e soprattutto di quanto egli stesso riferisce nelle sue lettere autentiche. Restano però numerosi punti oscuri, non ultimo quello dei motivi che hanno determinato la sua attività di persecutore e la successiva adesione al cristianesimo. Secondo Luca la vicen- da di Paolo si ricollega strettamente a quella di Stefano. Si può quindi supporre che egli reagisse nei confronti non del nascente movimento cristiano in quanto tale, ma di una sua forma specifica, quella cioè rappresentata da Stefano e dai suoi compagni, alla quale egli avrebbe successivamente aderito. Ma è difficile stabilire per quale motivo Stefano sia stato ucciso. Paolo stesso, quando parla della propria attività di persecutore e della successiva adesione al cristianesimo, è molto vago circa le ragioni di queste scelte e tende a interpretare i suoi ricordi in funzione di problematiche sviluppatesi successivamente.

Informazioni più attendibili si possono invece ricavare dalla prima predi- cazione di Paolo, supponendo che egli abbia fatto leva proprio su quei temi che lo avevano spinto a contestare il movimento cristiano e poi ad aderire a esso. Ora la forma più arcaica della sua predicazione è contenuta nella prima lettera da lui inviata alla comunità di Tessalonica. Ciò che colpisce in questo scritto è l’orien- tamento fortemente apocalittico che lo pervade. È dunque legittimo porsi la domanda se questo avesse a che fare con la sua attività di persecutore e poi con la sua decisione di diventare cristiano. Prima di rispondere a questa domanda è opportuno ricordare alcuni aspetti fondamentali dell’apocalittica giudaica. In seguito si esaminerà sotto questa luce la 1 Tessalonicesi e infine si confronterà il messaggio in essa contenuto con le testimonianze degli Atti degli apostoli e di Paolo stesso nelle sue lettere autentiche.

1. L’APOCALITTICA GIUDAICA

L’apocalittica era un genere letterario e al tempo stesso un movimento di idee molto diffuso nel mondo giudaico al tempo delle origini cristiane.1 Le idee

1 Cf. in proposito D.S. RUSSEL, L’apocalittica giudaica (Biblioteca teologica 23), Paideia, Brescia 1991.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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apocalittiche non erano proprie di un gruppo particolare fra quelli che compo- nevano il giudaismo dell’epoca, ma erano diffuse in tutti gli strati della popola- zione. Nel canone biblico questa corrente di pensiero è rappresentata solo dal libro di Daniele e dall’Apocalisse di Giovanni (dalla quale deriva il nome stesso di «apocalisse»), ma le attese apocalittiche sono presenti in diversi altri libri, sia del Primo che del Nuovo Testamento. Numerosi sono invece gli scritti di orien- tamento apocalittico nella letteratura giudaica del secolo che precede e di quel- lo che segue la nascita di Cristo.2

L’apocalittica è nata in tempi di crisi politica e religiosa, quando la pres- sione delle potenze che dominavano sul territorio di Giuda era diventata tale da non essere più facilmente tollerabile. È allora che si fa strada l’attesa di un inter- vento risolutivo di Dio nella storia, che avrebbe comportato la distruzione di questo mondo malvagio, e in modo più specifico dei regni oppressori. A essa avrebbe fatto seguito l’instaurazione del regno di Dio. Un aspetto caratteristico delle diverse attese apocalittiche è il carattere di imminenza della fine. Molto presto la potenza di Dio avrebbe fatto irruzione nella storia direttamente o tra- mite un suo inviato, e avrebbe fatto giustizia ai poveri e agli oppressi.3 Agli inizi dell’era cristiana la grande potenza che si opponeva al regno di Dio era identifi- cata con l’impero romano, che dominava in gran parte del mondo allora cono- sciuto. Quindi era scontato che l’intervento escatologico di Dio ne avrebbe com- portato la distruzione.

L’apocalittica non era un movimento di per sé violento. Una delle idee dominanti era infatti quella secondo cui il potere, anche quello dei re stranieri, deriva da Dio, come a Dio era attribuito il ribaltamento finale della situazione e l’instaurazione del suo regno.4 Questa convinzione provocava nella maggior parte della popolazione un atteggiamento di sopportazione e di pazienza. Non mancavano però coloro che pensavano di poter affrettare in qualche modo l’in- tervento divino con una resistenza passiva o con l’aperta ribellione. Assertore di questa tendenza era stato Giuda il Galileo, al tempo del censimento di Quirinio nel 6 d.C., il quale aveva dato origine a quella che Giuseppe Flavio chiama la «quarta filosofia». Responsabili di questa scelta erano quelli che lo stesso Giu- seppe chiama «briganti» (lestai) o «sicari» e soprattutto, durante la guerra giu- daica, gli zeloti.5 È indiscutibile però che le concezioni apocalittiche costituisse- ro l’humus ideale per iniziative di agitazione sociale e politica i cui esiti poteva- no essere imprevedibili.

2 Cf. J.M. ASURMENDI, «Daniele e l’apocalittica», in J.M. SÁNCHEZ CARO (ed.), Storia, narrativa, apo- calittica (Introduzione allo studio della Bibbia 3/2), Paideia, Brescia 2003, 377-428; P. SACCHI, L’apocalittica giudaica e la sua storia (Biblioteca di cultura religiosa 55), Paideia, Brescia 1990.

3 Cf. RUSSEL, L’apocalittica giudaica, 325-349.

4 Cf. ad esempio, a proposito di Daniele e del Libro dei sogni, G. BOCCACCINI, Il medio giudaismo. Per una storia del pensiero giudaico tra il terzo secolo a.e.v. e il secondo secolo e.v., Marietti, Genova 1993, 102-110. 5 Sulla storia di questo gruppo cf. l’opera classica di M. HENGEL, Gli zeloti. Ricerche sul movimento di liberazione giudaico dai tempi di Erode I al 70 d.C. (Biblioteca di storia e storiografia dei tempi biblici 11), Paideia, Brescia 1996 (or. ted. 21976). Sul rapporto tra apocalittica e resistenza nella Giudea occupata

dai romani cf. N. ELLIOTT, Liberare Paolo. L’impero e il sogno dell’apostolo, EMI, Bologna 2005, 208-221.

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A. SACCHI – Da persecutore ad apostolo: le ragioni di una scelta

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L’apocalittica esercitava il suo influsso anche al di fuori della Giudea. La situazione della diaspora giudaica era normalmente abbastanza precaria, con aspetti di chiusura nei confronti della società circostante e al tempo stesso con la rivendicazione di diritti e di privilegi. Da qui gli scontri e le ritorsioni cruente che mettevano a dura prova gli equilibri tra il gruppo giudaico e il resto della popo- lazione.6 A questa situazione non era certo estranea la penetrazione delle idee e delle attese apocalittiche, come risulta per esempio dalle dichiarazioni contenu- te nel V libro degli Oracoli sibillini.7

Fra i diversi gruppi che componevano il quadro variegato del giudaismo al tempo di Cristo, i farisei si caratterizzavano, secondo Giuseppe Flavio, per la loro adesione alla «tradizione dei padri», cioè a «particolari statuti che non sono pre- scritti nelle leggi di Mosè» (Ant. giud. 13,297-298).8 Essi condividevano le attese apocalittiche riguardanti la fine del mondo e l’instaurazione del regno di Dio, ma affermavano, rifacendosi probabilmente all’insegnamento tradizionale, che nel frattempo Dio esercitava la sua sovranità attraverso dominatori stranieri. Il potere romano quindi poteva e doveva essere accettato come segno di sottomis- sione a Dio, mentre la ribellione nei suoi confronti era considerata come una rot- tura di quella che era stata fino ad allora la tradizione dei padri.9 Perciò i farisei si opponevano a qualunque movimento di ribellione politica, che poteva trasfor- marsi in una catastrofe irrimediabile per il popolo giudaico, sia in Giudea che nella diaspora. In questo essi erano d’accordo con la classe sacerdotale, che per ovvi motivi intratteneva buoni rapporti con il potere romano.

2. PAOLO PREDICATORE APOCALITTICO

Dopo la sua adesione al cristianesimo, Paolo si è subito dedicato a un’inten- sa attività di predicazione del vangelo. Si può supporre che in essa abbia sottoli- neato proprio le intuizioni che lo avevano spinto a fare quel passo decisivo. La forma più arcaica della predicazione paolina si trova nella 1 Tessalonicesi, che Paolo inviò da Corinto circa una quindicina d’anni dopo l’esperienza di Damasco. Ora proprio questa lettera è pervasa dall’attesa del ritorno imminente del Signore con un’intensità che non sarà più la stessa negli scritti successivi. Esamineremo anzitutto i testi in essa contenuti che rivelano questo orientamento. Ci chiederemo poi, con l’aiuto anche degli Atti degli apostoli, se non fosse proprio questa tensio- ne apocalittica la causa delle persecuzioni di cui Paolo è stato fatto oggetto.

6 Per la situazione del giudaismo della diaspora si veda E. SCHÜRER, Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo (175 a.C. – 135 d.C.), 3 voll., Paideia, Brescia 1985-1998, III/1, 31-244; B. WANDER, Timo- rati di Dio e simpatizzanti. Studio sull’ambiente pagano delle sinagoghe della diaspora, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002, 35-58.

7 Cf. P. CAPELLI, «Oracoli sibillini. Libro V», in P. SACCHI (ed.), Apocrifi dell’Antico Testamento, Pai- deia, Brescia 1999, III, 487-535.

8 Cf. G. STEMBERGER, Farisei, sadducei, esseni (Studi biblici 105), Paideia, Brescia 1993, 112-120.

9 Circa le idee politiche dei farisei cf. ELLIOTT, Liberare Paolo, 221-232; M. HENGEL, Il Paolo precri- stiano (Studi biblici 100), Paideia, Brescia 1992, 116-123.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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1.1. La prima predicazione di Paolo

Nella sua lettera più antica Paolo riveste espressamente i panni del predica- tore apocalittico.10 Al centro del suo annunzio egli mette l’adorazione del vero Dio, con la quale va di pari passo l’attesa del suo Figlio Gesù. Nel ringraziamento iniziale Paolo fa memoria della «costante speranza» (tēs hypomonēs tēs elpidos) che i tessalonicesi ripongono nel nostro Signore Gesù Cristo (1Ts 1,3). Alla luce dei riferimenti successivi, risulta che questa speranza ha come oggetto il ritorno del Signore (cf. 1Cor 16,22). Infatti essi hanno abbandonato gli idoli per servire al Dio vivo e vero e «aspettare» (anamenein) dai cieli il suo Figlio, che ha risuscitato dai morti, Gesù, che ci «libera» (hryomenos, al presente) «dall’ira che viene» (ek tēs orgēs tēs erchomenēs, al presente) (1Ts 1,10). Dall’uso dei tempi appare che l’azio- ne liberatrice di Cristo si sta attuando già ora, in quanto l’ira sta già venendo.

Paolo inoltre scongiura i tessalonicesi di comportarsi in maniera degna di quel Dio «che li chiama» (kalountos, al presente) al suo regno e alla sua gloria (2,12). Anche qui il riferimento è a un evento ormai imminente. Parlando dei giu- dei che ostacolano la sua predicazione ai gentili, Paolo afferma: «Essi hanno col- mato [anaplērōsai, all’aoristo] la misura dei loro peccati». E conclude che «ormai l’ira è arrivata [efthasen, all’aoristo] al colmo sul loro capo» (2,16). I tessalonice- si sono la corona di cui Paolo può vantarsi davanti al Signore Gesù «nella sua parusia» (2,19). Egli prega perché i tessalonicesi siano resi irreprensibili davanti a Dio Padre nostro, «nella parusia» del Signore nostro Gesù (3,13). È possibile che l’invito a lavorare con le proprie mani (4,11) avesse lo scopo di richiamare coloro che, prendendo alla lettera il suo insegnamento sulla fine imminente, ave- vano abbandonato le normali occupazioni.

Nella seconda parte della lettera, quella cioè in cui dà la sua risposta ai quesiti che gli erano stati proposti, Paolo affronta esplicitamente il tema della seconda venuta di Cristo (1Ts 4,13-18). Da quanto egli afferma, si deduce che i dubbi dei tessalonicesi riguardavano non tanto la risurrezione dei defunti in genere, quanto piuttosto la situazione di coloro che erano morti prima del ritor- no di Gesù.11 Paolo aveva annunziato l’imminenza dell’evento finale, presentan- dolo come il momento della salvezza piena e definitiva. È possibile che i tessa- lonicesi si fossero fatti l’idea che al momento della parusia tutti coloro che ave- vano aderito alla sua predicazione sarebbero stati ancora in vita. Invece alcuni di loro erano morti. Sorgeva quindi la domanda se costoro non fossero in qualche modo privati della salvezza che avevano sperato diventando cristiani. Paolo risponde che i defunti non saranno svantaggiati perché risorgeranno per primi e andranno incontro al Signore insieme a coloro che saranno ancora in vita. Egli

10 Cf. B. CORSANI, L’Apocalisse e l’apocalittica del Nuovo Testamento (La Bibbia nella storia 14), EDB, Bologna 1997, 91-119; A.F. SEGAL, Paul the Convert. The Apostolate and Apostasy of Saul the Phari- see, Yale University Press, New Haven-London 1990, 161-166; J. BECKER, Paolo l’apostolo dei popoli, Queri- niana, Brescia 1996, 144-149.

11 Per una ricostruzione degli interrogativi posti dai tessalonicesi cf. G. BARBAGLIO, La teologia di Paolo. Abbozzi in forma epistolare, EDB, Bologna 1999, 39-49

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inoltre fa comprendere, mediante l’uso della prima persona plurale, che è sua convinzione di trovarsi fra costoro (cf. 4,17). Paolo insiste poi sul carattere improvviso del ritorno del Signore (5,2-3). Raccomandando ai tessalonicesi di essere preparati, sottolinea come essi non siano destinati alla collera, ma all’ac- quisto della salvezza (5,9). E infine prega Dio perché essi si conservino irrepren- sibili «per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo» (5,23).

Da questi riferimenti appare fino a che punto fosse centrale nella prima predicazione paolina il tema dell’imminente ritorno del Signore. Questa con- vinzione riappare, anche se con minore intensità, nelle lettere successive.12 Nella 1 Corinzi, affrontando il tema della risurrezione finale, Paolo afferma che «il tempo si è fatto breve» (7,29) ed esprime nuovamente la convinzione secondo cui egli sarà ancora in vita al momento del ritorno di Gesù (cf. 1Cor 15,51-52). In 2 Corinzi egli esprime il desiderio di non essere svestito del suo corpo terreno, ma di essere sopravvestito, affinché ciò che è mortale venga ingoiato nella vita (2Cor 5,4). Subito dopo riprende il tema apocalittico del tribunale di Cristo, dinanzi al quale tutti dovremo presentarci (2Cor 5,10). In Filippesi l’esortazione alla gioia è motivata dall’affermazione: «Il Signore è vicino» (Fil 4,5b). Persino nella sua ultima lettera è presente l’attesa di un ritorno imminente di Gesù (cf. Rm 8,23; 13,11-12). Nella liturgia delle comunità paoline questa attesa era espressa mediante la preghiera maranatha (1Cor 16,22), che significa «vieni, o Signore»: è probabile che da essa derivi l’appellativo di Signore attribuito a Gesù in quanto «messia», ossia re del nuovo mondo che molto presto avrebbe instau- rato. Si può dunque concludere «che il tema del ritorno o della nuova venuta di Cristo avesse una posizione di rilievo nella predicazione di Paolo durante la prima fase della sua attività missionaria nell’ambito egeo».13

Che questo fosse davvero il centro della sua predicazione lo riconosce anche Luca, il quale riferisce, al termine del discorso dell’Areopago, che l’invito alla con- versione era così motivato: «... perché [Dio] ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo che egli ha designato, dan- done a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti» (At 17,31). È vero che subito dopo Luca attribuisce il rifiuto degli ateniesi alla loro diffidenza nei confronti della risurrezione di Cristo: ma non si dimentichi che nel discorso la risurrezione è la premessa del suo ritorno, non certo rimandato a un futuro indeterminato.

1.2. La persecuzione nei confronti di Paolo

Nelle sue lettere, Paolo ricorda a più riprese la persecuzione di cui è stato fatto oggetto a causa della sua predicazione. Egli ricorda che subito dopo la sua adesione al cristianesimo ha dovuto lasciare precipitosamente Damasco a causa

12 Cf. J.D.G. DUNN, La teologia dell’apostolo Paolo (Introduzione allo studio della Bibbia – Suppl. 5), Paideia, Brescia 1999, 301-312.

13 Cf. DUNN, La teologia dell’apostolo Paolo, 309.

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non, come afferma Luca (cf. At 9,23), di contrasti con i giudei, ma per un inter- vento del governatore del re Areta (2Cor 11,32), il quale era mosso da motivi non certo religiosi ma politici. Tra le sofferenze subite per il vangelo Paolo cita le persecuzioni (cf. 1Cor 4,12; 2Cor 4,8; Rm 8,35). A Efeso ha combattuto contro le belve (1Cor 15,32). Sempre a Efeso gli è stata inflitta una condanna a morte (2Cor 1,9-10). Cinque volte dai giudei ha ricevuto i 40 colpi meno uno, tre volte è stato battuto con le verghe, una volta è stato lapidato (2Cor 11,24-25): mentre i 39 colpi e la lapidazione erano punizioni giudaiche (cf. Dt 25,2-3; Nm 15,35), il battere con le verghe era un supplizio romano. Egli inoltre afferma di aver subi- to numerose prigionie (2Cor 11,23), alcune delle quali sono attestate nelle sue lettere autentiche (cf. Fil 1,12-14; Fm 9). Infine Paolo ricorda anche le persecu- zioni di cui erano stati fatti oggetto i neoconvertiti, sottolineando che erano le stesse subite dalle comunità della Giudea e da lui stesso da parte dei giudei che volevano impedirgli di predicare ai gentili (1Ts 2,14-16).

Anche Luca, negli Atti degli apostoli, ricorda diversi episodi di persecu- zione nei confronti di Paolo, dei quali attribuisce la responsabilità soprattutto ai giudei. A Damasco la sua predicazione suscita violente reazioni da parte dei giu- dei in quanto egli annunzia Gesù come Figlio di Dio e come Cristo (At 9,19.22). Successivamente a Gerusalemme provoca la stessa reazione «parlando aperta- mente nel nome del Signore» (9,28). È strano che una reazione analoga non si sia verificata nei confronti della locale comunità cristiana, che si suppone condi- videsse lo stesso messaggio annunziato da Paolo.

Durante il primo viaggio missionario, le ostilità dei giudei nei suoi con- fronti si fanno sentire in tutte le città da lui visitate e a Listra giungono al punto da causare la sua lapidazione (cf. At 14,19). Nel suo secondo viaggio, a Filippi Paolo è deferito all’autorità romana con l’accusa di predicare usanze che ai romani non è lecito accogliere né praticare e, in seguito a ciò, è incarcerato ma alla fine viene del tutto scagionato (At 16,20-21.35). A Tessalonica un cristiano di nome Giasone è arrestato per avere ospitato a casa sua Paolo e Sila, due per- sone che mettono il mondo in agitazione in quanto vanno «contro i decreti di Cesare, affermando che c’è un altro re, Gesù», ma i magistrati lo mettono in libertà dietro pagamento di una cauzione (cf. At 17,7-9). A Corinto Paolo è denunziato a Gallione con l’accusa di spingere la gente a «rendere un culto a Dio in modo contrario alla legge», ma anche questa volta senza conseguenze penali (cf. At 18,12-16). A Gerusalemme Paolo è arrestato dietro istigazione dei giudei, i quali lo accusano dicendo che «va insegnando a tutti e dovunque contro il popolo, contro la legge e contro questo luogo» (At 21,28):14 è la stessa accusa sol- levata contro Stefano, di cui Luca a suo tempo aveva dichiarato la falsità (cf. At 6,13). Infine l’apostolo è inviato a Roma per essere giudicato dall’imperatore.

14 Poco prima Giacomo aveva fatto sapere a Paolo che era accusato di incitare tutti i giudei sparsi fra i gentili ad abbandonare (la legge di) Mosè, dicendo di non circoncidere più i loro figli e di non seguire più le loro consuetudini (At 21,21). Che si trattasse di un’accusa falsa appare dalla testimonianza dello stes- so apostolo (cf. 1Cor 9, 20).

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Secondo Luca ciò è avvenuto sebbene egli fosse stato riconosciuto innocente dai procuratori della Palestina Felice e Festo (cf. At 23,29; 25,24-27; 26,30-32). Ma è difficile immaginare che sia stato inviato a Roma senza un’accusa specifica. Al contrario i capi d’accusa nei suoi confronti dovevano essere molto pesanti e con ogni probabilità, dopo i due anni trascorsi a Roma in libertà vigilata (At 28,30), è stato condannato a morte.15

Il tema della persecuzione nei confronti di Paolo appare dunque frequen- temente sia negli Atti che nelle sue lettere, ma il motivo che l’ha provocata non è detto espressamente. Non è pensabile che essa sia stata determinata unica- mente dalla proclamazione di Gesù come Figlio di Dio, Messia e Signore. L’uni- ca ragione plausibile si può trovare nell’annunzio dell’imminente ritorno di Gesù che costituiva, come appare dalle sue lettere, il nucleo centrale della sua predicazione. Questo messaggio aveva una connotazione fortemente eversiva nei confronti delle autorità politiche, in quanto non soltanto delegittimava l’im- pero, ma ne annunziava la prossima distruzione. È vero che Paolo non sponso- rizzava una rivolta armata, ma il suo annunzio era ugualmente pericoloso soprattutto perché il rivolgimento cosmico era attribuito a un personaggio pre- ciso, il Signore Gesù, che sarebbe venuto in tempi molto ristretti. Questo annun- zio poteva suscitare forti reazioni anche da parte dei responsabili della comunità giudaica, preoccupati di contenere la febbre apocalittica che rischiava di travol- gerla. È comprensibile che Paolo, scrivendo a comunità che erano al corrente dei fatti, si sia limitato a semplici accenni. Per quanto riguarda Luca, si può suppor- re invece che abbia nascosto di proposito il carattere fortemente apocalittico della predicazione di Paolo perché al suo tempo la parusia di Cristo non rivesti- va più quel carattere di imminenza che aveva avuto precedentemente. Per lui la parusia è diventata una realtà futura, che si pone ormai al di là dell’ottica della sua generazione.16

La prospettiva apocalittica era una caratteristica specifica del movimento cristiano prima ancora che Paolo aderisse a esso. Possiamo quindi domandarci se essa avesse qualcosa a che fare con il fatto che egli precedentemente era stato un persecutore della Chiesa.

2. IL PAOLO PRECRISTIANO

Il fatto che Paolo abbia perseguitato la Chiesa è affermato a più riprese negli Atti degli apostoli e trova conferma nell’epistolario paolino. Non sono chia- ri però i motivi che lo hanno spinto ad assumere questo ruolo. La maggior parte

15 Nella sua opera Luca cerca di mettere in buona luce l’atteggiamento delle autorità romane nei confronti dei cristiani. È possibile che sia questo uno dei motivi per cui egli ha taciuto la morte di Paolo, avvenuta probabilmente a seguito di una condanna emessa dal tribunale imperiale.

16 Il tentativo di dare una spiegazione teologica del ritardo della parusia è certo uno dei motivi, anche se non l’unico, che hanno spinto Luca a scrivere gli Atti degli apostoli. Si veda in proposito H. CON- ZELMANN, Il centro del tempo. La teologia di Luca, Piemme, Casale Monferrato 1996, 103-146 (or. ted. 1954).

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degli studiosi sostiene che Paolo fosse mosso dallo zelo per la Legge mosaica che i primi cristiani, specialmente quelli che aderivano al movimento di Stefano, avrebbero messo in discussione.17 È invece più probabile, alla luce di quanto Paolo stesso afferma nelle sue lettere e quanto riferisce Luca negli Atti degli apostoli, che la vera ragione sia stata proprio la sua avversione alla prospettiva apocalittica del cristianesimo nascente, la stessa da lui così fortemente sostenuta dopo la sua adesione a esso.18

2.1. La testimonianza dell’apostolo

Paolo descrive il suo comportamento nel giudaismo in un passo, nel quale si vanta di essere un giudeo purosangue, fariseo quanto alla Legge, così zelante da perseguitare la Chiesa, irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’os- servanza della Legge, ma di avere abbandonato tutte queste cose per ottenere la giustizia basata sulla fede (Fil 3,5-9). In questo testo, composto già nel contesto della polemica contro i giudaizzanti, è spontaneo collegare il suo zelo di perse- cutore con la ricerca di una giustizia derivante dall’osservanza della Legge. Ma non è così: un conto è l’osservanza della Legge, che egli fa risalire al suo farisei- smo, e un conto è la sua attività di persecutore, causata dal suo zelo.

In che cosa consistesse questo zelo, Paolo lo precisa in un altro testo, dove afferma di avere perseguitato e devastato la Chiesa di Dio, superando nel giu- daismo la maggior parte dei suoi coetanei e connazionali, essendo in sommo grado uno «zelante sostenitore delle tradizioni dei padri» (Gal 1,13-14). È quin- di lo zelo per le tradizioni paterne che ha provocato la sua attività di persecuto- re. Hengel spiega che «si tratta dello zelo per la Legge disegnato sul modello di Pinhas (Nm 25) ed Elia (1Re 18), che dal tempo dei Maccabei era divenuto in particolar modo l’ideale dei gruppi religiosi radicali». E ne deduce che Paolo per- seguitava la Chiesa, o almeno il movimento di Stefano, perché aveva abbando- nato la pratica della Legge.19

Questa interpretazione, suggerita dal contesto della Lettera ai Galati, è priva di fondamento. Non risulta infatti che nell’ambito del cristianesimo nascen- te si fosse verificato un distacco generalizzato dalla pratica della Legge, anzi è vero il contrario: ad Antiochia la polemica di Paolo è rivolta non contro i cristiani giudaizzanti, che erano rimasti fedeli alla circoncisione e alla pratica della Legge, ma contro coloro che volevano imporre la circoncisione e la pratica della Legge ai gentili (cf. Gal 2,7-12). Per di più, nell’ambiente pluralistico della Giudea prima del 70 d.C. è difficile immaginare che scoppiasse una persecuzione nei con-

17 Cf. HENGEL, Il Paolo precristiano, il quale riassume la sua posizione alle pp. 190-191. Tra i più recenti cf. J. MURPHY-O’CONNOR, Vita di Paolo (Introduzione alla Bibbia – Suppl. 13), Paideia, Brescia 2003, 97 (or. ingl. 1996; 1997).

18 P. FREDRIKSEN, From Jesus to Christ: the Origins of the New Testament Images of Jesus, Yale Uni- versity Press, New Haven-London 22000, 142-156; ELLIOTT, Liberare Paolo, 195-250.

19 Cf. HENGEL, Il Paolo precristiano, 165.

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fronti di un movimento giudaico a motivo di un diverso modo di intendere la pratica della Legge. È quindi più probabile che lo zelo di Paolo per le «tradizio- ni dei padri» si riferisca alla difesa non della pratica della Legge, ma della posi- zione tradizionale in forza della quale era non solo possibile ma anche doveroso servire Dio sottomettendosi a un governo straniero.20 Proprio per il suo zelo in favore delle tradizioni paterne così intese, Paolo si opponeva all’entusiasmo apo- calittico di un movimento che poteva mettere a repentaglio l’esistenza stessa delle comunità giudaiche, soprattutto nell’ambito della diaspora. In altre parole la sua posizione era la stessa che il quarto vangelo attribuisce al sinedrio nei con- fronti di Gesù: «Che cosa facciamo? Quest’uomo compie molti segni. Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i romani e distrugge- ranno il nostro tempio e la nostra nazione» (Gv 11,47-48).

2.2. Il racconto lucano

Luca ritorna diverse volte sull’attività svolta da Paolo, allora ancora Saulo, come persecutore della Chiesa. Egli lo fa comparire per la prima volta nel suo racconto come connivente con i lapidatori di Stefano (At 7,58; 8,1). Subito dopo lo presenta come uno dei massimi responsabili della persecuzione scoppiata con- tro la Chiesa (8,3). Mentre va a Damasco per imprigionare i cristiani, Saulo è avvolto da una luce proveniente dal cielo e ode una voce che gli dice: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Egli domanda allora: «Chi sei, Signore?». E la voce risponde: «Io sono Gesù che tu perseguiti».

Successivamente Luca pone due volte lo stesso racconto sulle labbra di Paolo.21 Questi, nel discorso fatto dopo il suo arresto a Gerusalemme, premette di essere un giudeo, nato a Tarso ma vissuto in Gerusalemme, formato alla scuo- la di Gamaliele nelle più rigide norme della Legge giudaica, «pieno di zelo per Dio» (zēlōtēs tou Theou), e di essere stato persecutore della Chiesa (At 22,3). Anche qui è spontaneo vedere nell’osservanza della Legge mosaica il motivo della persecuzione, ma Luca non pone un rapporto diretto tra la formazione legalistica di Paolo e il fatto che egli sia diventato persecutore dei cristiani; e nep- pure avrebbe potuto farlo, perché per lui è scontato che i primi cristiani fossero fedeli osservanti della Legge (cf. 2,46). Si può invece pensare che il suo zelo per Dio consistesse nella preoccupazione di impedire che la nuova setta mettesse a rischio la sopravvivenza del suo popolo. In seguito, davanti al re Agrippa, Paolo afferma di essere stato un fariseo e di essere vissuto nella setta più rigida del giu- daismo (26,5). Anche qui la fedeltà alla Legge non è presentata come il motivo della persecuzione contro i cristiani, ma come un segno della sua lealtà totale nei confronti del giudaismo.

20 Cf. ELLIOTT, Liberare Paolo, 232-242.

21 Circa il rapporto fra le tre diverse versioni dell’evento di Damasco cf. D. MARGUERAT, «La con- versione di Saulo (At 9; 22; 26)», in ID., La prima storia del cristianesimo. Gli Atti degli apostoli, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002, 185-213.

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Non è dunque dimostrato che, sia nel resoconto del diretto interessato che in quello di Luca, il motivo della persecuzione di Paolo contro la Chiesa fosse lo zelo per l’osservanza della Legge. Ancora meno convincenti sono le altre ipote- si solitamente proposte. Secondo alcuni studiosi egli avrebbe reagito all’idea di un Messia crocifisso, dal momento che chi era condannato a questo supplizio era considerato come maledetto da Dio (cf. Dt 21,22-23; Gal 3,13).22 Questa ipotesi non ha fondamento, in quanto Gesù non aveva commesso alcun crimine contro la Legge e, per la sua morte in croce, poteva apparire non come un criminale ma come un martire.23 Altri segnalano come causa della persecuzione la venerazio- ne di Gesù come Figlio di Dio, dotato di una gloria trascendente.24 Ma è diffici- le immaginare che già da quei primissimi anni dopo la morte di Gesù gli fosse tri- butato un culto tale da minare i fondamenti della religione giudaica. Altri anco- ra ritengono che Paolo si sia opposto ai cristiani a motivo della loro prassi di accogliere i gentili senza imporre loro la circoncisione e di sedere a tavola con essi: bisogna però riconoscere che il problema emerge più tardi, ad Antiochia, dove per la prima volta un buon numero di gentili aderisce al cristianesimo (cf. Gal 2,12). D’altra parte sembra che il giudaismo della diaspora nei rapporti con i gentili fosse più aperto di quanto comunemente si ritenga.25

Bisogna dunque concludere che la persecuzione messa in atto da Paolo contro la Chiesa fosse provocata precisamente dal fatto che essa annunziava, come in seguito farà egli stesso in quanto predicatore cristiano, il ritorno immi- nente di Gesù. Questo annunzio non lasciava certamente indifferente un gran numero di giudei, profondamente immersi nella mentalità apocalittica, ma pro- prio per questo suscitava le reazioni dei sacerdoti e dei farisei, ben consapevoli dei rischi insiti nella diffusione di questa attesa. Perciò Paolo ha collaborato con un’opera repressiva che con ogni probabilità aveva luogo unicamente all’interno delle sinagoghe.26 Questa ipotesi deve essere ora confrontata con quanto si affer- ma solitamente riguardo alla predicazione di Stefano, con il quale Paolo, secon- do Luca, aveva avuto uno stretto rapporto.

3. PAOLO, GLI APOSTOLI E IL GRUPPO DI STEFANO

Le vicende di Paolo sono strettamente collegate con quelle di Pietro e del primo nucleo di discepoli residente a Gerusalemme. Sebbene riluttante, Paolo stesso dà notizia dei suoi incontri con Pietro e Giovanni, nonché con Giacomo, il

22 È questa per esempio la tesi di L.J. LIETAERT PEERBOLTE, Paolo il missionario. Alle origini della mis- sione cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, 171-195.

23 Cf. FREDRIKSEN, From Jesus to Christ, 145-148; ELLIOTT, Liberare Paolo, 201-202. Circa l’atteggia- mento dei giudei nei confronti della crocifissione cf. M. HENGEL, Crocifissione ed espiazione (Biblioteca di cultura religiosa 52), Paideia, Brescia 1988, 133-228.

24 Cf. L.W. HURTADO, Come Gesù divenne Dio (Biblioteca di cultura religiosa 69), Paideia, Brescia 2010, 186-195.

25 Cf. FREDRIKSEN, From Jesus to Christ, 149-153; ELLIOTT, Liberare Paolo, 202-204. 26 Cf. G. BARBAGLIO, Paolo e le origini cristiane, Cittadella, Assisi 1985, 71.

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fratello di Gesù, che molto presto si è affermato come la figura più rappresenta- tiva della comunità primitiva (cf. Gal 1,18-19; 2,1.9). Luca invece collega stretta- mente l’attività persecutoria di Saulo alla vicenda di Stefano (cf. At 7,58; 8,1.3), lasciando supporre che a Damasco egli perseguitasse proprio quelli che, con tutta probabilità, erano aderenti al suo gruppo (9,1); infine, dopo il suo insucces- so a Gerusalemme (At 9,26-30), è proprio ad Antiochia, in una comunità fonda- ta dagli ellenisti di Stefano (cf. 11,19-20), che egli inizia la sua attività di evange- lizzazione (cf. 11,25-26). Ora Luca, pur affermando la piena sintonia tra il grup- po di Stefano e quello degli apostoli, lascia intravedere una certa diversità, dal momento che questi ultimi non sono colpiti dalla persecuzione che ha fatto seguito alla sua uccisione (cf. At 8,1; 11,19). In che cosa consisteva questa diffe- renza? Spesso si è ritenuto che, secondo Luca, Stefano sia stato ucciso perché aveva preso posizione contro l’osservanza della Legge mosaica. Da questa ipo- tesi si ricava poi che fosse questo il motivo per cui Paolo perseguitava il movi- mento che faceva capo a lui. È quindi necessario esaminare quali fossero le posi- zioni del primo martire e dei suoi compagni; ma per fare ciò è necessario risali- re agli orientamenti del primo gruppo dirigente della comunità di Gerusalemme.

3.1. La predicazione dei Dodici

Luca presenta il primo gruppo di credenti in Gesù raccolti intorno ai Dodi- ci che facevano capo a Pietro. È proprio contro costoro che si verifica un attac- co diretto da parte del sinedrio. Anche a questo proposito non si dice con chia- rezza quali siano state le motivazioni che l’hanno provocato. Certo, queste non avevano a che fare con l’osservanza della Legge, contro la quale i primi cristiani non avevano obiezioni (cf. At 2,46). D’altra parte non si vede per quale ragione la semplice proclamazione di Gesù come Signore e Messia (cf. At 2,36) provo- casse una presa di posizione così forte.27 Anche a questo proposito ci si può chie- dere se la causa non sia da ricercarsi precisamente nel carattere apocalittico del primo annunzio cristiano, che Luca nel suo racconto passa sotto silenzio, pur lasciando trapelare qualche indizio.

Luca ricorda che, durante i quaranta giorni della permanenza di Gesù con i discepoli, costoro gli domandarono: «Signore, è questo il tempo in cui ristabili- rai il regno per Israele?» (At 1,6). Questa domanda presuppone l’idea che Gesù sarebbe presto ritornato per instaurare il regno di Dio. La risposta di Gesù è tas- sativa: «Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il padre ha riservato alla propria autorità» (1,7). I tempi della venuta del Signore sono noti solo a Dio, e quindi non bisogna ritenere che essa sia imminente. La stessa idea traspare dal messaggio dei due angeli che appaiono al momento dell’ascensione: Gesù senza

27 L’accusa fatta da Pietro ai giudei di essere i responsabili della morte di Gesù (cf. At 2,36; 3,15; 4,10) poteva suscitare l’irritazione dei sinedriti, ma difficilmente poteva essere la causa principale del loro intervento contro gli apostoli.

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dubbio un giorno tornerà, ma non bisogna stare a guardare il cielo come se ciò dovesse capitare da un momento all’altro (1,11). Nel riportare il discorso fatto da Pietro in occasione della Pentecoste sembra che Luca voglia sottolineare che con la venuta dello Spirito si siano già attuate le profezie escatologiche (At 2,17-21; cf. Gl 3,1-5); inoltre il discorso termina con l’intronizzazione di Gesù alla destra del Padre, senza alcun riferimento al suo ritorno (2,36). Tuttavia le parole con le quali Pietro si rivolge ai neoconvertiti (2,40: «Salvatevi da questa generazione perversa») lasciano intuire il carattere apocalittico della sua predicazione.

Il secondo discorso dell’apostolo sfocia invece esplicitamente nell’annunzio del ritorno di Gesù ai tempi della restaurazione di tutte le cose (At 3,20-21). È significativo che proprio al termine di questo discorso, e non del primo fatto da Pietro, i sacerdoti lo arrestino perché insegna al popolo e annunzia in Gesù la risur- rezione dei morti (At 4,2). Certo, non si trattava semplicemente della risurrezione dei morti in un futuro indeterminato, una dottrina ampiamente diffusa nel giudai- smo dell’epoca specialmente ad opera dei farisei, ma del fatto che ben presto Gesù sarebbe ritornato e avrebbe dato il via alla risurrezione finale. Quando poi gli apo- stoli sono nuovamente arrestati, ciò è dovuto non a questioni dottrinali, ma al fatto che essi radunano la folla, con il rischio quindi di provocare una sommossa antiro- mana (cf. 5,12-18). Essi sono accusati dai membri del sinedrio di voler far ricadere su di loro il sangue di Gesù (5,28): anche dietro queste parole si percepisce l’accu- sa di preannunziare la loro rovina a seguito del ritorno di Cristo. Non si dimenti- chi che Gamaliele, nel suo invito a temporeggiare nei confronti degli apostoli, li mette sullo stesso piano di due personaggi, Teuda e Giuda il Galileo (cf. 5,36-37), i quali erano noti per la loro concezione apocalittica.28

Si può dunque arguire che la prima persecuzione contro la Chiesa nascen- te sia stata provocata dal fatto che gli apostoli annunziavano non solo che Gesù è il Messia, ma anche che, in seguito alla sua risurrezione, sarebbe ritornato molto presto per instaurare il regno di Dio, con tutte le conseguenze che ne sarebbero derivate per il popolo giudaico e per la sua classe dirigente.29 Sebbe- ne Luca tenda a nasconderlo, doveva essere precisamente la predicazione apo- calittica dei primi discepoli a suscitare l’opposizione dell’autorità religiosa, spe- cialmente dei sacerdoti.

3.2. Il gruppo di Stefano

L’intervento di Gamaliele sembra aver smorzato una volta per tutte le osti- lità del sinedrio nei confronti degli apostoli. Nei fatti ciò potrebbe essere dovuto

28 Giuda il Galileo era stato, come si è visto, l’iniziatore del movimento di resistenza passiva contro i romani all’epoca del censimento di Quirinio. Secondo Giuseppe Flavio, Teuda era un sedicente profeta che si era messo a capo di un movimento di insurrezione al tempo del procuratore Fado, quindi dopo l’insurre- zione di Giuda il Galileo (per i due personaggi citati da Gamaliele cf. R. FABRIS, Atti degli apostoli, Borla, Roma 21984, 176-178).

29 Luca non lo dice espressamente, perché per lui la parusia si è ormai irrimediabilmente allontana- ta nel tempo.

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a una certa caduta del tono apocalittico della loro predicazione. Ma improvvisa- mente sorgono altre difficoltà, questa volta all’interno della comunità stessa. La causa menzionata da Luca è il diverso trattamento riservato alle vedove degli ellenisti rispetto a quelle degli ebrei (At 6,1). Si viene così a sapere per la prima volta che la comunità era formata da due gruppi, quello degli «ebrei», cioè i primi discepoli originari della Palestina che facevano uso della lingua aramaica, e quello degli «ellenisti», che erano giudei della diaspora di lingua greca, resi- denti a Gerusalemme, convertiti al cristianesimo in seguito alla predicazione degli apostoli. La rottura si ricompone con la nomina dei Sette (At 6,2-6), che Luca, pur senza dirlo, presenta come il prototipo dei diaconi, uno dei tre uffici istituzionali che appariranno alla fine del I secolo (cf. 1Tm 3,8-13). Il primo dei Sette, Stefano, si dà però a un’infuocata opera di predicazione e alla fine, dopo un lungo discorso, viene violentemente eliminato (At 6,8–8,4).

Il racconto di Luca non appare del tutto verosimile. È strano infatti che i nomi dei prescelti siano tutti greci (cf. At 6,5): si può certo supporre che, per un eccesso di buona volontà, sia stato affidato proprio agli ellenisti il compito di provvedere a tutte le vedove, ma la cosa non è evidente. È più probabile invece che i Sette esistessero già prima come gruppo a sé stante e svolgessero un ruolo direttivo nell’ala ellenista della comunità. Il numero «sette» infatti fa pensare alle 70 nazioni del mondo (cf. Gen 10), che essi rappresentavano, esattamente come i Dodici erano i capostipiti dell’Israele escatologico. Inoltre almeno due di essi, Stefano e Filippo, si dedicano subito alla predicazione. Un ulteriore indizio che essi nella comunità erano a capo di un gruppo diverso e in parte autonomo appare dal fatto che, in seguito alla persecuzione scoppiata dopo la morte di Ste- fano, solo loro devono lasciare Gerusalemme, mentre gli apostoli e, presumibil- mente, il loro gruppo (gli «ebrei»), vi restano indisturbati (cf. At 8,1).

Si può dunque supporre che in realtà si sia verificata molto presto nella comunità di Gerusalemme una divergenza tra i primi discepoli di lingua aramai- ca e i cristiani giudeo-ellenisti. Non è escluso che la situazione delle vedove abbia fatto esplodere il dissidio, ma è probabile che questo avesse motivazioni più remote, che affioreranno al momento della cattura e dell’uccisione di Stefano. Il conferimento del servizio delle mense ai Sette sarebbe perciò un artificio con il quale Luca, volendo presentare in modo armonico lo sviluppo della Chiesa pri- mitiva, avrebbe nascosto di proposito la rottura che si era verificata all’interno della comunità.

La ragione di questa polarizzazione tra ebrei ed ellenisti non è indicata. Luca non dice neppure quale fosse il tema specifico della predicazione di Stefa- no30 e racconta che i suoi avversari sobillarono alcuni uomini perché portassero contro di lui questa accusa: «Lo abbiamo udito pronunciare parole blasfeme con- tro Mosè e contro Dio» (6,11). Ne deriva una sollevazione da parte del popolo, degli anziani e degli scribi, i quali si impossessano di lui e lo conducono davanti al

30 È strana questa reticenza, dovuta forse alla preoccupazione di evitare nei lettori anche solo l’im- pressione di una divergenza tra Stefano e i Dodici.

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sinedrio. Qui si presentano dei testimoni, i quali affermano: «Costui non cessa di proferire parole contro questo luogo santo e contro la legge. Lo abbiamo udito dichiarare che Gesù il Nazareno distruggerà questo luogo e sovvertirà i costumi tramandatici da Mosè» (6,12-14). Luca osserva che questi testimoni erano falsi. Secondo Marco e Matteo accuse analoghe, ugualmente false, erano state rivolte anche contro Gesù durante il processo giudaico (cf. Mc 14,57-58; Mt 26,59-61). Luca dunque esclude che sia stato un atteggiamento negativo di Stefano nei con- fronti della Legge e del culto a provocare lo scontro tra lui e i suoi connazionali.

Il discorso che Luca attribuisce a Stefano termina con due affermazioni che in qualche modo sembrano confermare le accuse che gli erano state rivolte. Anzitutto egli afferma che Salomone ha costruito il tempio di Gerusalemme, ma «l’Altissimo non abita in costruzioni fatte da mano d’uomo» (7,48).31 Poi affer- ma che i suoi connazionali hanno ucciso il Giusto e li accusa di aver ricevuto la Legge per mezzo degli angeli ma di non averla osservata (7,51-53). Queste due affermazioni però non sono sufficienti a fondare le accuse rivolte contro di lui dai falsi testimoni.32

Il discorso di Stefano ha l’effetto di provocare una forte reazione nei suoi confronti (At 7,54). Ma la goccia che fa traboccare il vaso sono le ultime parole da lui pronunciate. L’autore descrive così la scena: «Ma Stefano, pieno di Spirito Santo, fissando gli occhi al cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che stava (in piedi) alla sua destra e disse: Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta (in piedi) alla destra di Dio» (7,55-56). La visione di Stefano si ispira al pro- cesso nei confronti di Gesù, ma si differenzia da esso in quanto egli vede il Figlio dell’uomo non «seduto» (Lc 22,69; cf. Sal 110,1; At 2,34), bensì «in piedi» (hestō- ta) alla destra di Dio. Più che come un re che governa il mondo, Gesù appare qui nella funzione di giudice escatologico, che pronunzia la condanna nei confronti dell’umanità peccatrice e in modo particolare di Israele:33 questa visione prelu- de alla sua seconda venuta, la cui imminenza doveva essere stata fortemente sot- tolineata da Stefano. Questo sarebbe anche il vero motivo della sua condanna.

Una lettura critica del racconto di Luca lascia dunque intravedere che la persecuzione delle autorità giudaiche, prima nei confronti dei Dodici e poi dei Sette, fosse determinata da una divergenza non tanto circa l’interpretazione della Legge o la persona di Gesù e il suo insegnamento, quanto piuttosto circa l’annunzio del suo imminente ritorno e dell’instaurazione del regno di Dio. Evi- dentemente non c’era diversità tra gli apostoli e il gruppo di Stefano, ma è pro- babile che, mentre i primi avevano smorzato i toni, Stefano abbia rilanciato que- sto messaggio secondo modalità che hanno impensierito il sinedrio. Da qui deri- va il concentrarsi delle ostilità nei confronti di Stefano e dei suoi amici, nonché

31 Così dicendo Stefano non fa altro che esprimere una convinzione già presente nel Primo Testa- mento (cf. 1Re 8,27) e ripresa da Paolo nel discorso dell’Areopago (cf. At 17,24).

32 Giustamente HENGEL, Il Paolo precristiano, 164 osserva che nel suo complesso il discorso non ha nulla a che fare con le accuse rivolte a Stefano.

33 Si veda in proposito R. PESCH, La visione di Stefano (Studi biblici 8), Paideia, Brescia 1969, 64-69; G. ROSSÉ, Atti degli apostoli, Città nuova, Roma 1998, 326-327.

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la necessità per costoro di lasciare Gerusalemme. È probabile dunque che egli sia stato incriminato perché annunziava con particolare ardore la parusia immi- nente di Gesù. La sua uccisione dunque non ha nulla a che vedere con la pratica della Legge ma con il fatto che Stefano, diversamente dai Dodici, metteva l’ac- cento proprio su questa attesa che, se da una parte suscitava l’adesione entusia- sta della gente, dall’altra provocava grossi timori per la sopravvivenza stessa di Israele (cf. Gv 11,47-48).

4. L’ESPERIENZA DI DAMASCO

Al termine di questa ricerca possiamo ora riprendere la domanda iniziale: per quale motivo Paolo ha aderito al movimento cristiano? In altre parole, qual è stato il contenuto dell’esperienza da lui fatta sulla via di Damasco? Nelle sue lettere Paolo non fa un racconto storico dell’evento che ha fatto di lui un apo- stolo di Cristo, ma vi accenna tre volte facendo ricorso a diversi tipi di linguag- gio. Nella 1 Corinzi, in un brano apologetico in cui difende la sua prerogativa di apostolo, egli pone ai suoi interlocutori questa domanda retorica: «Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore?» (1Cor 9,1). A queste domante si attende una risposta posi- tiva: egli è certamente un apostolo perché ha visto il Signore e perché ha fonda- to delle comunità, in primis quella di Corinto. Nell’espressione «Non ho visto (eōraka) il Signore?» Paolo usa il verbo oraō al perfetto attivo, che indica un evento del passato i cui effetti sono percepibili nel presente.

Un’espressione analoga si trova più avanti sempre nella stessa lettera, dove afferma che, dopo la sua risurrezione, Gesù «... apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta, la mag- gior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Gia- como, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto» (vv. 5-8). Il verbo «apparve» (ôfthē, aoristo passivo di oraō, vedere) qui utilizzato appare spesso nella Bibbia greca per indicare la manifestazione di Dio, non necessariamente visiva, a personaggi da lui scelti (cf. Gen 12,7; 18,1; 35,9; Es 3,2); nel Nuovo Testamento esso designa le apparizioni del Risorto ai discepoli (cf. Lc 24,34; At 13,31). In questo contesto non significa «essere visto» (passivo), ma «farsi vedere» (intransitivo con valore mediale): Paolo presenta il suo incon- tro con il Signore, analogamente a quello di cui sono stati beneficiari gli altri discepoli, non come un’esperienza puramente interiore, ma come effetto di un intervento attivo dello stesso Cristo che si è manifestato a lui. È difficile però sta- bilire qual è stata per Paolo la modalità di questa visione: siccome nel Primo Testamento il termine è usato per indicare la comunicazione di un messaggio orale, resta aperta la questione se si sia trattato di un fatto oggettivo o di un’e- sperienza interiore, senza un coinvolgimento diretto delle facoltà esterne.

Nella Lettera ai Galati Paolo usa un’espressione totalmente diversa: «Quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua gra-

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zia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai gentili...» (Gal 1,15-16). Il riferimento è qui alla vocazione dei profeti (cf. Ger 1,5; Is 49,1.5), mentre il verbo «rivelare» (apocalyptō) si rifà al linguaggio apocalittico. Secondo Luca sulla via di Damasco Paolo avrebbe visto semplicemente una gran- de luce e avrebbe udito le parole del Signore (At 9,3-4; 22,6-7; 26,13-14), mentre nel terzo di questi racconti il Signore gli avrebbe detto: «... ti sono apparso (ōfthēn) per costituirti [...] ti apparirò (ofthēsomai) ancora...» (At 26,16; cf. 9,17).

Da questi testi non si può ricavare nulla di preciso circa le modalità del- l’incontro di Paolo con Gesù, ma è chiaro che, al di là degli aspetti esterni, si è trattato di una profonda esperienza del Signore risorto. È in quella occasione che il futuro apostolo ha capito che il profeta Gesù di Nazaret, quello che conside- rava un pericoloso impostore, era veramente il «Signore», cioè il Messia che, dopo essere stato messo in croce, era risuscitato ed era salito al Padre. Per una intuizione fulminea, che egli ha attribuito all’incontro con lui, ha capito che, come affermavano i cristiani, questo Signore sarebbe presto ritornato e avrebbe instaurato in modo definitivo il regno di Dio in questo mondo. E ha anche intui- to che questo regno avrebbe dovuto essere preparato mediante la fondazione di comunità, composte di giudei e gentili, che ne avrebbero anticipato la venuta. Egli, che si era impegnato fino in fondo per la sopravvivenza di Israele, aveva capito che questa consisteva appunto nell’andare incontro al Signore che in tempi brevissimi sarebbe ritornato nella gloria.

5. CONCLUSIONE

Una delle più grandi preoccupazioni sia dei cristiani che dei giudei, dopo la caduta di Gerusalemme nel 70 d.C., è stata quella di eliminare il più possibile quanto avesse a che vedere con le attese apocalittiche che avevano influito pesantemente sulle vicende del giudaismo nei decenni precedenti. Per i rabbini questo era un passo necessario per ritrovare uno spazio in cui fosse possibile la sopravvivenza del popolo giudaico e delle sue tradizioni. In campo cristiano era invece importante fare i conti con il ritardo della parusia di Gesù. Il movimento cristiano infatti aveva puntato tutto sulla figura di un Messia che era considera- to come tale in quanto, dopo la sua morte e risurrezione, sarebbe ritornato entro breve tempo per instaurare il regno di Dio. Il fatto che questo evento non si fosse realizzato esigeva una ristrutturazione radicale del messaggio cristiano.

Tutti gli scritti cristiani, eccetto le lettere autentiche di Paolo, sono sorti all’interno della crisi suscitata dal ritardo della parusia. È comprensibile perciò che i loro autori abbiano fatto di tutto per eliminare o attenuare i dati riguar- danti l’imminenza della parusia presenti nella tradizione. Chi si è adoperato maggiormente per raggiungere questo scopo è stato Luca. Si spiega così come mai egli, avendo rimandato a un futuro indeterminato il ritorno di Gesù, abbia dovuto mettere in ombra le motivazioni vere del duro scontro realizzatosi tra la prima comunità cristiana e le autorità sia giudaiche che romane.

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Dalle poche informazioni contenute sia negli Atti degli apostoli che nelle lettere autentiche di Paolo, lette sullo sfondo dell’aspra polemica che questi ha condotto contro i cristiani giudaizzanti, si è immaginato che il motivo della sua persecuzione nei confronti del nascente movimento cristiano fosse proprio il fatto che questo aveva abbandonato la pratica della Legge mosaica. Questa ipo- tesi è corroborata dalla supposizione che il gruppo di Stefano, con il quale Paolo era venuto a contatto, si fosse differenziato da quello degli apostoli di Gerusa- lemme proprio in quanto aveva assunto una posizione critica nei confronti della Legge e del tempio. Per questo Stefano sarebbe stato ucciso e gli altri sarebbero stati costretti a fuggire da Gerusalemme.

Questa posizione però non regge a uno studio critico dei testi, dai quali risulta invece che la persecuzione nei confronti del cristianesimo nascente era dovuta alla forte spinta apocalittica che lo pervadeva. L’annunzio secondo cui Gesù, ucciso come ribelle dai romani, sarebbe presto ritornato per instaurare il regno di Dio, era un messaggio sovversivo, tale da galvanizzare le folle della Palestina e da trovare un forte appoggio fra i giudei e i timorati di Dio della dia- spora. Ma al tempo stesso suscitava forti apprensioni nelle autorità giudaiche e in quelle romane, a cui stava a cuore soprattutto l’ordine pubblico. È comprensi- bile perciò che sia le une che le altre abbiano cercato di stroncare sul nascere il nuovo movimento. In quanto fariseo convinto, Paolo aveva fatto proprie queste apprensioni ed era passato all’azione per circoscrivere i danni che il cristianesi- mo avrebbe potuto arrecare alla nazione giudaica.

Il cambiamento repentino della posizione di Paolo è dovuto a una illumi- nazione interiore riguardante il ruolo assegnato a Gesù nell’adempimento della salvezza annunziata dai profeti. Sulla via di Damasco egli ha capito che Gesù era vivo e si apprestava ad attuare in tempi molto brevi quel capovolgimento non violento che avrebbe comportato la risurrezione dei morti e l’inizio di un mondo nuovo. In altre parole, ha capito che la salvezza di Israele si sarebbe attuata non contro Gesù ma per mezzo suo. Da questa intuizione ha avuto origine la sua opera di evangelizzazione che, pur essendo rivolta prevalentemente ai gentili, ha sempre avuto come scopo finale la salvezza dei suoi connazionali (cf. Rm 9,1-5; 11,11-14.25-32). L’adesione di Paolo al cristianesimo non è stata un cambiamen- to di campo, ma la scoperta che solo aderendo a Cristo avrebbe potuto conse- guire gli scopi per cui lo aveva precedentemente perseguitato. A tal fine egli ha costituito comunità che anticipassero nell’oggi la nuova creazione inaugurata da Cristo (cf. Gal 6,15), ponendo così le premesse per la sopravvivenza del movi- mento cristiano anche dopo che l’attesa di un ritorno imminente del Signore era ormai scomparsa dall’orizzonte.

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Rivelazione e storia della salvezza nella Lettera ai Romani

ROMANO PENNA

Parto da una constatazione materiale, certamente arida, ma di base e illu- minante. Nella Lettera ai Romani Paolo impiega quattro volte lo specifico lessi- co di rivelazione, e lo fa di volta in volta con tutti e tre i verbi tipici di questo campo semantico: apokalýptō/«disvelo» (impiegato due volte), faneróō/«manife- sto», en-deíknymi/«mostro».

In 1,17 si legge che nell’evangelo «si rivela», apokalýptetai, la giustizia di Dio. Successivamente in 3,21 Paolo scrive che questa stessa giustizia di Dio «si è manifestata», pefanérōtai, nel sangue di Cristo (cf. 3,25). Più avanti in 8,18 leg- giamo che nel futuro escatologico si rivelerà (apokalyfthênai) la gloria dei figli di Dio (cf. 8,23) insieme al rinnovamento del cosmo. Infine in 9,17, utilizzando un riporto da Es 9,16 LXX, è scritto che Dio aveva suscitato il faraone con lo scopo di «mostrare» (endeíxōmai) in lui la propria potenza perché venisse annunciato il suo nome in tutta la terra.1 Come si vede, la cadenza cronologica considerata sul piano grammaticale consiste nell’uso, innanzitutto, di un verbo al presente, poi di un verbo al perfetto, di un infinito aoristo passivo, e infine di un congiun- tivo aoristo attivo, sicché nel primo caso si richiama un fatto continuamente posto in essere, nel secondo si rimanda a un evento del passato che perdura tut- tora nei suoi effetti, nel terzo si allude a un avvenimento futuro, e nel quarto si formula una intenzionalità di principio posta all’origine di un progetto divino.

È ben chiaro che questa successione e variazione lessicale tocca quattro momenti storico-salvifici diversi. In effetti, Paolo parte dal presente dell’annun- cio evangelico, passa per l’evento della morte di Cristo, prospetta una consu- mazione finale, e infine risale indietro fino all’elezione di Israele connessa con l’esodo.

Secondo la logica temporale, però, bisognerebbe risistemare e in buona parte addirittura invertire la successione dei momenti, e partire dalle antiche cir- costanze dell’esodo per arrivare alla morte di Cristo («nel kairós presente»: 3,26) e sfociare infine nell’attuale impegno evangelizzatore proprio della Chiesa, per culminare poi nell’orizzonte escatologico.

1 Tuttavia in 3,25.26 Paolo ha già impiegato anche il sostantivo deverbale éndeixis, «manifestazio- ne», in connessione con il secondo dei tre casi, cioè con la manifestazione della giustizia di Dio nel sangue di Cristo.

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Tuttavia, l’impostazione argomentativa di Paolo è assai originale e sinto- matica, poiché non è di tipo trattatistico-didascalico ma storico-esistenziale. E qui vogliamo onorarla per se stessa, esaminandone le componenti strutturali.

1. LA RIVELAZIONE DELLA GIUSTIZIA DI DIO

Paolo in Rm 1,17 («La giustizia di Dio si rivela in esso/vangelo di fede in fede...») formula quella che in retorica è qualificable come propositio, cioè enunciazione tematica, dell’intera lettera. Egli parte dal fatto che c’è una prima rivelazione divina, a cui l’uomo, nient’altro che oggi, è subito confrontato. Essa non appartiene a un passato che sfugge alla nostra percezione immediata e soprattutto non a un passato consegnato solo alla memoria, o peggio ancora a una mera sedimentazione scritta. Al contrario, a lui interessa partire da un’espe- rienza sempre possibile e verificabile, basata sul continuo annuncio dell’euag- ghélion.

È in esso che appunto «si rivela», apokalýptetai, un particolare tipo di giu- stizia di Dio, che nel contesto va intesa come sinonimo di misericordia.2 L’annun- cio di Cristo, perciò, rappresenta una vera, anzi la vera «apocalisse» di Dio. La scelta del verbo lascia intendere che Paolo non pensa a una rivelazione qualun- que; ogni volta che vi ricorre nelle sue lettere è per affermare qualcosa di escato- logico o comunque di origine divina, quindi di assolutamente incisivo.3 Nel greco della LXX esso traduce quasi sempre l’ebraico gālāh, «scoprire, manifestare, rive- lare». Va però notato il tempo verbale. Il tema della rivelazione della giustizia di Dio si trova anche in Sal 97,2 LXX: «Il Signore ha fatto conoscere la sua salvez- za, davanti alle genti ha rivelato (apekálypsen) la sua giustizia»; l’ambito di que- sta rivelazione può essere sia il creato sia la storia, così da affermare la regalità universale di Dio, ma là l’impiego dell’aoristo, che pur può avere valore di pre- sente, esprime la puntualità dell’azione, non la sua continuità. Analogamente, anche a Qumran si parla di una rivelazione della giustizia di Dio: «Ogni iniquità ed empietà le distruggi per sempre, e la tua giustizia si rivela (nigletāh) agli occhi di tutte le tue opere» (1QH 4,16); ma qui la giustizia ha chiaramente valore puni- tivo.4 In Paolo invece il verbo è al presente e ha valore «evangelico». Ciò signifi- ca che, oltre al fatto di essere collegata con l’annuncio liberante dell’evangelo, la

2 Cf. R. PENNA, Lettera ai Romani (SOC 1), EDB, Bologna 2010, 67-75.

3 Cf. Rm 1,17.18; 8,18; 1Cor 2,10; 3,13; 14,30; Gal 1,16; 3,23; Fil 3,15 (inoltre Ef 3,5; 2Ts 2,3.6). Lo stes- so si dica del sostantivo apokálypsis (Rm 2,5; 8,19; 16,25; 1Cor 1,7; 14,6.26; 2Cor 12,2.7; Gal 1,12; 2,2; inoltre Ef 1,17; 3,3; 2Ts 1,7).

4 Perciò non tutti i testi che parlano di una rivelazione della giustizia sono conformi alla dichiara- zione di Paolo. Così si può rimandare a Is 56,1 TM («Così dice il Signore: Osservate il diritto e praticate la giustizia, perché prossima è la mia salvezza e la mia giustizia sta per rivelarsi») e a 1Q27 1,6 («Come il fumo svanisce e non c’è più, così svanirà per sempre la malvagità; la giustizia sarà rivelata come il sole che rego- la il mondo»); ma nel primo testo la rivelazione della giustizia di Dio (assente nella LXX!) è strettamente connessa con la pratica della Legge, mentre nel secondo la giustizia in questione non è quella di Dio ma quella dell’uomo.

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rivelazione della giustizia salvifica di Dio è sempre in atto nella predicazione della Chiesa e degli annunciatori, come ancora si leggerà in Rm 10,15: «Come sono belli i piedi di coloro che annunciano cose buone» (citazione di Is 52,7). Benché poi in 3,21 venga adottato lo stesso concetto ma al passato (cf. subito sotto), è inte- ressantissimo osservare che nella sua argomentazione Paolo non parte dal passa- to cristologico, bensì dal presente ecclesiologico e missionario. Solo in un secon- do tempo l’apostolo connette l’attuale impegno evangelizzatore, apertamente rivolto a tutti (cf. vv. 14-15),5 al suo inizio storico che è anche il suo fondamento. Questo schema è abituale in Paolo: prima di fare memoria è importante l’espe- rienza di una presenza! Sta di fatto che, se la croce di Cristo rappresenta la rive- lazione fondamentale di quella iustitia salutifera, altrettanto si deve dire che la predicazione è non meno essa stessa evento salvifico. Emerge così in primo piano il valore della Parola, su cui secondo Paolo si fonda la Chiesa stessa, come si vede in una serie di suoi testi epistolari (cf. Rm 1,16; 1Cor 1,17; 9,16; 1Ts 2,13).

Accenno appena al risvolto negativo di questa rivelazione, subito espresso nel successivo v. 18. La rivelazione di cui ora si tratta, a differenza di quella del versetto precedente, non è materia di un «buon annuncio» fatto sulla terra da un qualche evangelizzatore, ma viene direttamente «dal cielo (ap’ouranoû)» senza mediazioni storiche. Ciò che qui entra in causa non è un eu-aggélion ma un dys- aggélion, cioè un annuncio, che poi in realtà è solo una constatazione, di sventu- ra. Il linguaggio impiegato è chiaramente di tipo apocalittico, come risulta sia da analoghe espressioni neotestamentarie (cf. la medesima costruzione in Mt 24,29: «Gli astri cadranno dal cielo»; Lc 17,29; 21,11; 22,43; 1Ts 4,16; 2Ts 1,7; Eb 12,25; 1Pt 1,12: «... con lo Spirito Santo mandato dal cielo») sia dallo stretto paralleli- smo con l’apocrifo apocalittico Enoch etiopico: «E se cresceranno la malvagità, il peccato, la maledizione, la violenza e ogni azione [cattiva], e se cresceranno la ribellione, il peccato e la impurità, vi sarà gran castigo, dal cielo, su tutti costoro e il Signore santo uscirà, in rabbia e castigo, per far giustizia sulla terra» (1Hen 91,7).6 In questi casi, il cielo non è propriamente la sede beata di Dio e degli elet- ti, ma diventa cifra di Dio in persona per indicare l’origine oltremondana e tra- scendente di un particolare intervento di riprovazione e di punizione, e quindi per dire che la condanna e i suoi effetti, di cui si parlerà subito dopo, non hanno in se stessi la propria spiegazione.7

5 Sostanzialmente impropria è la spiegazione di M.A. Seifrid, che contrasta Rm 1,17 con il citato Sal 97,2 col dire che, mentre là si parla di una manifestazione aperta della giustizia di Dio di fronte alle nazioni, qui invece si intende una rivelazione nascosta, vincolata alla domanda della fede (cf. M.A. SEIFRID, Christ, Our Righteousness. Paul’s Theology of Justification, InterVarsity, Downers Grove, IL 2000, 5-47). Va però osservato che in Paolo la rivelazione della giustizia di Dio è vincolata alla fede solo per quanto riguarda la qualità e il frutto di questa rivelazione, la quale però avviene «in esso (en autôi)», cioè nell’evangelo, che per natura sua è pubblicamente indirizzato a tutti, specialmente alle «genti».

6 Trad. di L. FUSELLA, in Apocrifi dell’Antico Testamento, a cura di P. SACCHI, Torino 1981, I, 632 (il corsivo è mio); il passo citato appartiene all’Epistola di Enoch, che è il quinto libro del pentateuco enochi- co e risale ai secoli II-I a.C.

7 È come se il cielo si aprisse per contattare la terra, non al fine di rivelare dei segreti particolari a chi vive nell’ignoranza, ma per far scendere l’ira di Dio su chi vive nell’iniquità; cf. in generale C. ROWLAND, The Open Heaven. A Study of Apocalyptic in Judaism and Christianity, Wipf and Stock, New York 1982.

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2. LA GIUSTIZIA DIVINA È SALUTIFERA

L’idea di rivelazione viene ripresa in 3,21 («Ora però a prescindere dalla Legge la giustizia di Dio si è manifestata...»), Paolo ne precisa maggiormente i contorni, cominciando col dire che della giustizia salvifica di Dio non bisogna attendere una rivelazione futura, poiché la sua manifestazione è già avvenuta: «si è manifestata» (pefanérōtai). Per la verità, il tempo verbale impiegato da Paolo ha una semantica complessa; in greco, infatti, esso ha due connotazioni: una che riguarda il passato, con rimando a un evento già verificatosi, e un’altra che con- cerne il presente, in quanto l’evento già compiutosi precedentemente viene ricordato nelle sue ricadute attuali tuttora vive (in questo caso: la giustizia di Dio «è manifesta»). La traduzione nelle nostre lingue comporta inevitabilmente di sacrificare una delle due componenti.8 Se qui scegliamo di tradurre con il passa- to9 è per due ragioni ben precise. La prima è che nel successivo v. 25, venendo concretamente al dunque, Paolo collocherà esplicitamente questa manifestazio- ne in un atto di Dio compiuto nel passato (proétheto, «ha presentato»).10 La seconda è che il presente era già stato inequivocabilmente impiegato in 1,17 (sia pur con l’utilizzo di un altro verbo: apokalýptetai) per connotare una rivelazione attuale della stessa giustizia di Dio, in quanto essa avviene oggi nell’annuncio evangelico. Proprio questo confronto con 1,17 arricchisce enormemente il tema paolino della giustizia di Dio. Essa infatti conosce due momenti distinti e insie- me complementari della sua dimostrazione: uno nell’effusione storica del sangue di Cristo, l’altro quando quell’evento si fa semplice parola nell’annuncio.11 Ma l’uno equivale l’altro, poiché in atto è sempre la medesima, salutifera «giustizia di Dio». Ed è come dire che chi sta sotto l’annuncio del sangue di Cristo è come se fosse, né più né meno, sotto la croce stessa di Cristo! Semmai può sorprende- re che solo in 1,17 Paolo abbia usato il verbo apokalýptō dalla forte semantica evocativa di un evento epocale, mentre per 3,21 abbia riservato il più debole verbo faneróō, che nella LXX non ha alcuna rilevanza particolare (1 sola volta contro ben 110), mentre nel Nuovo Testamento ha un significato forte soltanto negli scritti giovannei (cf. Gv 2,11; 17,6; 1Gv 1,2; 3,2; Ap 15,4). Se una diversa sfu- matura è possibile cogliere nei due verbi, essa consiste nel fatto che, mentre apokalýptō insiste di più sull’idea del punto di partenza del disvelamento (eti- mologicamente, «togliere il velo da ciò che è nascosto»), faneróō invece implica

8 Esempio classico di questa dualità semantica sacrificata è il participio perfetto kecharitōménē in Lc 1,28: la traduzione «piena di grazia» è parziale, e andrebbe assolutamente integrata con: «fatta oggetto di grazia, diventata destinataria di un particolare favore (divino), graziata».

9 La preferenza data al medio («si è manifestata») più che al passivo («è stata manifestata») tende a valorizzare il genitivo nominale «di Dio»; infatti, non si può pensare che la giustizia in questione sia stata manifestata da un altro che non sia Dio: non è altri che lui ad aver manifestato la «propria» giustizia.

10 Cf. PENNA, Lettera ai Romani, I, 255-256.

11 È lo stesso tipo di rapporto che, in termini testualmente più ravvicinati, Paolo esprime in 1Cor 1,17-25: la «croce di Cristo» (v. 17) diventa «parola della croce» (v. 18). «Il verbo al perfetto sottolinea che questa manifestazione, come concretizzazione della fase apocalittica della storia, è cominciata nel passato [...] e raggiunge ogni presente della storia» (A. PITTA, Lettera ai Romani, Milano 2001, 159).

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maggiormente l’idea del far conoscere apertamente, del rendere visibile, con un più evidente riferimento ai fruitori di ciò che viene disvelato (in conformità con il successivo verbo proétheto del v. 25).12

Questa manifestazione, secondo Paolo, avviene storicamente nel sangue di Cristo, proposto da Dio come hilastērion, cioè come strumento o luogo di espia- zione per i peccati degli uomini, e quindi come luogo di redenzione. Proprio i concetti di redenzione (in 3,24) e di espiazione (in 3,25), pur di diversa prove- nienza semantica, costituiscono la materia della manifestazione-rivelazione della iustitia salutifera di Dio, la quale ormai non è più reperibile nella Legge e tanto- meno nella sua osservanza.

3. LA RIVELAZIONE A VANTAGGIO DEGLI UOMINI

Passiamo ora a Rm 8,18, dove si legge: «Penso infatti che le sofferenze del tempo presente non hanno peso in confronto con la gloria futura che sarà rive- lata per noi (pròs tēn méllousan dóxan apokalyfthênai eis hēmâs)». Questa dichiarazione è suggerita e richiesta dalla conclusione del precedente v. 17, con- cernente l’idea di una eredità futura che andrà ben oltre l’attuale situazione sto- rica. Avviene così ciò che si era già verificato con la propositio generale di 1,16- 17 sul concetto di evangelo, che si agganciava all’idea di evangelizzazione enun- ciata nella conclusione del precedente 1,15 (cf. commento). Ma ora l’apertura della frase con «Penso infatti» (logízomai gàr) è più solenne (cf. l’assioma enun- ciato in 3,28: logizómetha gàr), cioè corrisponde alla formulazione di un princi- pio assiomatico, che esprime una convinzione forte e importante (cf. anche 2Cor 11,5). L’assioma è incentrato sulla contrapposizione tra le sofferenze attuali e la gloria futura. Viene perciò stabilito un paragone tra due esperienze contrastanti, che caratterizzano rispettivamente due diversi momenti successivi,13 per negar- ne ogni equivalenza. Ed è ben possibile che dietro la frase di Paolo ci sia un’o- biezione, la quale, facendo prevalere l’attuale esperienza di sofferenza dei cri- stiani, metta in discussione la possibilità stessa di una gloria futura.14

12 Altrove in Paolo si vede bene che il verbo ha esattamente questo significato: cf. Rm 1,19; 16,26; 1Cor 4,5; 2Cor 2,14; 3,3; 4,10.11; 5,10.11; 7,12; 11,6.

13 L’uso comparativo della preposizione prós con l’accusativo è attestato anche altrove, come in LUCIANO, Alcione 3: «Il tempo della vita è assai breve rispetto a tutta l’eternità, pròs tòn pánta aiôna». Si può anche pensare all’ebraico neged che indica adeguamento o corrispondenza, come in m.Pea 1,1: «Queste sono le cose di cui l’uomo gode i frutti già in questo mondo, delle quali però il capitale gli rimane per il mondo futuro: l’onore per il padre e la madre, le opere di beneficenza, e poi lo studio della Torah, che equi- vale (kngd) a tutte le altre» (cf. H.L. STRACK – P. BILLERBECK, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, III, 244).

14 Questa è l’interessante posizione di A. GIENIUSZ, Romans 8:18-30: «Suffering Does Not Thwart the Future Glory», Scholars Press, Atlanta, 89-133, che al costrutto ouk áxios prós riconosce il senso non di un mero paragone («non dello stesso valore», «non degno di paragone») ma di una vera e propria contrappo- sizione («non poter competere», «non aver peso in confronto a», «non essere abbastanza forte per oppor- si», «non essere in grado di contrastare»); cf. ivi, 90-98 per la documentazione tratta da Platone, Aristotele, Polibio, Dione Crisostomo (benché dei testi addotti sia possibile dare una doppia traduzione).

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La formulazione circa i due stadi temporali successivi e contrapposti evoca la dottrina dei due eoni, propria dell’apocalittica giudaica (cf. anche 1Cor 7,31). Così infatti si legge in 4Esd (trad. P. Marrassini): «L’Altissimo ha fatto non

una sola età, ma due» (7,50); da una parte, c’è «questa età (hoc saeculum) piena di tristezze e di malanni» (4,27; cf. 6,59: «Se questa età è stata creata per noi, per- ché questa nostra età non la possediamo in eredità? Fino a quando durerà tutto ciò?»; 7,12-13: «Gli ingressi per questo mondo vennero creati angusti, dolenti e faticosi [...]; ma gli ingressi del mondo più grande sono ampi e sicuri»; 7,16: «Per- ché non ti sei preso a cuore quel che dovrà accadere, piuttosto che ciò che sta accadendo ora?»; 7,18: «I giusti sopporteranno ciò che è stretto sperando in ciò che è largo, mentre quelli che si sono comportati male hanno dovuto sopportare ciò che è stretto, ma ciò che è largo non lo vedranno»); dall’altra, invece, c’è quel- la futura: allora «il giorno del giudizio sarà la fine di questa età e l’inizio di quel- la immortale futura, nella quale il corruttibile sarà passato, si sarà dissolta l’in- temperanza, sarà stata tolta via l’incredulità, e sarà cresciuta la giustizia e nata la verità» (7,13; cf. anche 8,46: «Le cose presenti per coloro che sono ora, e quelle future per coloro che saranno»; 8,52: «Per voi [...] è stato preparato il tempo futuro, è stata apparecchiata la delizia»). Analogamente si legge in 2Bar (trad. P. Bettiolo): «Quanto ai giusti, [...] questo mondo è per loro lotta e lavoro, in molta fatica, ma quello futuro, allora [sarà] la corona, in grande gloria» (15,8); «Ralle- gratevi per la sofferenza che ora patite! [... Piuttosto] preparate le vostre anime per quel che è custodito per voi e approntate le vostre anime alla mercede dispo- sta per voi» (52,6-7). Si veda anche il midrash Gen.R. 53,12 (trad. A. Ravenna): «La lettera bet ha il valore numerico di 2, da chi riconosce i 2 mondi [...]. Chiun- que riconosce i 2 mondi sarà chiamato tuo discendente [cioè di Abramo], ma chiunque non riconosce i 2 mondi non sarà chiamato tuo discendente».15

Per Paolo, dunque, da una parte c’è «il momento presente» (cf. anche 3,26), che sta a indicare non soltanto il periodo compreso tra la prima e la seconda venuta di Cristo quanto anche, in senso più generale, l’attuale esperienza storica dell’uomo e del cristiano nel mondo presente in quanto contrasta con quello futuro.16 Dall’altra, poi, c’è «la gloria futura» (cf. anche 1Pt 5,1), che rimanda oltre l’attuale periodo di sofferenze a un orizzonte di splendore, e che giustifica l’attuale esperienza di afflizione (è per questo che Paolo in 5,3 ha scritto che «ci vantiamo nelle tribolazioni»)! Lo stesso schema si ritrova in 2Cor 4,17-19: «Il temporaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smi- surata ed eterna di gloria, poiché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili; le cose visibili infatti sono momentanee, quelle invisibili

15 In generale, cf. anche D.S. RUSSELL, The Method and Message of Jewish Apocalyptic. 200 BC – AD 100, Westminster Press, Philadelphia 1964, 266-271. Inoltre: W. BINDEMANN, Die Hoffnung der Schöpfung. Römer 8,18-27 und die Frage einer Theologie der Befreing von Mensch und Natur, Neukirchener, Neukir- chen-Vluyn 1983, 82-95.

16 In ogni caso il concetto di kairós rimanda al tempo iniziato con l’evento-Cristo, che è comunque tempo di giustificazione, di riconciliazione e di pacificazione con Dio, alla cui luce le sofferenze acquistano già comunque una connotazione diversa (cf. GIENIUSZ, Romans 8:19-30, 111-121).

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invece sono eterne». Ovviamente, ai due momenti si accompagnano due situa- zioni contrarie: rispettivamente, le sofferenze e la gloria. Il primo termine, pathē- mata, è tipico del lessico paolino, visto che nel Nuovo Testamento è attestato pre- feribilmente nel suo epistolario (nove volte su sedici),17 e indica sia le sofferen- ze apostoliche (cf. 2Cor 4,7-12) sia quelle comuni a tutti (cf. 1Cor 12,26; Fil 1,29; 1Ts 2,14). Il secondo, dóxa, che nel Nuovo Testamento è preferibilmente impie- gato per designare la gloria propria di Dio, assume qui una interessante conno- tazione antropologica come sinonimo di splendore, dignità, onore, piena riuscita di sé in quanto acquisizione umana (cf. anche 2,7.10; 8,21; 9,4.23b; inoltre: 1Cor 2,7; 15,43: «si semina nel disonore, risorge nella gloria»; 2Cor 3,7-18; 1Ts 2,6); il fatto che Paolo non parli solo di felicità o di beatitudine (cf. 4,6) dice che la sua prospettiva riguarda l’uomo tutto intero, compresa la sua trasformazione fisica. Perciò il verbo «rivelare» viene a significare un’affermazione o manifestazione in pienezza di questa dimensione, che il passivo suggerisce prodotta da Dio, anche se nel nostro versetto non è chiaro se si tratti dello svelamento di qualco- sa che è del tutto nuovo o di qualcosa che è già attualmente presente ma solo implicito (come suggerisce invece 1Gv 3,2).

Ci si può chiedere, infine, come intendere il complemento eis hēmâs: «in noi» oppure «per noi»? Certamente la dimensione della gloria in questione è di tipo antropologico: Paolo in prima battuta si interessa della sorte dell’uomo e in specie di quella del cristiano giustificato. Ma è comunque diverso intendere il costrutto in senso locale, come se eis equivalesse a en (= la novità escatologica si verificherà soltanto in noi uomini/cristiani),18 o in senso finale, come se si trat- tasse di un dativus commodi (= la novità si realizzerà per noi, a nostro vantaggio; oppure: sarà una rivelazione fatta a noi). A parte il fatto che non sembra avere molto senso parlare di una gloria soltanto interiore, il secondo significato si rac- comanda anche in base all’analogo uso dello stesso verbo apokalýptō con un pronome al dativo, impiegato da Paolo anche in 1Cor 2,10: «Queste cose Dio le ha rivelate (apekálypsen) a noi = per noi (hēmîn)»; 14,30; Fil 3,15: «Questo, Dio lo rivelerà (apokalýpsei) a voi = per voi (hymîn)»; Ef 3,5.

4. LA STORIA È NELLE MANI DI DIO

Abbiamo infine la presenza del concetto di rivelazione/manifestazione in Rm 9,14.23 con la presenza del verbo en-deíknymi nel v. 17. Bisogna riconoscere che abbiamo qui delle affermazioni piuttosto dure per quanto riguarda la libertà umana, come si vede nei vv. 15.18 e poi nella metafora di Dio come vasaio con la corrispondente distinzione tra «vasi d’ira» e «vasi di misericordia». Il tema della libertà umana viene sostanzialmente taciuto; ma non bisogna perdere di vista la

17 Cf. Rm 7,5; 8,18; 2Cor 1,5.6.7; Gal 5,24; Fil 3,10; Col 1,24; 2Tm 3,11; inoltre: Eb 2,9.10; 10,32; 1Pt 1,11; 4,13; 5,1.9.

18 Così Vg: in nobis.

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spiegazione di questo silenzio, derivante dall’insieme dell’argomentazione paoli- na e consistente nel fatto che l’apostolo intende piuttosto rispondere al proble- ma concernente la libertà di Dio e delle sue scelte, per dire che egli nel suo agire è del tutto indipendente e non condizionato.19

È dunque quanto mai evidente la forte sottolineatura di un radicale «teo- archismo» nei rapporti Dio-uomo; ma, in ogni caso e ancora una volta, ci si rife- risce a Dio in quanto indulgente e non in quanto punitore. È possibile che a que- sto proposito risuoni nella mente di Paolo la definizione di Dio, che si legge in Es 34,6-7a: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato» (Es 34,6-7a).20

Il v. 17 offre una nuova risposta al problema della libera elezione di Dio, mediante il riporto di un altro passo biblico: «Dice infatti la Scrittura al faraone: “Proprio per questo ti ho suscitato, perché (io) possa mostrare in te la mia poten- za (hópōs endeíxōmai en soì tēn dýnamín mou) e perché il mio nome possa esse- re divulgato su tutta la terra”». Nonostante alcune variazioni, il testo biblico cor- risponde sostanzialmente a quello greco di Es 9,16 LXX.21 Il senso proprio è che il faraone,22 nonostante la sua opposizione a Israele e al piano divino di sottrar- lo alla schiavitù, funziona comunque nelle mani di Dio come uno strumento posi- tivo che serve ai suoi disegni. Infatti, nella misura in cui la sua ostinata resisten- za venne finalmente vinta (cf. il racconto in Es 5–14, che comprende anche le dieci piaghe scatenate sull’Egitto), il nome di Dio risultò ancora più glorioso (si veda il canto di Mosè in Es 15,1-21).23 Lo scontro infatti è direttamente tra Dio e il faraone, tanto che il nome di Mosè viene addirittura taciuto;24 il complemen- to «in te» evidenzia bene il ruolo svolto dal faraone in persona. Qualcosa di ana- logo avverrà per un altro devastatore di Israele, Nabucodonosor, che Geremia qualificherà addirittura come «servo» di Dio in senso positivo, cioè in quanto servì comunque per portare a termine i suoi disegni (cf. Ger 27,6). Si delinea così

19 Cf. C. SANGUINETI, La funzione retorica e teologica di Romani 9 nel contesto della sezione 9–11, Uni- versità della S. Croce, Roma 2005, 228-229.

20 Di questo testo però verrebbe rifiutata la prosecuzione (cf. Es 34,7b: «... ma non lascia senza puni- zione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione»): que- sta concezione della sanzione divina sarebbe comunque poi stata superata dal profeta Ezechiele (cf. Ez 18).

21 Cf. la discussione in C.D. STANLEY, Paul and the Language of Scripture. Citation Technique in the Pauline Epistles and Contemporary Literature (SNTS MS 74), University Press, Cambridge 1992, 106-109; la variazione più vistosa è nel costrutto exēgeirá se, che sostituisce dietērēthēs, «sei stato conservato», ma che è più fedele all’ebraico hec␣e ̆madetîkā, «ti ho fatto stare in piedi» (secondo Stanley, il fatto che in questo caso Paolo sia più fedele al testo masoretico non dimostra che egli fosse in grado di correggere il greco con l’e- braico, ma che poteva usare un testo greco già corretto, poiché di norma egli segue il testo greco).

22 Storicamente si tratta con ogni probabilità di Ramesse II (1290-1224 a.C.); cf. A. GARDINER, La civiltà egizia, Einaudi, Torino 1971, 233-245.

23 Il TgN legge così il v. 16: «Io non ti ho lasciato sussistere per farti sentire bene, ma è per questo che ti ho lasciato sussistere: per farti vedere la potenza della mia forza e perché tu faccia conoscere il mio nome santo su tutta la terra».

24 Per Paolo, infatti, secondo la forma retorica della prosopopea è la Scrittura che «dice al faraone», sia in quanto Mosè passa in second’ordine, sia in quanto al faraone che è un gentile non parla direttamen- te Dio.

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un abbozzo di teologia della storia, secondo cui in ultima analisi è Dio che guida gli avvenimenti umani; e ancora una volta egli viene preposto a ogni decisione presa dall’uomo, persino a quelle apparentemente negative.

Infatti, il congiuntivo aoristo endeíxōmai esprime un proposito personale di Dio (infatti è lui che parla) consistente appunto nell’intento di «mostrare», quasi di far toccare con mano, comunque ancora una volta di manifestare/rivelare aper- tamente, la sua irresistibile conduzione degli avvenimenti. In questo caso è evi- dente che il riferimento viene fatto al passato dell’esodo di Israele dall’Egitto, quando appunto Dio rivelò la sua grandezza e «la destra del Signore ha fatto pro- dezze» (Sal 118,15). I cristiani vengono così ricondotti al mistero di Israele come popolo dell’alleanza, sul quale i gentili vengono innestati per grazia.25

5. PROSOPOGRAFIA BIBLICA

Nella nostra esposizione ci siamo limitati all’uso dello specifico lessico di rivelazione, applicato e scaglionato in quattro momenti diversi. Paolo non ci dà alcuna teoria sul concetto di rivelazione. Soprattutto egli non lo applica ai testi biblici in generale, come noi siamo abituati a fare. Però l’ampio ricorso alle sacre Scritture, con le formule «Sta scritto» oppure «La Scrittura dice» (e simili), lascia intendere che proprio in esse l’apostolo scorge la presenza rivelatrice della paro- la di Dio. Del resto, nessun altro scritto come la Lettera ai Romani abbonda così tanto in riferimenti all’Antico Testamento. Anzi, bisogna riconoscere che il succo della specifica tematica della lettera non starebbe neanche in piedi se lo si voles- se isolare dalle antiche Scritture di Israele. Solo le citazioni esplicite di quelle Scritture sono ben 45 (mentre la 1Cor ne ha appena una dozzina), anche se la tecnica del riporto testuale può variare.26 Soprattutto, molte di esse hanno una determinante funzione retorica nella stessa strategia argomentativa della lettera, come si vede già fin dal primo riporto biblico in 1,17 (= Ab 2,4). Se poi, oltre alle citazioni, si prendessero in esame le semplici allusioni bibliche, allora alla serie delle suddette citazioni si dovrebbe aggiungere qualche altra decina di casi. Alcune allusioni si possono intravedere pure rispetto alla letteratura greca paga- na, però in casi molto rari anche se interessanti.27

Sarebbe piuttosto interessante vedere come Paolo tratta gli antichi perso- naggi biblici ed eventualmente quale spessore storico o storico-salvifico egli rico-

25 Cf. R. PENNA, «Resto d’Israele e innesto dei gentili. La fede cristologica come modificazione del concetto di alleanza in Rm 9–11», in «Il verbo di Dio è vivo». Studi sul Nuovo Testamento in onore del car- dinale Albert Vanhoye, SI, a cura di J.E. AGUILAR CHIU – F. MANZI – F. URSO – C. ZESATI ESTRADA (AnBib 165), Pontificio istituto biblico, Roma 2007, 277-299.

26 Cf. STANLEY, Paul and the Language of Scripture, 83-184. Più in generale sulla tipologia cf. C.-B. JULIUS, Die ausgeführten Schrifttypologien bei Paulus (Europ. Hochsch.-Theol. 23.668), Frankfurt a.M. 1999. 27 Almeno tre allusioni di questo genere sono reperibili rispettivamente: in 2,14-15 circa la legge non scritta (cf. il concetto ellenistico del nómos ágraphos); in 5,7 circa il possibile caso di una morte in favore di un giusto (cf. il caso della mitica Alcesti); e in 7,19 circa il compiere il male che non si vorrebbe fare (cf. il caso di Medea in Euripide ripreso poi da Ovidio). Si potrebbero aggiungere elementi della sapienza gno-

mica nel capitolo 12.

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nosce loro, a prescindere dal nome di Gesù Cristo (di cui 33x con i due vocaboli uniti insieme e 34x con il secondo nome da solo), visto che comunque sono essi i portatori della rivelazione nella storia della salvezza.28

In sintesi, si possono fare le seguenti osservazioni.

a) La prima, di carattere generale, è che Paolo in Rm privilegia appunto la prosopografia, non la cronografia né la topografia, che invece in Gal erano pre- senti sia pur in termini elementari (cf. rispettivamente Gal 3,15–4,4 e 4,21-31). Per la verità, un accenno di cronografia si trova nel frequente uso degli avverbi nŷn- nyní, «ora, adesso» (per esempio 3,21.26: «nel tempo presente») e del più raro poté, «una volta» (due occorrenze: 7,9; 11,30, qui contrapposto a nŷn per segnare due diverse situazioni successive); ma essi sono sempre rivolti a indicare la novità del presente contrassegnato dalla grazia di Dio e dalla giustificazione del credente. Del resto, la frase en tôi nŷn kairôi, «nel tempo presente», in Rm 3,26 contestual- mente non fa riferimento a una storia precedente (che infatti nella sezione 1,18–3,20 non è stata né raccontata né accennata) ma solo a una diffusa situazione di peccato, cosicché il kairós va inteso in senso più qualitativo che cronologico.29 Va inoltre precisato che la topografia presente in Rm 5,14-33 (Gerusalemme, Illi- rico, Spagna) appartiene alla cornice epistolare e non all’argomentazione, come

28 Più ampi sviluppi in R. PENNA, «Da Adamo a Isaia. Prosopografia biblica nella Lettera ai Romani», in L. PADOVESE (ed.), Atti del VII Simposio di Tarso su s. Paolo apostolo, Pontificio ateneo antoniano, Roma 2002, 7-20. L’esame della prosopografia biblica in Rm dà i seguenti risultati. – Adamo è menzionato due volte in un solo versetto: 5,14bis; a esso si deve certamente aggiungere l’allusione presente nel sintagma «un uomo solo» nel precedente v. 12 (oltre che nell’«uno solo» dei vv. 15.16.17.18.19). – Dobbiamo poi notare l’espres- sione cumulativa «i padri» (hoi patéres), in evidente riferimento a Israele, non certo all’umanità. Essa è pre- sente due volte (cf. 9,5; 11,28). Si può discutere se con ciò si intendano designare globalmente le generazioni antiche nel loro insieme (così come in 1Cor 10,1 essa etichetta la generazione dell’esodo dall’Egitto) oppu- re soltanto i patriarchi post-diluviani dei racconti genesiaci. Che questo secondo significato vada preferito può essere suggerito dal fatto che sia Abramo (in 4,11.12bis.16.17) sia Isacco (in 9,10), e nessun altro, vengo- no esplicitamente definiti ciascuno «nostro padre». In particolare, mi sembra difficile che Paolo abbia volu- to includere Mosè tra i padri. Perciò intendo l’espressione in riferimento ai patriarchi di quei racconti, e sotto questo lemma pongo i nomi che vengono ripresi da Paolo: Abramo, Isacco, Giacobbe, Beniamino. – Abramo è menzionato nove volte, di cui sette nel solo capitolo 4 (vv. 1.2.3.9.12.13.16); le altre due sono in 9,7 e 11,1. Insieme a lui si trova due volte il nome della sua sposa Sara: 4,19; 9,9. – Isacco si incontra due volte: 9,7.10; a lui, in quest’ultimo versetto è associata anche la sposa Rebecca. – Giacobbe è pure menzionato solo due volte: 9,13; 11,26b. Ma il nome costituisce un caso a parte, poiché gli è associato pure il nome di Israele. Ora, alcu- ne volte questo conserva la sua originaria valenza individuale, come in 9,6a (prima occorrenza delle due ivi presenti).27, mentre negli altri casi si tratta del popolo ebraico in generale (cf. 9,6b.31; 10,19.21; 11,2.7.25.26a). Ma anche il nome di Giacobbe può implicare una dimensione collettiva in quanto eponimo: così è in 11,26b. A Giacobbe poi viene associato anche il fratello Esaù in 9,13, ma solo all’interno di una citazione profetica (= Ml 1,2-3). – Beniamino: solo in 11,1 come eponimo. – Viene poi Mosè: il nome del legislatore si incontra esplicitamente solo quattro volte: 5,14; 9,15; 10,5.19. Ma non è escluso che alcune volte sottostia alla sempli- ce menzione della Legge (come in 2,12-13.17-26; ecc.), che però in Rm conosce una semantica assai variega- ta (ma univoco è il caso del sintagma «le opere della legge»: 3,20.28). – Davide si trova tre volte: 1,3; 4,6; 11,9. – Elia: una sola volta in 11,2. – Osea: pure una volta sola in 9,25. – Isaia invece è nominato cinque volte: 9,27.29; 10,16.20; 15,12. – Infine, notiamo un triplice rimando a «i profeti» cumulativamente presi (1,2; 3,21; 11,3), di cui solo il terzo ha una dimensione narrativo-storiografica, mentre nei primi due casi il richiamo ha un semplice valore scritturistico-canonico. – In totale si tratta della menzione di 13 singole persone diverse. Se poi volessimo elencare questi nomi secondo la loro frequenza decrescente, risulterebbe la seguente sca- larità: Abramo 9x, Isaia 5x, Mosè 4x, Davide 3x, Adamo-Sara-Isacco-Esaù-Giacobbe 2x (ma a Giacobbe va aggiunto il nome di Israele 2x), Rebecca-Beniamino-Elia-Osea 1x.

29 Lo stesso si dica del sintagma katà kairón di 5,6 che non ha nulla a che fare con la prothesmía di Gal 4,1-4.

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avveniva invece in Gal. Emerge pertanto nella nostra lettera una forte concentra- zione di interesse sulla persona umana, tale che, se da una parte fa a meno delle coordinate spazio-temporali, sottolinea però la speciale importanza, sia del nuovo status dell’individuo in quanto raggiunto e marcato dalla redenzione, sia della rela- zione interpersonale immediata da parte del credente o del non credente con Dio e con Gesù Cristo, sia anche del rapporto con il passato storico-salvifico, dove alcu- ne persone hanno giocato un ruolo singolare.

b) La seconda osservazione riguarda la differenza tra Rm e tutte le altre let- tere paoline. Nessun’altra lettera documenta un ricorso tanto abbondante e vario alla prosopografia biblica. Il riferimento ad Adamo in 1Cor 15,22.45 ha una fun- zione fondamentalmente diversa. La menzione polemica di Eva in 2Cor 11,3 con- trasta con il silenzio di Rm. Solo Gal attesta un cospicuo ricorso alla figura di Abramo (10x) e una menzione di Isacco (Gal 4,28), dovuti a un’argomentazione analoga; ma la presenza di Abramo in 2Cor 11,22 («Sono essi del seme di Abra- mo? Anch’io lo sono») è secondaria, mentre Sara, Rebecca, Giacobbe ed Esaù non compaiono mai altrove; la menzione di Beniamino in Fil 3,5 ha lo stesso valo- re di Rm 11,1. Mosè si ritrova solo nelle due Lettere ai Corinzi e in forma diver- sificata: in 1Cor 9,9 («legge di Mosè» come Scrittura); 10,2 («tutti furono battez- zati eis Mōysēn») e in 2Cor 3,7.10.15 a proposito del velo posto sul suo volto. Il nome di Davide è assente dalle altre lettere autentiche, come anche quelli di Elia, Osea e Isaia. La conclusione che se ne può trarre a proposito di Rm è duplice, rispettivamente di tipo retorico e socio-religioso: da una parte, il ricorso alla pro- sopografia biblica serve a un’argomentazione ben precisa in prospettiva storico- salvifica; dall’altra, esso apre con ogni probabilità uno squarcio sulla situazione religiosa dei destinatari, che risultano più che mai affiatati con la storia d’Israele e quindi denotano una non trascurabile dimensione giudeo-cristiana.

c) In terzo luogo si può considerare la parabola seguita dai personaggi biblici all’interno della struttura argomentativa della lettera. Si comincia con la rilevanza cristologica di Davide (in 1,3). Si prosegue con la dimensione antropo- logica collegata a due tipi di figure: Abramo, modello positivo di fede (c. 4), e Adamo-Mosè, iniziatori negativi di una situazione rispettivamente segnata dal peccato e dalla sua causa storica che è la Legge (5,12-21). Si passa poi alla que- stione dell’elezione divina nei capitoli 9–11, espressa dai concetti di insindacabi- lità, resto, permanenza, e legata sia ai nomi dei grandi patriarchi e di alcune matriarche, che hanno recato in sé la dimensione storica dell’elezione, sia ai nomi di alcuni profeti (Elia, Osea, Isaia) che hanno particolarmente riflettuto o addi- rittura teorizzato il tema. In generale, dunque, si può dire che è Davide ad apri- re il ricorso paolino all’Antico Testamento, e ciò significa che il pensiero dell’a- postolo parte da Gesù Cristo. Ma alla fine è Isaia che sostanzia particolarmente la riflessione dell’apostolo sull’intero evento redentivo.30

30 Cf. F. WILK, Die Bedeutung des Jesajabuches für Paulus (FRLANT 179), Göttingen 1998.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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d) Una quarta considerazione riguarda in specie la preferenza data ad Abramo, il personaggio biblico più menzionato. La sua presenza soprattutto nella prima sezione (c. 4), e secondariamente nell’ultima (cc. 9–11) della prima grande parte della lettera (1,16–11,36), evidenzia il rilievo dato da Paolo alla fede e insieme alla convergenza di giudei e di gentili accomunati da questo solo crite- rio di giustificazione. Non a caso egli è presentato come il padre dei credenti.

e) Una quinta osservazione riguarda l’abbondanza della menzione dei per- sonaggi biblici nei soli capitoli 9–11: ben sette su tredici. La cosa si spiega per la prospettiva storico-salvifica che qui più che mai si svolge ampiamente. Non che Paolo ragioni in termini cronologici di prima-dopo; egli infatti è più interessato al tema dell’insindacabile elezione divina, sulla cui imperscrutabilità culmina non solo il capitolo 11 ma anche l’intera parte prima della lettera con una mira- bile dossologia (11,33-36). L’affollarsi delle figure bibliche conferma per parte sua il personalismo paolino.

f) In sesto luogo possiamo anche notare come l’attenzione diacronica di Paolo per i personaggi dell’Antico Testamento si fermi di fatto alla figura di Isaia, cioè al secolo VIII a.C., visto che egli certamente non pensava all’esisten- za di un Deutero e di un Trito-Isaia. Non viene menzionato nessuno dei perso- naggi successivi, né esilici né post-esilici. È difficile se non impossibile dedurre da qui che l’apostolo non conoscesse la storia d’Israele nel suo insieme. Ma certa- mente privilegia i periodi classici degli inizi, dei patriarchi, della monarchia, dei profeti. L’importante per lui è l’orientamento della storia a Cristo e al credente, ed evidentemente non trova altrove nomi di spicco che servano a questo scopo.

g) Un’osservazione a parte merita anche la posizione delle donne. Anzi- tutto, va notata l’assenza di Eva accanto ad Adamo. Diversamente da quanto avviene in qualche apocrifo contemporaneo, e non solo, dove si attribuisce la colpa del primo peccato soltanto o prevalentemente a lei (cf. già Sir 25,24 e poi Apoc. Mos. 8.11.14.32; Vit. Ad. Ev. 37-38; così pure 1Tm 2,14), Paolo qui pre- scinde totalmente da ogni responsabilità femminile, anche se almeno parzial- mente la cosa si spiega in base alla tipologia Adamo-Cristo.31 Per converso, la menzione delle matriarche Sara e Rebecca porta in primo piano non solo la loro funzione generatrice, ma ancor più il ruolo essenziale di queste donne nella sto- ria della salvezza come garanti della promessa divina.

h) Infine, va osservato che alcune importanti sezioni epistolari sono del tutto esenti dalla menzione di qualunque personaggio della Bibbia. Lo si consta- ta già nella sezione 1,18–3,20, dove Paolo descrive la condizione peccaminosa dell’intera umanità retta dal solo criterio della giustizia retributiva, e poi soprat- tutto nella sezione dei capitoli 6–8, dove egli medita sulla nuova condizione del cristiano che vive all’insegna del battesimo e dello Spirito di Cristo. È come se in entrambi i casi fosse superfluo richiamare nomi particolari, poiché tanto il pec-

31 La menzione di Eva in 2Cor 11,3 è condizionata dall’immagine immediatamente precedente della Chiesa corinzia che Paolo vuole presentare a Cristo come una fidanzata pura (cf. A. PITTA, La Seconda let- tera ai Corinzi, Roma 2006, 433-434).

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R. PENNA – Rivelazione e storia della salvezza nella Lettera ai Romani

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cato, prima, quanto la grazia, poi, interessano tutti gli esseri umani allo stesso modo. Qui entrano in gioco, rispettivamente, solo l’uomo con la sua personale responsabilità (si noti che non si parla mai neanche di una qualche figura diabo- lica)32 o solo Dio, che nelle figure di Gesù Cristo e del suo Spirito si dimostra totalmente hypèr hēmôn, «per noi» (8,31), come non si era mai mostrato prima.

6. CONCLUSIONE

Possiamo almeno rilevare il fatto che Paolo non utilizza il lessico di rive- lazione per applicarlo al futuro. La frase che leggiamo in 13,12a: «La notte è avanzata, il giorno si è avvicinato», anche se riprende la metafora del risvegliar- si dal sonno del precedente v. 11, di fatto non impiega alcun linguaggio «apoca- littico». Infatti la contrapposizione notte-giorno è unica nel suo genere. Un pre- cedente biblico si può trovare nell’interrogativo reiterato di Is 21,11: «Sentinel- la, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?», tanto sugge- stivo quanto poco perspicuo.33 Il parallelo più eloquente lo leggiamo nello stes- so Paolo: «Voi, fratelli, non siete al buio, cosicché il giorno vi sorprenda come un ladro; tutti voi infatti siete figli della luce e figli del giorno. Non siamo della notte né del buio. Perciò non dormiamo come gli altri, ma stiamo svegli e sobri. Quelli che dormono infatti dormono di notte e quelli che si ubriacano si ubria- cano di notte. Ma noi, essendo del giorno, restiamo sobri...» (1Ts 5,4-7). Là però manca il dinamismo del passaggio dalla notte al giorno, che invece caratterizza il nostro testo. Evidentemente qui la prospettiva è diversa: Paolo sottolinea non un passaggio già avvenuto (a livello ontologico, su cui si veda Rm 6,19-22), ma un passaggio ancora a venire (a livello escatologico, su cui si veda anche 8,18- 21). La notte, inserendosi sulla precedente immagine del sonno, diventa figura del presente tempo storico, non solo in quanto transeunte, ma soprattutto in quanto imperfetto e insidioso: non in se stesso, ma in quanto orientato a un ulte- riore superamento di ogni imperfezione (cf. 1Cor 13,12). È di questo decorso temporale che si attende la fine, peraltro con la certezza che esso è già in fase quanto mai avanzata. L’affermazione perciò ha il tono rassicurante di una buona notizia, tanto che la sua formulazione può richiamare quella meno imma- ginosa che si legge in Mc 1,15: «È vicino/ēggiken il regno di Dio»; di essa condi- vide almeno la semantica di un gioioso annuncio evangelico (cf. anche Fil 4,5: «Il Signore è vicino/eggýs»). Proprio la dinamica della successione dei due momen- ti, dove la certezza di una prossima uscita dalla notte equivale a quella di una

32 Soltanto in chiusura (16,20: «Il Dio della pace schiaccerà presto il satana sotto i vostri piedi»), con l’uso di un evidente semitismo, Paolo fa velocemente menzione de «l’avversario», assicurando ai cristiani di Roma una vittoria a breve scadenza su di lui, inteso sia come ispiratore dei falsi maestri dei precedenti vv. 17-18 sia come oppositore escatologico in prospettiva apocalittica. Ma il contesto non è argomentativo, bensì di saluto e di augurio.

33 Potrebbe trattarsi di una semplice richiesta dell’ora come segno di angosciosa impazienza (cf. L. ALONSO SCHÖKEL – J.L. SICRE DIAZ, I Profeti, Borla, Roma 1984, 218s) oppure di un interrogativo su quanto durerà l’oppressione di Israele (cf. B.S. CHILDS, Isaia, Queriniana, Brescia 2005, 169s).

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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prossima irruzione del giorno,34 occasiona l’esortazione a trarne le conseguenze sul piano etico.

Resta il fatto che Paolo predilige sostanzialmente il tempo storico, sia del passato sia del presente, come luogo privilegiato per l’affermarsi della rivelazio- ne di Dio e della manifestazione di ciò in cui consiste l’identità cristiana.35

34 Cf. 1Cor 4,5: «Il Signore porterà alla luce le cose nascoste nelle tenebre».

35 Cf. anche R. PENNA, «Pienezza del tempo e teologia della storia», in Vangelo e inculturazione. Studi sul rapporto tra rivelazione e cultura nel Nuovo Testamento, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, 729-745.

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Governati e governanti in vista del bene. Alcune riflessioni su Rm 13,1-7

GAETANO DI PALMA

L’uomo è definibile un «animale per natura politico», secondo la ben nota affermazione di Aristotele nella Politica.1 Infatti, nessun essere umano è auto- sufficiente, ma «l’uomo è essere politico e naturalmente portato a vivere in società».2 Quando dice «per natura», lo Stagirita non si riferisce a una condizio- ne previa, antecedente al sorgere dello Stato, bensì al fatto che soltanto nella polis l’uomo può realizzare se stesso e raggiungere il fine della felicità; in altre parole, la famiglia soddisfa i bisogni primari dell’alimentazione e dell’abitazione, il villaggio soddisfa il bisogno di commerciare e di difendersi, assicurando in tal modo il «vivere», mentre solo la città permette di «vivere bene», ossia di conse- guire l’euvdaimoni,a, dalla quale sono esclusi, invece, gli animali, che non hanno feli- cità, e gli dèi, che posseggono la beatitudine.3

È evidente, come osserva Giovanni Reale, che «Aristotele avrebbe dovuto definire l’uomo come “animale sociale”, invece che come “animale politico”; ma è altrettanto vero che, per fare questo, egli avrebbe dovuto poter distinguere la società dallo stato».4 Da questa distinzione, però, prosegue lo studioso, il filosofo era molto lontano, perché il suo radicamento nella mentalità greca era talmente profondo da non fargli comprendere che potessero esserci altre forme buone di Stato al di fuori della polis.

Con questa premessa sull’uomo «animale politico» e sulla felicità che gli può garantire la vita all’interno di un’organizzazione statale, introduciamo il nostro argomento, che prende spunto da un celebre testo della Lettera ai Roma- ni, che ha fatto molto discutere quasi si trattasse di un piccolo accenno di tratta-

1 ARISTOTELE, Politica I, 1253a,1-4: «evk tou,twn ouvn fanero.n o[ti tw/n fu,sei h` po,lij evsti,à kai. o[ti o` a;nqrw- poj fu,sei politiko.n zw|/on kai. o` a;polij dia. fu,sin kai. ouv dia. tu,chn h;toi fau/loj evstinà h' krei,ttwn h' a;nqrw- poj»; per la traduzione, C.A. VIANO (ed.), Politica e costituzione di Atene di Aristotele, UTET, Torino 1992, 66: «Da ciò dunque è chiaro che la città appartiene ai prodotti naturali, che l’uomo è un animale che per natura deve vivere in una città e che chi non vive in una città, per la sua propria natura e non per caso, o è un essere inferiore o è più che un uomo». Cf. anche ARISTOTELE, Politica I, 1253a,7.

2 ARISTOTELE, Etica nicomachea IX, 9,1169b,18-19: «politiko.n ga.r o` a;nqrwpoj kai. suzh/n pefuko,j»; per la traduzione, cf. ID., Etica nicomachea, testo greco a fronte, traduzione e commento di M. ZANATTA, Biblio- teca universale Rizzoli, Milano 1998, II, 806-807.

3 Cf. E. BERTI, In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, Roma- Bari 2008, 275-279.

4 G. REALE, Storia della filosofia antica. Platone e Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1992, II, 524-525.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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to di etica politica di Paolo.5 In realtà, l’apostolo non si prefigge l’obiettivo di delineare una dottrina politica; piuttosto, è conscio che le comunità cristiane erano inserite nella società e, vivendo nella caput mundi accanto a tanti altri gruppi di diverso orientamento religioso e culturale, erano composte da «anima- li sociali» in quanto contemporaneamente «spettatori» della trionfante rappre- sentazione del potere imperiale nella sua massima espressione e «attori» di quel- lo che poteva diventare, in prospettiva, un mutamento socio-culturale apportato dal vangelo.

1. I CRISTIANI SUDDITI DELL’IMPERO NEL I SECOLO

La nostra riflessione non può prescindere dal tratteggiare rapidamente, nonostante la scarsità dei dati e la difficoltà di interpretarli in modo meno ambi- guo, la presenza dei cristiani a Roma. «A tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata» (Rm 1,7), l’apostolo scrive intorno alla fine del terzo viaggio missionario, mentre era a Corinto, non prima del 54 e non dopo il 58 d.C.; la lettera si colloca storicamente tra la fine del principato di Claudio (Tiberius Claudius Caesar Augustus Germanicus), che salì al trono il 25 gennaio del 41 e morì avvelenato il 13 ottobre del 54, e i primi anni di quello di Nerone (Nero Claudius Caesar Augustus Germanicus), proclamato imperatore in quello stesso giorno e morto suicida il 9 giugno del 68.

Paolo scrive, quindi, ai credenti in Cristo che erano a Roma, in maggioran- za di provenienza giudaica, che si riunivano in almeno cinque gruppi, stando a Rm 16,3-15. Si può contare, infatti, l’evkklesi,a che si riunisce in casa di Prisca e Aquila (cf. 16,5a), «quelli del gruppo di Aristobulo» (cf. 16,10), «quelli che appar- tengono a Narcisso» (cf. 16,11), «Asincrito, Flegonte, Ermes, Patroba, Erma e i fratelli che sono con loro» (cf. 16,14) e, infine, «Filologo e Giulia, Nereo e sua sorella, Olimpas e tutti i santi che sono con loro» (16,15).6 Sorgono, però, delle domande: da quanto tempo esistevano tali comunità? Quale percezione le auto- rità romane avevano del fenomeno cristiano? Nel dibattito le posizioni sono

5 Cf., ad esempio, alcuni primi riferimenti bibliografici: E. KÄSEMANN, «Principles of Interpretation of Romans 13», in New Testament Questions Today, SCM, London 1969, 196-216; J. HOWARD YODER, «Let Every Soul Be Subject: Romans 13 and the Authority of the State», in The Politics of Jesus, Eerdmans, Grand Rapids, MI 1972, 193-214; M. BORG, «A New Context for Romans XIII», in New Testament Studies 19(1973), 205-218; J.T. REESE, «Pauline Politics: Rom 13:1-7», in Biblical Theological Bulletin 3(1973), 232-331; R. HEI- LIGENTAHL, «Strategien Konformer Ethik im Neuen Testament am Beispiel von Röm 13.1-7», in New Testa- ment Studies 29(1983), 55-61; H.J. VENETZ, «Zwischen Unterwerfung und Verweigerung. Widerspruchliches im Neuen Testament? Zu Röm 13 und Offb 13», in Bibel und Kirche 43(1988), 153-163; B.W. WINTER, «The Public Honouring of Christian Benefactors. Romans 13.3-4 and 1 Peter 2.14-15», in Journal for the Study of the New Testament 34(1988), 87-103; J.I.H. MCDONALD, «Romans 13.1-7: A Test Case for New Testament Interpretation», in New Testament Studies 35(1989), 540-549; S.E. PORTER, «Romans 13:1-7 as Pauline Politi- cal Rhetoric», in Filologia neotestamentaria 3(1990), 115-139; J.F. RACINE, «Romans 13,1-7: Simple preserva- tion de l’ordre social?», in Estudios Biblicos 51(1993), 187-205; T.L. CARTER, «The Irony of Romans 13», in Novum Testamentum 46(2004)3, 209-228.

6 Cf. R. PENNA, «La Chiesa di Roma come test del rapporto tra giudaismo e cristianesimo alla metà del primo secolo», in ID., Paolo e la Chiesa di Roma, Paideia, Brescia 2009, 56-58.

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G. DI PALMA – Governati e governanti in vista del bene

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alquanto divergenti, benché prevalgano quelle «minimaliste», per le quali le autorità avrebbero preso in considerazione il fenomeno cristiano alquanto tardi. Bisogna, con onestà, ricordare la tesi – un po’ ardita – di Marta Sordi, secondo la quale le autorità romane al massimo livello, in particolare l’imperatore Tiberio e il suo inviato in Siria e Palestina, Lucio Vitellio, vennero a conoscenza del movi- mento cristiano quando esso era ancora in Giudea.7

Sordi, infatti, diversamente dal parere della maggioranza degli studiosi, ritiene storica una notizia riportata da Tertulliano, secondo il quale Tiberio, dopo la relazione di Ponzio Pilato, avrebbe presentato la proposta al senato di ricono- scere Cristo come dio. I senatori, però, si sentirono «scavalcati» nelle loro prero- gative e opposero un vizio di procedura: poiché non era stato il senato a ordina- re la raccolta della documentazione, la richiesta del principe doveva essere inva- lidata e il culto cristiano dichiarato superstitio illicita. L’imperatore, tuttavia, pose il veto ad accuse contro i cristiani.8 Lo scrittore africano stava cercando di dimo- strare che, nonostante il senatoconsulto dell’epoca di Tiberio, nel 35, riecheg- giante nella frase «non licet esse vos»,9 i cristiani avevano diritto a praticare il loro culto in quanto erano penalizzati da una legge ingiusta, della quale si servi- rono gli imperatori cattivi come Nerone. Secondo il ragionamento dei sostenito- ri di tale tesi, Tertulliano non avrebbe avuto alcun interesse a ricordare questo senatoconsulto, per cui ne ammetteva l’esistenza ma lo dichiarava ingiusto.10

Una conferma dell’esistenza di tale provvedimento del senato si trovereb- be in Eusebio di Cesarea, che vi accennerebbe velatamente a proposito del mar- tirio di Apollonio;11 un’ulteriore fonte indiretta sarebbe, infine, un frammento

7 Rimandiamo a M. SORDI, I cristiani e l’impero romano, Jaca Book, Milano 2004, 15-29. Lucio Vitel- lio, vissuto tra il 5 e il 51 d.C., padre dell’imperatore Aulo Vitellio, fu mandato da Tiberio in Siria, dove svol- se un ruolo importante nella politica romana verso i parti e gli armeni: cf. TACITO, Annales VI, 32, in C. QUE- STA – B. CEVA (edd.), Publio Cornelio Tacito. Annali, Rizzoli, Milano 1997, I, 408. Fu lui che ordinò a Pilato di far ritorno a Roma nel 36, a seguito degli scontri con i samaritani presso il monte Garizim: cf. FLAVIO GIU- SEPPE, Antiquitates iudaicae XVIII, 4,2[88], in ID., Storia dei giudei da Alessandro Magno a Nerone (Antichità giudaiche. Libri XII-XX), introduzione, traduzione e note a cura di M. SIMONETTI, Mondadori, Milano 22003, 416.

8 TERTULLIANO, Apologeticus V, 2: «Tiberius ergo, cuius tempore nomen christianum in saeculum intravit, annuntiatum sibi ex Syria Palaestina, quod illic veritatem istius divinitatis revelaverat, detulit ad senatum cum praerogativa suffragii sui. Senatus, quia non ipse probaverat, respuit; Caesar in sententia man- sit, comminatus periculum accusatoribus christianorum» (CChL 1,94-95). Cf. SORDI, I cristiani e l’impero romano, 27-28, dove è indicata la bibliografia a sostegno della storicità del testo tertullianeo; tra i contrari, cf. B. GAGLIARDI, «Considerazioni sull’atteggiamento di Tiberio di fronte al dogma della divinità di Cristo», in Miscellanea di studi storici (Cosenza, Università degli Studi della Calabria, Dipartimento di Storia) 11(1998-2001), 47-54.

9 TERTULLIANO, Apologeticus IV, 4: CChL 1,93.

10 Il ruolo del senato non era stato annullato, ma depotenziato nel riassetto «costituzionale» di Otta- viano Augusto. Un senatoconsulto era emanato su proposta del principe, il quale lo esponeva di persona, o tramite un magistrato, nell’oratio in senatu habita. All’epoca di Augusto il senato aveva competenza sulla repressione di delitti come il crimen maiestatis e il crimen repetundarum, mentre al tempo di Tiberio tale competenza si estese a ogni tipo di reato in cui fossero coinvolti senatori o cavalieri. Cf. B. SANTALUCIA, Dirit- to e processo penale nell’antica Roma, Giuffrè, Milano 21998, 233-241; L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Storia di Roma tra diritto e potere, Il Mulino, Bologna 2009, 299-302.

11 Cf. EUSEBIO DI CESAREA, Historia ecclesiastica V, 21,4: SCh 41,64. Egli aveva consultato gli Atti del martirio di Apollonio, che furono riscoperti alla fine del XIX secolo e di cui abbiamo una recensione arme-

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porfiriano.12 Tiberio, quindi, avrebbe proposto il senatoconsulto per risolvere motivi di tensione sociale, provocata da ragioni religiose, in una provincia tur- bolenta come la Giudea; egli avrebbe inteso fare con i cristiani ciò che era già stato fatto con i samaritani, ormai sottratti al controllo religioso delle autorità giudaiche.

La conoscenza del movimento cristiano sarebbe diventata più precisa con la sua comparsa a Roma, all’epoca di Claudio. Sordi, interpretando fonti patri- stiche e rifacendosi agli studi di Carsten Peter Thiede, sostiene che Pietro sareb- be stato a Roma nel 42 a seguito della fuga da Gerusalemme, dove era stato imprigionato da Erode Agrippa I, che governò la Giudea tra il 41 e il 44, anno nel quale morì.13 Tutto si basa sul modo d’intendere At 12,17 in cui, al termine della narrazione della miracolosa liberazione di Pietro dalla prigione, si afferma che costui se ne andò in un altro luogo (evporeu,qh eivj e[teron to,pon).14 La perma- nenza di Pietro a Roma, ospite addirittura di illustri membri dell’aristocrazia senatoria, si sarebbe protratta almeno fino al 44 o, al più tardi, fino al 46, poiché è attestata la sua presenza a Gerusalemme nel 48, quando si tenne il cosiddetto concilio narrato in At 15,1-29.

Se accettassimo tale tesi, dovremmo dare un assenso all’origine petrina della Chiesa di Roma, che contrasta, tra l’altro, con l’esplicita affermazione del- l’Ambrosiaster, secondo il quale essa sarebbe sorta senza vedere segni, miracoli e apostoli.15 Non è questa l’unica obiezione, in quanto si potrebbe aggiungere che Paolo, il quale indirettamente accenna alla conoscenza personale di Pietro da parte dei corinzi (cf. 1Cor 1,12; 9,5; 15,5) e dei galati (cf. Gal 1,18; 2,7-9.11-14) in conseguenza di un suo passaggio a Corinto e in Galazia, non fa invece alcuna menzione di una precedente permanenza del pescatore di Galilea a Roma.16

Esclusa tale possibilità di un’origine petrina del cristianesimo a Roma, accenniamo a un’altra questione, riguardante il primo dei cinque gruppi di cre- denti romani, cioè l’evkklesi,a che si riunisce in casa di Prisca e Aquila (cf. 16,5a), i quali sono menzionati anche in At 18,2-3: «Qui trovò un Giudeo di nome Aqui-

na e una greca. Per la traduzione italiana, cf. G. CALDARELLI (ed.), Atti dei martiri, Ed. Paoline, Milano 1996, 154ss. Apollonio, uomo di grande cultura, fama e nobiltà, fu martirizzato verso il 185 all’epoca dell’impera- tore Commodo. Di lui parla anche GIROLAMO, De viris illustribus V, 2, in ID., Gli uomini illustri, Città nuova, Roma 2000, 129.

12 Cf. M. SORDI – I. RAMELLI, «Il senatoconsulto del 35 in un frammento porfiriano», in Aevum 78(2004), 59ss.

13 Erode Agrippa I fece uccidere Giacomo fratello di Giovanni e arrestare Pietro per compiacere le autorità religiose giudaiche (cf. At 12,1-3). Su questo personaggio storico, cf. E. SCHÜRER, Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo (175 a.C. – 135 d.C.), edizione diretta e riveduta da G. VERMES – F. MILLAR – M. BLACK, Paideia, Brescia 1985, I, 540-554.

14 Cf. C.P. THIEDE, «Babylon der andere Ort», in Biblica 67(1986), 532ss; ID., Simon Pietro. Dalla Galilea a Roma, Massimo, Milano 1999, 228-235. Non fanno alcun cenno a tale tesi due recenti saggi su Pie- tro: cf. J. GNILKA, Pietro e Roma. La figura di Pietro nei primi due secoli, Paideia, Brescia 2003; M. MAZZEO, Pietro. Roccia della Chiesa, Ed. Paoline, Milano 2004.

15 Cf. AMBROSIASTER, Commento alla Lettera ai Romani, a cura di A. POLLASTRI, Città nuova, Roma 1984, 35.

16 Rimandiamo per altri riferimenti a R. PENNA, Lettera ai Romani, 1: Rm 1–5, EDB, Bologna 2004,

20ss.

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G. DI PALMA – Governati e governanti in vista del bene

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la, nativo del Ponto, arrivato poco prima dall’Italia, con la moglie Priscilla, in seguito all’ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i giudei. Paolo si recò da loro e, poiché erano del medesimo mestiere, si stabilì in casa loro e lavorava. Di mestiere, infatti, erano fabbricanti di tende». L’espressione lucana dia. to. dia- tetace,nai Klau,dion cwri,zesqai pa,ntaj tou.j VIoudai,ouj avpo. th/j Rw,mhj risulta alquanto generica; Priscilla e Aquila si trovavano a Corinto in seguito al provve- dimento di Claudio del 49, con il quale egli aveva espulso da Roma gli ebrei.17 Era possibile espellere dalla capitale una popolazione che si aggirava tra le 20.000 e le 30.000 persone? Prima di proseguire, ricordiamo il celebre e molto discusso testo di Svetonio, il quale riferisce il medesimo fatto: «Iudaeos impulso- re Chresto assidue tumultuantis Romae expulit».18

L’espulsione degli ebrei da Roma fu un provvedimento certo non nuovo, perché già praticato da Tiberio nel 19; però il problema riguarda la misura e la causa. Cominciamo dalla seconda, ossia dall’ablativo assoluto impulsore Chre- sto: non intendiamo ripetere qui il dibattito sintetizzato altrove, per cui ritenia- mo che lo scrittore latino volesse indicare in Cristo «l’istigatore» dei tumulti che agitavano gli ebrei di Roma, presso i quali era ormai giunto l’annuncio cristia- no.19 I riflessi sull’ordine pubblico del dibattito sul riconoscimento di Gesù Cri- sto quale «messia» dovettero essere stati abbastanza vivaci, al punto da attirare l’attenzione delle autorità, le quali disposero l’espulsione di quei giudei di più recente arrivo a Roma e che non avevano la cittadinanza romana, tra cui i coniu- gi – senz’altro già cristiani – Aquila e Priscilla, che forse avevano partecipato ai disordini, oppure degli esponenti più in vista della dozzina di sinagoghe allora esistenti in città.20

Il provvedimento del 49, quindi, fu motivato dal mantenimento dell’ordine pubblico, compromesso dall’animosità – forse non solo verbale – del confronto

17 Tale data si basa sulla notizia contenuta in OROSIO, Historia adversus paganos VII, 6,15: «Anno eiusdem nono expulsos per Claudium Urbe Iudaeos Iosephus refert. Sed me magis Svetonius movet, qui ait hoc modo: “Claudius Iudaeos impulsore Cristo adsidue tumultuantes Roma expulit”» (ID., Le storie contro i pagani (libri V-VII), a cura di A. LIPPOLD, trad. di G. CHIARINI, Fondazione Lorenzo Valla – Arnoldo Mon- dadori, Milano 1976, II, 264).

18 CAIO SVETONIO TRANQUILLO, Vita di Claudio 25,4, in F. DESSÌ (ed.), Caio Svetonio Tranquillo. Vite dei Cesari, testo latino a fronte, Rizzoli, Milano 122001, II, 530-532; per un profilo storico della diaspora giudai- ca a Roma, cf. J.M.G. BARCLAY, Diaspora. I giudei nella diaspora mediterranea da Alessandro a Traiano (323 a.C. – 117 d.C.), Paideia, Brescia 2004, 270-303 (sul periodo di Claudio, cf. 288-292).

19 Cf. R. FABRIS, Atti degli apostoli, Borla, Roma 1977, 540; G. ROSSÉ, Atti degli apostoli. Commento esegetico e teologico, Città nuova, Roma 1998, 655-656; J.A. FITZMYER, Gli Atti degli apostoli. Introduzione e commento, Queriniana, Brescia 2003, 649-651; PENNA, Lettera ai Romani, I, 23-24. Marta Sordi sostiene inve- ce che il Chresto di Svetonio debba identificarsi con un ignoto ebreo di Roma: cf. SORDI, I cristiani e l’impe- ro romano, 43.

20 Oltre a quanto già citato nella nota precedente, cf. ancora P. SINISCALCO, «Il cristianesimo nella società romana. Le origini della comunità cristiana a Roma: secoli I e II», in L. PANI ERMINI – P. SINISCALCO (edd.), La comunità cristiana di Roma, 1: La sua vita e la sua cultura dalle origini all’alto medioevo, Libre- ria editrice vaticana, Città del Vaticano 2000, 17-36, spec. 17-26; S. LÉGASSE, «Le altre vie della missione (dal- l’oriente a Roma)», in J.-M. MAYEUR – C. E L. PIETRI – A. VAUCHEZ – M. VENARD (edd.), Storia del cristianesi- mo. Religione-politica-cultura. Il nuovo popolo (dalle origini al 250), Borla-Città nuova, Roma 2003, 176- 178; P. LAMPE, From Paul to Valentinus. Christians at Rome in the First Two Centuries, T&T Clark, London 2003, 11-16.

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tra giudei rimasti tali e giudei che avevano accettato Cristo quale messia. I roma- ni, infatti, pur non nutrendo generalmente grande stima per le religioni stranie- re, preferivano non interferire e lasciavano libertà di culto. Ciò valeva per i giu- dei come per i cristiani, che iniziavano a essere sempre più noti alle autorità, secondo quanto dimostrano gli incontri di Paolo con importanti funzionari delle province: Sergio Paolo a Pafo, sull’isola di Cipro (cf. At 13,6-12), Lucio Giunio Gallione a Corinto (cf. At 18,12-17), Marco Antonio Felice (cf. At 24) e Porcio Festo (cf. At 25–26) a Cesarea Marittima.

Per Santo Mazzarino l’intervento di Claudio è da considerarsi il primo atto dello scontro tra impero e cristianesimo.21 Siamo del parere, tuttavia, che il primo, consapevole e ampio intervento persecutorio contro i cristiani avvenne in occasione dell’incendio di Roma del 64, ad opera di Nerone;22 con questa data, però, siamo ben oltre la Lettera ai Romani, all’epoca della quale non era preve- dibile un mutamento della tradizionale tollerante prassi dell’autorità romana. Si può senz’altro desumere, allora, che tra il 49 e il 50 i gruppi cristiani si distin- guessero sempre più dalle comunità sinagogali e che tale differenza divenisse gradatamente più netta anche agli occhi dell’autorità imperiale.

2. LA COLLOCAZIONE E LA STRUTTURA DI RM 13,1-7

Le piccole comunità cristiane sapevano di non essere ignote alle autorità e – possiamo immaginarlo – certamente non desideravano essere colpite da provve- dimenti repressivi di qualsiasi tipo. A questa preoccupazione potrebbe essersi rife- rito Paolo in un punto determinato della lettera, corrispondente al nostro brano, che si trova nella sezione paracletica. Infatti, com’è noto, in Rm 12,1 comincia un’u- nità letteraria che si conclude in 15,13; essa è nettamente distinta dalla sezione kerygmatica, terminante in 11,36, e dal poscritto epistolare, iniziante in 15,14.

A sua volta, questa unità letteraria paracletica, secondo la proposta di Antonio Pitta, si compone di due parti: 12,1–13,14 e 14,1–15,13. Nella prima sono raccolte esortazioni di vario genere, a cui appartiene anche il nostro brano, men- tre nella seconda l’apostolo parla dell’accoglienza che i «forti» sono tenuti a riservare ai «deboli». Tornando alla prima parte, essa tratta del culto spirituale (12,1-2), della moderazione nella vita comunitaria (12,3-8), dell’agape quale ideale del bello e del buono (12,9-21), della sottomissione alle autorità civili (13,1-7), dell’agape come compimento della Legge (13,8-10) e, infine, dell’attesa del giorno del Signore (13,11-14).23

21 Cf. S. MAZZARINO, L’impero romano, Laterza, Roma-Bari 1973, I, 201.

22 Su questo imperatore, rimandiamo al saggio di E. CHAMPLIN, Nerone, Laterza, Roma-Bari 2005, che individua in tale complesso personaggio la continua ricerca di trasformare la propria vita in un’opera d’arte teatrale, che l’ha mosso a compiere anche gesti di raccapricciante atrocità. Naturalmente, lo studioso non ha affatto la pretesa di giustificarlo.

23 Cf. A. PITTA, Lettera ai Romani, Ed. Paoline, Milano 2001, 418. Sul ruolo unificante che assume l’a- gape in Rm 12–13, cf. pure J.-N. ALETTI, «La soumission des chrétiens aux autorités en Rm 13,1-7. Validité des arguments pauliniens?», in Biblica (2008), 457-476, spec. 462-466.

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Si discosta, per alcuni punti, la proposta di Romano Penna, secondo il quale la prima parte di questa unità letteraria va suddivisa in 12,1-2, che costi- tuirebbe una propositio ethica che conferisce il tono all’intera sezione; in 12,3-16, che s’interessa dei rapporti all’interno della comunità, in particolare dei carismi ecclesiali (12,3-8) e dell’amore vicendevole (12,9-16); in 12,17–13,7, che affronta il tema dei rapporti con l’esterno, ossia con gli altri esseri umani (12,17-21) e con le autorità (13,1-7); infine, in 13,8-14, che offre una sintesi dei fondamenti del- l’ethos cristiano, ossia l’agape (13,8-10) e l’attesa escatologica (13,11-14).24 Seb- bene la suddivisione di entrambi gli studiosi sia sostanzialmente convergente, la proposta di Penna ci sembra rendere meglio ragione del modo con cui l’aposto- lo ha organizzato la sua paraclesi, la quale, quindi, presentandosi meno disorga- nica di quanto sembri a prima vista, fa apparire il nostro testo ben inserito nel contesto di Rm 12,1–13,14.25

Per quanto concerne l’articolazione interna del brano, sono diverse le pos- sibilità. Noi propendiamo per una struttura che inizi con l’esortazione generale a essere sottomessi alle autorità civili (v. 1a), in quanto esse sono state stabilite da Dio (vv. 1b-2) per promuovere chi compie il bene e reprimere chi agisce male, concludendo che la sottomissione alle autorità non può essere motivata dal solo timore, ma soprattutto da «ragioni di coscienza». Dopo l’esempio del pagamen- to delle tasse (v. 6), nella conclusione si raccomanda di dare a ciascuno ciò che gli spetta:

Esortazione generale v. 1a Ciascuno sia sottomesso (u`potasse,sqw) alle autorità (evxousi,aij) costituite. Dipendenza delle autorità da Dio vv. 1b-2 Infatti non c’è autorità (evxousi,a) se non da Dio:

quelle che esistono sono stabilite da Dio. 2Quindi chi si oppone all’autorità (evxousi,a|), si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono attireranno su di sé la condanna.

Autorità per promuovere il bene e reprimere il male

vv. 3-4

I governanti (a;rcontej) infatti non sono da temere quando si fa il bene (tw|/ avgaqw|/ e;rgw|), ma quando si fa il male. Vuoi non aver paura dell’autorità (evxousi,an)? Fa’ il bene (to. avgaqo.n) e ne avrai lode, 4poiché essa è al servizio di Dio (qeou/ ga,r dia,konoj) per il tuo bene (eivj to. avgaqo,n). Ma se fai il male, allora devi temere, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio (qeou/ ga,r dia,konoj) per la giusta condanna di chi fa il male.

24 Cf. R. PENNA, Lettera ai Romani, 3: Rm 12–16, EDB, Bologna 2008, 15-17.

25 Cf. PENNA, Lettera ai Romani, III, 83-85. In genere, i commentari discutono della possibilità che Rm 13,1-7 sia un corpo estraneo alla lettera; in realtà, un’attenta analisi della struttura del testo giustifica ampiamente il suo coerente inserimento nella sezione paracletica. Cf. S. LÉGASSE, «Paul et César, Romains 13,1-7: Essai de synthèse», in Revue biblique 101(1994), 519-524.

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Prima conclusione v. 5 Perciò è necessario stare sottomessi (uvpota,ssesqai),

non solo per timore della punizione,

ma anche per ragioni di coscienza.

Un esempio: pagare le tasse

v. 6 Per questo infatti voi pagate anche le tasse: quelli che svolgono questo compito sono a servizio di Dio (leitourgoi. ga.r qeou/).

Conclusione generale

v. 7 Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi si devono le tasse, date le tasse; a chi l’imposta, l’imposta; a chi il timore, il timore; a chi il rispetto, il rispetto.

Abbiamo riportato soltanto alcune parole in greco, per sottolineare l’im- portanza di determinati concetti che affronteremo, benché siamo consci del fatto che andrebbero commentati anche altri problemi che emergono.

3. IL POTERE VIENE DA DIO?

Il mondo antico possedeva una sua visione gerarchizzata della realtà, nella quale ognuno ricopriva il proprio ruolo. Il vertice dell’ordine era occupato da chi deteneva il potere, che non gli derivava da legittimazioni umane, benché gli anti- chi sapessero che la conquista del potere poteva avvenire con la violenza e con altri metodi come il consenso, ma dall’avallo divino. La sfera divina, cioè, «con- sentiva» al potente di turno di esercitare il proprio dominio e, in una logica d’in- terazione tra cielo e terra, quanto avveniva «in basso» non poteva che essere statogiàstabilito«inalto».Talemododipensarenonsopravvivenemmenonelle residue monarchie asiatiche, tanto meno può avere riscontri nelle democrazie occidentali, fondate sulla nozione del «popolo sovrano». Tra l’altro, dalle carte costituzionali dei vari Stati europei, risulta che soltanto pochi ne hanno una che nel preambolo contiene un riferimento a Dio.26

La nostra mentalità non ci conduce a vedere nulla di divino nell’esercizio della funzione politica, perché chi governa è eletto dal popolo. Le affermazioni di Paolo in merito alla provenienza del potere rispondono a una cultura diffe- rente, imperante nella totalità del mondo antico, che sembrerebbe alludere piut- tosto a quel principio che recita a Deo rex, a rege lex, valido in un ambito – ormai fortunatamente tramontato – che è quello della monarchia assoluta.

26 Cf. A.M. VEGA GUTIÉRREZ (ed.), Religión y libertades fundamentales en los países de Naciones Uni- das: textos constitucionales, Comares, Granada 2003. Tra i paesi dell’Unione europea, la Germania – e recen- temente l’Ungheria – richiama Dio nel preambolo, mentre Polonia, Grecia e Irlanda sottolineano il legame con una forma particolare di religione, il cristianesimo. A sua volta, la Slovacchia ricorda l’eredità spiritua- le di Cirillo e Metodio. Al di fuori dell’Unione europea, solo l’Albania, la Svizzera e l’Ucraina hanno nei preamboli dei riferimenti a Dio. Diverso è il caso degli Stati americani: su 36 sono 25 a presentare riferi- menti a Dio. Per quanto concerne l’Italia, la proposta di inserire un’invocazione a Dio nel preambolo della Costituzione fu avanzata da Giorgio La Pira, ma fu omessa anche per l’opposizione di Concetto Marchesi e Palmiro Togliatti. Cf. pure S. FERRARI, Dio, religione e Costituzione, in http://www.olir.it/areetemati- che/73/documents/FerrariS_Preamboli.pdf [visitato il 21.5.2011].

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I commentatori confermano, con ricchezza di documentazione, che Paolo non sostiene nulla di diverso da quanto era normalmente ritenuto in ambiente giudaico e pagano. I richiami biblici possono essere rintracciati in tutte le tradi- zioni: in quella storica e profetica, come 2Sam 12,8, Ger 27,5-7 e Is 45,1; in quel- la sapienziale, come Pr 8,15-16, Sir 4,27, 10,4 e Sap 6,1-3; infine, in quella apoca- littica, come Dn 2,21.37, 4,17.27 Tra i testi giudaici extra-biblici ricordiamo la Let- tera di Aristea e il Primo libro di Henoch.28

Interessante si rivela anche il confronto con un autore contemporaneo di Paolo, il retore e filosofo Lucio Anneo Seneca. Al giovane Nerone egli dedicò, nel 55 d.C., il De clementia, «ut quodam modo speculi vice fungerer et te tibi ostenderem perventurum ad voluptatem maximam omnium», in quanto «iuvat inspicere et circuire bonam conscientiam» (1,1,1). Il filosofo tratteggia bene il potere di cui dispone il princeps: infatti, tra tutti i mortali gli dèi hanno scelto (electus) lui a servire come loro vicario sulla terra (qui in terris deorum vice fun- gerer) e lo hanno posto come arbitro (arbiter) della vita e della morte sulle nazio- ni e sugli individui. Nonostante alcune evidenti consonanze con il testo paolino, non si può nascondere il fatto che Seneca, come fa notare Troels Engberg-Peder- sen, guardi le cose dal punto di vista di chi sta «in alto», mentre Paolo dal punto di vista di chi sta «in basso», dal momento che i destinatari sono diversi. D’al- tronde, l’obiettivo di Seneca è offrire a Nerone un ritratto di come dovrebbe essere, preferendo la clemenza alla pur giustificabile severità nei confronti degli uomini indisciplinati.29

Non sfugga, però, il ricorso alla bona conscientia da parte di Seneca30 e alla sunei,dhsij da parte di Paolo: benché da prospettive diametralmente opposte rispetto al filosofo, che parla della coscienza del principe, l’apostolo sostiene che la sottomissione all’autorità, stabilita da Dio, non deve avvenire per paura di una punizione (dia. th.n ovrgh.n), bensì per la sincera convinzione che l’autorità svolge

27 Per comodità del lettore, riportiamo qualcuno di questi brani. Pr 8,15-16: «Per mezzo mio regna- no i re e i principi promulgano giusti decreti; per mezzo mio i capi comandano e i grandi governano con giu- stizia»; Ger 27,5-7: «La terra, l’uomo e gli animali che sono sulla terra, li ho fatti io con la mia grande poten- za e con il mio braccio potente e li do a chi voglio. Ora consegno tutte quelle regioni in mano al mio servo Nabucodònosor, re di Babilonia; persino le bestie selvatiche gli consegno, perché lo servano. A lui, a suo figlio e al figlio di suo figlio saranno soggette tutte le nazioni, finché anche per il suo paese non verrà il momento stabilito e allora molte nazioni e re potenti lo assoggetteranno».

28 Lettera di Aristea 224: «Soddisfatto della risposta, [il re] disse al successivo: “Come essere libero dall’invidia?”. Dopo una pausa rispose: “Innanzitutto, se pensi che Dio divide fra tutti i re fama e grande quantità di ricchezze e che nessuno è re per sé; tutti infatti vorrebbero essere partecipi di questa posizione di prestigio, ma non possono. È, infatti, dono di Dio”» (Lettera di Aristea, in Apocrifi dell’Antico Testamen- to, 5: Letteratura giudaica di lingua greca, a cura di L. TROIANI, Paideia, Brescia 1997, 205); 1Hen 46,5: «Ed Egli [il Figlio dell’uomo] rovescerà i re dai loro troni e dai loro regni poiché non lo esaltano, non lo lodano e non (gli) si umiliano. Da dove è stato dato loro il regno?» (Libro di Enoc, in Apocrifi dell’Antico Testa- mento, a cura di P. SACCHI et al., TEA, Milano 1990, 115).

29 Su tale argomento, cf. T. ENGBERG-PEDERSEN, «Paul’s Stoicizing Politics in Romans 12–13: The Role of 13.1-10 in the Argument», in Journal for the Study of the New Testament 29(2006)2, 163-172, soprattutto 167-169. Sul parallelo tra l’etica paolina e quella di Seneca, cf. P. VINING, «Comparing Seneca’s Ethics in Epi- stulae Morales to Those of Paul in Romans», in Restoration Quarterly 47(2005)2, 83-104.

30 Seneca annetteva grande importanza alla coscienza: cf. M. POHLENZ, La Stoa. Storia di un movi- mento spirituale, Bompiani, Milano 2005, 660-662.

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un ruolo efficacemente positivo per la volontà di Dio, almeno in linea di princi- pio. Egli non si esprime così per ingenuità o entusiasmo, ma con la consapevo- lezza che i dominatori hanno avuto parte alla crocifissione di Gesù e che non sempre sono stati benevoli nei suoi confronti, come dimostrano gli accenni alle sue prigionie (cf. 2Cor 6,5; 11,23; inoltre, At 16,22-24). L’esercizio dell’attività di governo da parte dei funzionari romani, tuttavia, garantiva almeno quell’ordine e quella sicurezza necessari a sostenere una sufficiente vivibilità, che corrispon- de al bene voluto da Dio; perciò, l’apostolo ritiene di poter affermare che l’au- torità e i suoi rappresentanti, punendo chi commette il male e approvando chi compie il bene, ricoprono una funzione «diaconale» che si risolve a vantaggio dei credenti.31

Il ricorso alla coscienza non significa che Paolo «si pone più su un piano razionale e filosofico che non su quello teologico», perché «fornisce un’interpre- tazione genericamente teistica del rapporto fra i cittadini e l’autorità civile»,32 bensì comprendere che ci sono forti ragioni, che riconducono a Dio stesso, per le quali si è obbligati a essere leali con le autorità, in quanto la coscienza è piena- mente inserita nel quadro della relazione con Dio e ne consegue che non si può venir meno a un corretto rapporto con le autorità, che sono state stabilite da Dio (cf. 13,1-2).33

Queste considerazioni chiamano in causa anche il rapporto che, in gene- rale, Paolo ha avuto con l’impero romano. Non pochi studiosi hanno osservato che la sua cristologia si collocava in più o meno aperta contestazione dell’ideo- logia imperiale che, soprattutto nella parte orientale dell’impero, tendeva a pre- sentare il princeps come una divinità, approfittando dell’eredità delle monarchie ellenistiche.

Ne viene fuori una lettura «politica» senz’altro interessante, quale risulta, ad esempio, dagli studi di Tom Wright, per il quale non si deve correre il perico- lo di de-giudaizzare Paolo e nemmeno di de-politicizzarlo.34 Infatti, dai suoi scrit-

31 Cf. R.H. STEIN, «The Argument of Romans 13:1-7», in Novum Testamentum 31(1989), 325-343, spec. 333-336. Sulla sottomissione alle autorità, cf. pure il punto di vista di tre studiosi di area mennonita, nei quali emerge la convinzione che i cristiani devono rivoluzionare il sistema politico dall’interno, senza dimenticare che il primato spetta a Dio e che essi sono cittadini di due mondi: H.J. DICK, «The Christian and Authorities: Romans 13:1-7», in Direction 14(1985)1, 44-50; M.G. NEUFELD, «Submission to Governing Authorities: A Study of Romans 13:1-7», in Direction 23(1994)4, 90-97; J. ISAAK, «The Christian Community and Political Responsability: Romans 13:1-7», in Direction 32(2003)1, 32-46.

32 J.A. FITZMYER, Lettera ai Romani. Commentario critico-teologico, Piemme, Casale Monferrato 1999, 786.

33 Cf. STEIN, «The Argument of Romans 13:1-7», 339-340 e G. HERRICK, Paul and Civil Obedience in Romans 13:1-7, in http://bible.org/article/paul-and-civil-obedience-romans-131-7, 24-25 [visitato il 31.7.2010]. Tra autorità e sudditi occorre un rapporto di reciprocità: cf. J.A. DRAPER, «“Humble Submission to Almighty God” and its Biblical Foundation: Contextual Exegesis of Romans 13:1-7», in Journal of Theo- logy for Southern Africa 63(1988), 34.

34 Cf. N.T. WRIGHT, «The New Testament and the State», in Themelios 16(1990), 11-17; ID., «Paul and Caesar: A New Reading of Romans», in C. BARTHOLEMEW (ed.), A Royal Priesthood: The Use of the Bible Ethically and Politically, Paternoster Press-Zondervan, Carlisle-Grand Rapids, MI 2002, 173-193. Per uno status quaestionis, cf. E. DAL COVOLO, «Romani 13,1-7 e i rapporti tra la Chiesa e l’impero romano nel primo secolo», in S. GRAZIANI (ed.), Studi sul vicino oriente antico dedicati alla memoria di Luigi Cagni, Istituto uni-

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ti emerge chiaramente che egli vive nel «contesto imperiale», di cui fa la parodia e ne sovverte l’ideologia, inserendosi nell’ambito della ben nota critica giudaica al mondo pagano. Wright ammette che questa non è la preoccupazione domi- nante di Paolo, però invita a non sottovalutare la lettura politica, poiché l’apo- stolo vede se stesso come l’agente che si adopera per una nuova creazione, viven- do nella tensione tra il già e il non ancora. A suo parere, Paolo avrebbe compiu- to una radicale revisione di tre fondamentali cardini del credo giudaico: il mono- teismo, che da polemica contro l’idolatria diventa la base per gettare le fonda- menta della dottrina trinitaria; l’elezione, che da pretesa di esclusività si trasfor- ma in giustificazione per fede e creazione, in Cristo e nello Spirito, di un nuovo corpo; l’escatologia, che da vendetta di Dio contro i pagani che hanno oppresso Israele si evolve in liberazione, quale effetto della Pasqua, offerta a tutti. Su que- sta base, lo studioso inglese conclude che Paolo non aveva intenzione di trasfor- mare le comunità in versione cristiana degli zeloti.

Questa lettura non ci sembra molto sbilanciata come quelle verso le quali reagisce Joel White in un recente articolo su Biblica.35 Contestando la pretesa di tracciare un profilo di un «Paolo anti-imperialista», specialmente basandosi sulla cristologia, egli invita a cercare lo spessore «sovversivo» dell’apostolo nella sua condivisione dell’orizzonte dell’apocalittica giudaica ben rappresentata dal libro di Daniele e dalla sua concezione della storia. È vero, afferma White, che Paolo ha modificato lo schema usuale dell’apocalittica giudaica, assegnando il posto centrale a Gesù Cristo nel piano della salvezza divina, ma per il resto, «Paul sha- red the view of his Jewish contemporaries that the entire world order of that day, which was dominated by Rome in nearly all facets of life, represented the penul- timate stage of Heilgeschichte».36 In altre parole, Roma sarebbe quel quarto regno della visione di Daniele, dopo il quale giunge la parusia del Messia, con cui si conclude la storia.

Siamo del parere, però, che l’apostolo, pur interagendo per motivi storici e contingenti con le autorità romane, avesse intenzione di esporre un principio riguardante gli esseri umani in generale e, a maggior ragione, i credenti nei loro rapporti con l’autorità civile, anch’essa da intendere senza aggettivazioni qualifi- cative: se è giusta va obbedita, se è ingiusta va contrastata. Infatti, Paolo stesso non fa queste differenze37 e nemmeno consiglia di sottomettersi alle autorità con il pretesto della «diplomazia apostolica», secondo la simpatica espressione di Kosnetter, perché egli fa appello alla coscienza.38

versitario orientale, Napoli 2000, III, 1481-1492; W. CARTER, «Paul and the Roman Empire: Recent Perspec- tive», in M. DOUGLAS GIVEN (ed.), Paul Unbound: Other Perspectives on the Apostle, Hendrickson Publishers, Peabody 2010, 7-26.

35 Cf. J. WHITE, «Anti-imperial Subtexts in Paul: an Attempt at Building a Firmer Foundation», in Biblica 90(2009)3, 305-333.

36 WHITE, «Anti-imperial Subtexts in Paul», 333. 37 Non ha supporto, quindi, la convinzione di PORTER, «Romans 13:1-7 as Pauline Political Rhetoric»,

123. Roma 1963, 347-355.

38 Cf. J. KOSNETTER, Röm. 13,1-7: Zeitbedingte Vorsichtsmassregel oder grundsätzliche Einstellung?,

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Tali considerazioni sono motivate dal fatto che si vuole «salvare» Paolo dall’essere un supporto a un’ideologia di soggezione al potere politico, che non andrebbe mai messo in discussione da parte dei sudditi. Non dovremmo, invece, vedere nel testo più di quello che effettivamente si trova, perché l’obiettivo di Paolo non è stabilire delle regole e delle eccezioni, ma affermare il principio generale. Naturalmente, un’autorità che abusasse del proprio potere non agireb- be secondo la volontà di Dio; ciò non vuol dire che si è autorizzati a rifiutare l’au- torità in quanto tale, perché va salvaguardato il suo ruolo. Inoltre, «ogni autorità – anche quella deformata dall’abuso umano – viene da Dio nel senso che nei suoi piani essa ha una funzione da assolvere [...]. Per non cercare esempi troppo lon- tani, basta ricordare la figura del faraone di Rm 9,17».39

È vero che Paolo si sta rivolgendo alle comunità di credenti che si trova- no a Roma, ma non crediamo che sia un errore grave generalizzare il suo coman- do e applicarlo alla situazione odierna.40 Tra l’altro, per quale motivo dovrebbe possedere un carattere limitato alla sua epoca e per quella situazione specifica il brano in questione, mentre le altre parti della paraclesi avrebbero carattere «universale»?

Se vale il presupposto che nel testo non va cercato quello che non contie- ne, ciò vuol dire che per avere un’esaustiva risposta sul rapporto tra il cristiano e il potere si rende necessario un confronto con l’intera Bibbia. A titolo d’esem- pio, Norman I. Geisler ha fatto un elenco in cui sono contemplati i casi che giu- stificano una disobbedienza:41

quando il governo proibisce il culto a Dio (cf. Es 5,1); quando è richiesto di sopprimere la vita innocente (cf. Es 1,15-21); quando si chiede di uccidere dei servi di Dio (cf. 1Re 18,1-4); quando si costringe ad adorare idoli (cf. Dn 3,1-7); quando si comanda di pregare un uomo (cf. Dn 6,6-9); quando si proibisce la diffusione del vangelo (cf. At 4,17-20); quando si chiede di adorare un uomo come Dio (cf. Ap 13,4-8).

Si tratta, dunque, di una forma di disobbedienza che diventa una tutela della propria coscienza, giacché nessuna autorità dovrebbe ordinare quello che ripugna i principi e la coscienza di un essere umano.

4. IL «BENE»

Il libro della Sapienza afferma: «Dal Signore vi fu dato il potere e l’auto- rità dall’Altissimo; egli esaminerà le vostre opere e scruterà i vostri propositi: pur essendo ministri del suo regno, non avete governato rettamente (ovrqw/j) né avete

39 K. ROMANIUK, «Il cristiano e l’autorità civile in Romani 13,1-7», in Rivista biblica italiana 27(1979), 268.

40 A differenza di P.D. FEINBERG, «The Christian and Civil Authorities», in The Master’s Seminary Journal 10(1999)1, 98.

41 Cf. N.I. GEISLER, «A Premillennial View of Law and Government», in Bibliotheca sacra 142(1985),

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osservato la Legge, né vi siete comportati secondo il volere di Dio» (6,3-4). Nella tradizione biblica i sovrani vengono esortati a governare con giustizia, poiché hanno una grande responsabilità verso il popolo e verso Dio, da cui hanno rice- vuto il potere. La loro azione, quindi, non può che essere orientata al buon gover- no. Nel nostro brano, invece, Paolo non si rivolge ai governanti, bensì ai gover- nati, come è stato già rilevato;42 tuttavia, egli non omette di raccomandare di pre- stare il giusto ossequio alle autorità, agendo con lealtà. Perciò, riprendiamo quanto dice nei vv. 3-4:

3I governanti (a;rcontej) infatti non sono da temere quando si fa il bene (tw/| avgaqw/| e;rgw|), ma quando si fa il male. Vuoi non aver paura dell’autorità (evxousi,an)? Fa’ il bene (to. avgaqo.n) e ne avrai lode, 4poiché essa è al servizio di Dio (qeou/ ga,r dia,konoj) per il tuo bene (eivj to. avgaqo,n). Ma se fai il male, allora devi temere, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio (qeou/ ga,r dia,konoj) per la giusta condanna di chi fa il male.

Chi è soggetto all’autorità non ha nulla da temere se agisce bene; anzi, compiere il bene (to. avgaqo,n) procura lode e onore da parte loro,43 come Paolo si augura per rendere il messaggio cristiano più penetrante nella società romana. L’apostolo non sembra, quindi, indifferente all’acquisizione di una considerazio- ne sociale positiva di cui devono godere le comunità cristiane, quasi a presagire quanto accadrà in seguito, con l’accusa che Nerone lancerà ingiustamente contro i cristiani di essere gli artefici dell’incendio di Roma e con i ricorrenti pregiudizi che si diffonderanno nei decenni successivi.44 D’altronde, anche la società roma- na richiedeva di far valere il suo compito di instaurare un ordine, adoperando la spada per generare timore oppure il consenso, che implica l’interiorizzazione di determinati valori; non a caso, Paolo ha posto l’alternativa tra il timore e la coscienza. Possiamo dire che la società romana, da Augusto in poi, preferisse rag- giungere il risultato dell’integrazione con il consenso. È ciò che Theissen chiama «addomesticamento»,45 a cui Paolo avrebbe sottoposto il cristianesimo con

42 Cf. il tentativo di identificare il livello sociale delle comunità paoline nel contesto coevo: H. SZE- SNAT, «The Concept of Class and the Social-Scientific Interpretation of the New Testament: Some Observa- tions on the Analysis of Pauline Christianity in the Context of the Society of the Early Roman Principate», in Nederduitse Gereformeerde Teologiese Tydskrif 38(1997), 70-84. Cf. pure ID., «“Silently Farting in the Face of the Empire” [Review of Paul and the Imperial Roman Order, ed. R.A. Horsley, Harrisburg, PA: Trinity Press International, 2004]», in Political Theology 7(2006)1, 101-108.

43 Cf. B.J. MALINA, Nuovo Testamento e antropologia culturale, Paideia, Brescia 2008. Cf. pure S. ROMANELLO, «Il rispetto dell’autorità nella Lettera ai Romani (13,1-7): sue ragioni e prospettive per l’oggi», in Parola Spirito e Vita 51(2005), 177-195, spec. 187-191; P.F. ESLER, «Social Identity, the Virtues, and the Good Life: A New Approach to Romans 12:1-15–13:13», in Biblical Theology Bulletin 33(2003)2, 51-63.

44 Cf., ad esempio, F. RUGGIERO, La follia dei cristiani. La reazione pagana al cristianesimo nei secoli I-V, Città nuova, Roma 2002; R.L. WILKEN, I cristiani visti dai romani, Paideia, Brescia 2007.

45 G. THEISSEN, Sociologia del cristianesimo primitivo, Marietti, Genova 1987, 59: «Per “addomestica- mento” intendiamo qui la coercizione che fonda l’integrazione sociale. Da un punto di vista cognitivo essa

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quanto afferma in Rm 13,1-7, ma con poco successo, perché le vicende successi- ve l’hanno dimostrato. Infatti, esso non legittimava affatto l’ordine sociale, che prevedeva l’accettazione dell’imperatore quale dio in terra; al contrario, propo- neva l’appropriazione di quei valori – ad esempio, la clementia Caesaris, l’amore per l’altro quale filantropia, la bontà, il parcere victis – appannaggio dei ceti sociali alti e istruiti dalla filosofia, da parte di coloro che erano situati ai gradini più bassi della società, che li praticavano in maniera più radicale.46

L’invito a essere leali verso l’autorità agendo bene non esaurisce il discor- so paolino, in quanto c’è anche un «bene» che si riversa su chi lo compie: «Poi- ché essa è al servizio di Dio per il tuo bene (qeou/ ga,r dia,kono,j evstin soi. eivj to. avgaqo,n)». Nostro interesse è cercare di capire in che cosa consista tale bene, che l’autorità deve realizzare al servizio del suddito perché è essa stessa ordinata al servizio di Dio.

Paolo non sta parlando agli esponenti delle autorità, bensì ancora ai com- ponenti delle comunità di Roma, ai quali spiega che le medesime autorità, a cui si deve onore e rispetto, hanno un compito da svolgere a vantaggio loro e di tutta la società. Questo compito si risolve nel cooperare al bene di coloro che sono soggetti, nell’ottica della gestione della res publica, quindi della politica. Del bene nella politica troviamo cenni nella tradizione d’Israele e nella tradizione filosofica greca. Si pensi ai sommi Platone – in particolare nel dialogo Repubbli- ca – e Aristotele – ad esempio, nell’Etica nicomachea – a cui sono da aggiungere gli stoici e soprattutto Marco Tullio Cicerone, con l’opera De finibus bonorum et malorum. Per tali riferimenti rimandiamo ad altri saggi.47

Quanto a noi, vogliamo segnalare un breve testo di Plutarco, con il quale arricchire il novero delle testimonianze che dimostrano una certa sintonia tra Paolo e la cultura del suo tempo:

Polemone era solito dire che l’amore (e;rwta) è «un servitore incaricato dagli dèi di prendersi cura dei giovani (qew/n u`phresi/an eivj ne,wn evpime,leian kai. swthri,an)»: a mag- gior ragione si può dire che chi governa è un ministro di Dio addetto alla cura e al benessere degli uomini (tou.j a;rcontaj u`phretei/n qew/| pro.j avnqrw,pwn evpime,leian kai. swthri,an), attraverso il quale la divinità dispensa o protegge quanto vi è di bello e di buono (kalw/n kai. avgaqw/n).48

Plutarco nacque a Cheronea, in Beozia, verso il 46 d.C. e lì morì intorno al 120. Quando Paolo scrisse la Lettera ai Romani egli non si era ancora recato ad Atene per diventare discepolo di Ammonio. Infatti, fu nel 60 che raggiunse quel- la città, che esercitava ancora notevole attrattiva su coloro che cercavano una

si manifesta nella legittimazione della divisione della proprietà, del potere e del prestigio; da un punto di vista motivazionale, nell’interiorizzazione delle norme e delle loro sanzioni; da un punto di vista emoziona- le nella riduzione di tensioni socialmente indesiderate in situazioni di crisi sociali e individuali».

46 Cf. G. THEISSEN, La religione dei primi cristiani. Una teoria sul cristianesimo delle origini, Claudia- na, Torino 2004, 122-125.

47 Cf. PENNA, «La Chiesa di Roma come test del rapporto tra giudaismo e cristianesimo», 166-168.

48 PLUTARCO, Pro.j h`gemo,na avpai,deuton 3, in M. SCAFFIDI ABBATE (ed.), Plutarco. Consigli per i politici, testo greco a fronte, Newton & Compton, Milano 2005, 202-203.

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formazione culturale di alto livello, mettendosi alla scuola dei grandi intellettua- li dell’epoca. D’altronde, egli fu introdotto alla filosofia di Platone ed ebbe anche una carriera politica. La sua sensibilità per gli argomenti politici è nota; tra l’al- tro, secondo la sua convinzione il politico deve avere una formazione filosofica (Platone), ma non deve far pesare la sua cultura, al punto tale da disprezzare le opinioni altrui.

Con la citazione che abbiamo riportato non vogliamo dimostrare altro che, seppure da una prospettiva differente, anche per Plutarco la politica è orientata al bene:

Chi vi si accosta [alla politica] con giudizio e con una opportuna preparazione riesce a svolgere tutti i suoi compiti serenamente e nella giusta misura, né prova alcun rimor- so, poiché si pone come obiettivo di ogni sua azione soltanto il bene dei cittadini.49

La politica (politei,a) non è una funzione pubblica (leitourgi,a) avente come fine l’u- tile (crei,an), la politica è la vita stessa dell’uomo, di chi vive urbanamente e civilmen- te in una società di cittadini, che dedica la sua esistenza, per il tempo che gli è con- cesso, al bene della comunità, a quel che v’è di bello e buono, all’amore per gli uomi- ni (filanqrw,pwj), insomma.50

Per lui il politico svolge la medesima funzione che e;rwj presta ai giovani su comando degli dèi, al servizio del benessere (nel suo linguaggio swthri,a) dei cit- tadini. Naturalmente, la sua riflessione si presenta in maniera molto più ampia, articolata e meditata di quella di Paolo, che non aveva intenzione di avventurar- si su tali tematiche. Al contrario di Plutarco, che è conscio di essere ascoltato anche da personaggi politici – conobbe Nerone, Vespasiano e ricevette cariche e onori da Traiano e Adriano –, l’apostolo aveva un orizzonte più modesto: le comunità romane, nelle quali certamente sarebbe stato molto difficile trovare consoli o procuratori di Augusto.

5. CONCLUSIONI

Il nostro breve itinerario è iniziato prendendo atto della consapevolezza di Paolo riguardante l’inserimento delle comunità di credenti in Cristo nella società. Nel caso specifico, tale società corrisponde a quella fiorente nella Roma imperiale del I secolo.51 La conoscenza che abbiamo dei rapporti intercorrenti in quel periodo tra le autorità romane da una parte e le sinagoghe e i piccoli grup- pi cristiani dall’altra è ancora lungi dall’essere soddisfacente. Quel che emerge

49 PLUTARCO, Pro.j h`gemo,na avpai,deuton 2, in SCAFFIDI ABBATE (ed.), Plutarco, 35. 50 PLUTARCO, Eiv presbute,rw| politeute,on 14, in SCAFFIDI ABBATE (ed.), Plutarco, 159. 51 Oltre che della bibliografia precedentemente segnalata, ci siamo avvalsi anche di H. SCHLIER, La

Lettera ai Romani, Paideia, Brescia 1982, 620-632; V. WILCKENS, Der Brief an die Römer (Röm 12–16), Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn 1982, II, 28-66; J.D.G. DUNN, La teologia dell’apostolo Paolo, Pai- deia, Brescia 1999, 644-653; S. LÉGASSE, L’Epistola ai Romani, Queriniana, Brescia 2004, 648-652.

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senza equivoci si riferisce all’accusa, che Nerone lanciò contro i cristiani, di aver provocato l’incendio di Roma.

Nonostante l’incompletezza del quadro storico, ci sembra evidente che Paolo abbia ritenuto necessario consigliare i cristiani a tenere un atteggiamento leale verso le autorità, basato sulla coscienza piuttosto che sul timore.52 Egli ha trattato questo argomento nell’ambito di una paraclesi, in cui il tema centrale è l’amore (avga,ph), nei confronti dei fratelli della comunità e di «quelli di fuori». Inoltre, l’apostolo si è rivolto a persone, quelle delle comunità, in cui non vi sono detentori di responsabilità politiche. Perciò, il suo non è un indirizzo ai reggitori del destino dei popoli, da istruire con praecepta gerendae rei publicae, bensì a coloro che devono confrontarsi con l’autorità cercando di conquistarne la fidu- cia attraverso il buon comportamento. Dall’onore che riusciranno a godere pres- so le autorità ricaveranno lode e sicurezza, in quanto esse sono state costituite da Dio in vista del bene dei singoli e della società nel suo complesso.53

L’intervento paolino, quindi, affronta solo un lato del più ampio e delica- to «problema politico», poiché vi sono anche altri testi biblici che ne trattano. Non è unicamente dall’epistolario paolino, di conseguenza, che possiamo desu- mere un insegnamento esaustivo sul rapporto tra i credenti – siano essi nella situazione di governanti o di governati – e la politica. Inoltre, egli sostiene qual- cosa che echeggiava anche in scritti di altri autori più o meno contemporanei, come testimonia il caso di Plutarco, quando accenna al fatto che l’autorità è al servizio di Dio per il bene.54 Tale affermazione apostolica vuol essere un ulte- riore incoraggiamento per i suoi destinatari, in modo che non vedano nell’auto- rità un nemico, considerandola con sospetto e con più timore di quanto sia ragionevolmente giusto.55

Il bene che l’autorità è tenuta a realizzare non può che essere valutato nel- l’orizzonte di quel tempo: amministrare la giustizia e punire i reati, garantire sicurezza sociale anche attraverso rifornimenti di cibo puntuali e spettacoli cir-

52 Interessante in proposito la riflessione di AGOSTINO, Alcune questioni sulla Lettera ai Romani 66 [74]: «Avendo però detto: Per necessità siate sottomessi, qualcuno avrebbe potuto assoggettarsi con cuore sleale e senza amore sincero alle autorità in parola. Per impedire questo inconveniente aggiunge: Non sol- tanto per [sfuggire] la collera ma anche per motivi di coscienza; e significa: Non solo per non provocare la collera (cosa che si potrebbe ottenere anche ricorrendo a sotterfugi) ma anche perché tu dentro la tua coscienza ti senta sicuro d’agire per amore di colui al quale ti sottometti (sed ut in tua conscientia certus sis illius dilectione te facere). E, se ti sottometti, lo fai perché te lo comanda il tuo Signore» (NBA X/2, 556-559).

53 AGOSTINO, Alcune questioni sulla Lettera ai Romani 65 [73]: «Bisogna però vagliar bene le parole dell’Apostolo. Egli non dice: Fa’ il bene e l’autorità te ne darà lode, ma soltanto: Fa’ il bene e da essa rice- verai lode. Potrà succedere che l’autorità approvi il tuo agire bene o anche che ti perseguiti; comunque tu da essa riceverai lode, se ti riuscirà di conquistarla al servizio di Dio o meritando tu stesso da Dio la coro- na, se essa insisterà nel perseguitarti» (NBA X/2, 556-557).

54 AMBROSIASTER, Commento alla Lettera ai Romani 13,3: «L’apostolo chiama uomini di comando quei re che vengono eletti per migliorare il modo di vivere e proibire quanto è contrario al bene, avendo in sé l’immagine di Dio, affinché tutti siano sottoposti a uno solo» (ID., Commento alla Lettera ai Romani, a cura di A. POLLASTRI, Città nuova, Roma 1984, 277).

55 Qualche secolo dopo, Origene si domanderà se un’autorità che perseguita i servi di Dio venga da lui. Per rispondere proporrà l’esempio della vista e dell’udito: pur donati da Dio, è in nostro potere servir- cene per il bene o per il male. Cf. ORIGENE, Commento alla Lettera ai Romani 9,26: PG 14,1226-1227.

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censi, costruire opere pubbliche come strade, biblioteche, terme, teatri e anfitea- tri, difendere le frontiere... Tutto questo si colloca nel fenomeno che viene defi- nito evergetismo, che risultava dalla liberalità dei magistrati locali, dei vari colle- gia, di influenti e ricchi privati e, con Augusto, divenne uno strumento di notevo- le rilievo con il quale i principes illustravano la loro immagine di sovrani solleci- ti del bene dei sudditi, sia a Roma che in Italia e nelle province.56 Allo stesso tempo, Paolo non è accusabile di essere un «conservatore» allineato alla posi- zione dominante; egli sembra un «realista» che intende invogliare i suoi destina- tari a partecipare alla costruzione del bene della società e non a considerarsi esenti dal contribuire generosamente e lealmente.57

In un periodo storico come quello che stiamo vivendo, l’insegnamento di Paolo non è affatto trascurabile. Infatti, sempre più si sente parlare di bene comune, della cui ricerca poco s’interessano i politici; anche i cittadini, però, sem- brano non curarsene, se si pensa all’elevato tasso di evasione fiscale e di econo- mia sommersa, illegale o legata alla malavita. L’apostolo invita a ritornare alla coscienza, alla lealtà, all’«amore» verso tutti, affinché anche l’attività politica possa trasformarsi in «culto spirituale» per realizzare «ciò che è buono, a lui [Dio] gradito e perfetto» (Rm 12,1.2). Per Paolo, quindi, i governati e i gover- nanti dovrebbero impegnarsi in vista della realizzazione del bene.

56 Cf., ad esempio, P. PENSABENE, «Marmo ed evergetismo negli edifici teatrali d’Italia, Gallia e Hispa- nia», in Mainake 29(2007), 7-52.

57 Giovanni Crisostomo, commentando il nostro testo, ritiene che Paolo voglia esortare i cristiani a fare in modo di smentire la diceria di essere sovvertitori dell’ordine pubblico. Cf. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie su Romani 23,1: PG 60,613-616; cf. pure R. OSCULATI, «L’autorità civile “diacono di Dio” (Rm 13,1- 7) in Giovanni Crisostomo», in Augustinianum 50(2010), 261-275. Per un primo approccio ai successivi svi- luppi dell’argomento, cf. il classico studio di H. RAHNER, Chiesa e struttura politica nel cristianesimo primiti- vo, Jaca Book, Milano 32003.

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Questioni morali in 1 Corinzi 5–6: le ragioni di una sequenza

PASQUALE BASTA

1. IL PROBLEMA

Se si analizza lo sviluppo di 1Cor 5–6 emerge con buona chiarezza come Paolo concentri la sua attenzione intorno a tre aree:

1) la pornei,a nel caso dell’incestuoso (1Cor 5,1-13);

2) i litigi tra cristiani, con conseguente appello ai tribunali pagani (1Cor 6,1-11);

3) i fornicatori di Corinto, con ritorno quindi al problema della pornei,a (1Cor 6,12-20).

È solo un caso che l’apostolo affronti tali questioni in una simile sequenza? Che cosa tiene insieme le due aree relative a casi diversi di porneia, con il ricorso ai tribunali pagani? Perché viene data questa sequenza e non magari un’altra? È sufficiente una risposta che faccia leva soltanto su di un ordine casuale oppure bisogna indagare in maniera più approfondita sulle ragioni di una simile scelta? Ciò che emerge subito, fin da una prima lettura, è che le tre sequenze paoline sono funzionali a tracciare una linea di confine tra

1) morale/immorale, ma anche lecito/non lecito (5,1-13) 2) giusto/ingiusto (6,1-11) 3) lecito/non lecito, ma anche vero/non vero (6,12-20)

all’interno di alcune aree morali alquanto problematiche che si sono venute a creare all’interno della comunità corinzia. In 1Cor 6,12 si legge: «Tutto mi è leci- to, ma non tutto giova (Pa,nta moi e;xestin avllV ouv pa,nta sumfe,rei)». Che cosa significa una simile espressione? Ma soprattutto perché questo ordine sequen- ziale tracciato da Paolo? A che cosa si fa riferimento? Obiettivo di questo con- tributo è provare a indagare sulla questione alla ricerca di una risposta che sia la più convincente possibile.

2. CONTESTI VETEROTESTAMENTARI INCROCIATI IN 1COR 5–6? LE IPOTESI DI ROSNER E BRODIE

Partiamo da una costatazione iniziale che è anche un primo indizio. In 1Cor 5–6 Paolo cita in maniera diretta un versetto del Deuteronomio (cf. 1Cor

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5,13b: «Togliete il malvagio di mezzo a voi stessi [Kai, evxarei/te to.n ponhro.n evx u`mw/n auvtw/n]»), sulla cui locazione precisa occorrerà riflettere, e Gen 2,24 (cf. 1Cor 6,16b: «I due saranno, è detto, un corpo solo [e;sontai ga,r( fhsi,n( oi` du,o eivj sa,rka mi,an]»). Se le citazioni sono soltanto due, le allusioni all’AT e alla lettera- tura giudaica del tempo scandiscono invece il testo paolino in una maniera mas- siccia. Ciò autorizza a porsi delle domande. C’è un retroterra a cui l’apostolo sta- rebbe facendo riferimento? Se sì, quale?

Facciamo una premessa. Che Paolo, come del resto quasi tutti gli autori del NT, lavori con abbondanza sull’AT è un fatto ormai noto. Ciò che però impres- siona è la mole di un simile ricorso. Anni fa Higgins si è addirittura cimentato in un’operazione a dir poco certosina, arrivando a contare ben 1.368 passaggi o frasi dell’AT che vengono poi citati nel NT.1 La Prima lettera ai Corinzi non sfug- ge certo a questa peculiarità, visto che siamo di fronte a un testo che conosce ben 19 citazioni dirette e oltre un centinaio di allusioni chiare all’AT.2 Un numero così significativo autorizza quindi, e anzi incoraggia, all’analisi del fenomeno in riferimento alla prima lettera che Paolo scrisse alla sua comunità più vivace e problematica. Del resto basta dare anche soltanto un rapido sguardo ad alcuni titoli usciti negli ultimi anni per rendersi conto di come lo studio sul ricorso pao- lino alle Scritture in 1 Corinzi conosca attualmente una fase di rapida e costante espansione, anche in virtù dei buoni risultati a cui si è finora giunti a partire da questo particolare angolo visuale. E anzi, entrando ancora di più nello specifico del nostro studio, è stata proprio l’analisi di 1Cor 5–7 a costituire una sorta di pie- tra miliare in questo campo. Se, infatti, fino a qualche decennio fa, erano in tanti a ritenere che Paolo utilizzasse l’AT prevalentemente in contesti dottrinali,3 Brian Rosner ha invece attirato l’attenzione sull’uso dell’AT anche in campi più marcatamente etici, come è ad esempio proprio nel caso di 1Cor 5–7.4 Ma lo stes- so interesse si è venuto via via mostrando per il motivo sapienziale in 1Cor 1–4,5 per la sezione riguardante gli idolotiti (1Cor 8–10) dove compare un evidentissi-

1 A.J.B. HIGGINS, The Christian Significance of the Old Testament, London 1949, 88.

2 Questo è il conteggio fornito da F.S. MALAN, «The Old Testament in I Corinthians», in Neotesta- mentica 14(1981), 134-170. Per una rassegna completa delle citazioni o anche delle allusioni presenti in 1Cor cf. W. DITTMAR, Vetus Testamentum in Novo. Briefe und Apokalypse, Göttingen 1903, II, 205-217; H. HÜBNER, Vetus Testamentum in Novo, 2: Corpus Paulinum, Göttingen 1997, 221-306; G.K. BEALE – D.A. CARSON, Com- mentary on the New Testament Use of the Old Testament, Grand Rapids, MI 2007, 695-752; H.H. DRAKE WIL- LIAMS III, «Light Giving Sources: Examining the Extent of Scriptural Citation and Allusion Influence in 1Corinthians», in S.E. PORTER (ed.), Paul: Jew, Greek, and Roman (Pauline Studies 5), Leiden-Boston 2008, 7-37.

3 Cf. non da ultimo anche il mio recente P. BASTA, Abramo in Romani 4. L’analogia dell’agire divino nella ricerca esegetica di Paolo (AnBib 168), Roma 2007, opera in cui ho mostrato come l’esegesi paolina dell’AT sia al servizio in Rm 4 anzitutto della tesi paolina della giustificazione per la sola fede (tema caro alla lettura luterana classica), unitamente però al motivo della comune paternità di Abramo sui giudei e sui gentili (tema caro alla new perspective).

4 B.S. ROSNER, Paul, Scripture and Ethics. A Study of 1Corinthians 5–7 (AGJU 22), Leiden-New York-Köln 1994.

5 Cf. a tale riguardo H.H. DRAKE WILLIAMS III, The Wisdom of the Wise. The Presence and Function of Scripture within 1Cor. 1:18-3:23 (AGJU 49), Leiden 2000; J.S. LAMP, First Corinthians 1–4 in Light of Jewi- sh Wisdom Traditions. Christ, Wisdom and Spirituality (SBEC 42), Lewiston-Queenston 2000.

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P. BASTA – Questioni morali in 1 Corinzi 5–6

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mo midrash,6 o anche per il velo delle donne (1Cor 11,2-16).7 E si potrebbe con- tinuare, facendo riferimento a tutta la 1 Corinzi, visto che ormai è l’insieme a essere coperto. Altri studiosi, anziché indagare sulle parti di 1 Corinzi in cui com- paiono fenomeni ampi di citazione o di ripresa, hanno preferito concentrarsi piuttosto sulla presenza di motivi veterotestamentari o addirittura di interi libri dell’AT8 che riecheggiano nella lettera di Paolo. Tanto che Thomas Brodie ormai è giunto a ritenere che

... dependence goes beyond both doctrinal and ethical passages and extends essen- tially into the entire text; the dependence is systematic.9

Attualmente, dicevamo, lo studio più completo sui rapporti tra 1Cor 5–6 e le Scritture precedenti rimane senza ombra di dubbio quello di Rosner, autore che, come si è visto, ha analizzato il fenomeno delle citazioni nell’insieme più ampio di 1Cor 5–7, vale a dire di quella sezione dell’epistolario a sfondo più mar- catamente etico.

A 1Cor 5, in particolare, Rosner dedica un intero capitolo intitolato «Ezra and Paul excluding sinners», che è poi una sorta di riassunto delle conclusioni a cui questo autore giunge al termine di un lungo percorso attraverso gli svariati retroterra testuali da lui individuati10 e di cui offre anche una «parafrasi inter- pretativa con i più significativi riferimenti agli incroci biblico-giudaici», che qui di seguito riportiamo per intero:11

Si sente parlare niente di meno che di un’impudicizia tra voi, e di una impudi- cizia tale, che non capita neanche tra i pagani1,

1Dt 12,29-31; 1Re 14,24; 2Re 21,9.11; Am 1,2

6 Cf. tra i tanti W.A. MEEKS, «And Rose up to Play: Midrash and Paraenesis in 1Corinthians 10:1-22», in JSNT 16(1982), 64-78; B.J. KOET, «The Old Testament Background to 1Cor 10,7-8», in R. BIERINGER (ed.), The Corinthian Correspondence (BEThL 125), Leuven 1996, 607-615; B.J. OROPEZA, «Laying to Rest the Midrash: Paul’s Message on Meat Sacrificed to Idols in Light of the Deuteronomic Tradition», in Bib 79(1998), 57-68; J.C. INOSTRA-LANAS, Moisés e Israel en el desierto: El midrás paulino de 1Cor 10,1-13 (Pleni- tudo temporis 6), Salamanca 2000.

7 Cf. qui solo L.A. JERVIS, «“But I Want You to Know...”: Paul’s Midrashic Intertextual Response to the Corinthian Worshipers (1Cor 11:2-16)», in JBL 112(1993)2, 231-246.

8 Cf. T.L. BRODIE, «The Systematic Use of the Pentateuch in 1Corinthians: An Exploratory Survey», in BIERINGER (ed.), The Corinthian Correspondence, 441-457; ripreso e allargato in ID., «1 Corinthians as Systematically Adapting the Pentateuch, Especially Deuteronomy: An Exploratory Survey», in The Birthing of the New Testament. The Intertextual Development of the New Testament Writings (New Testa- ment Monographs 1), Sheffield 2004, 125-137; nello stesso volume cf. anche le due appendici «The Use of Daniel in 1 Corinthians: An Exploration», 595-599; «The Use of Tobit in 1 Corinthians», 600- 604; C.J.A. HICKLING, «Paul’s Use of Exodus in the Corinthian Correspondence», in R. BIERINGER (ed.), The Corithian Corrispondence, Leuven 1996, 367-376; F. WILK, «Isaiah in 1 and 2 Corinthians», in S. MOYISE – M.J.J. MENKEN (edd.), Isaiah in the New Testament (The New Testament and the Scriptures of Israel), London 2005, 133- 158.

9 T.L. BRODIE, «The Triple Intertextuality of the Epistles: An Introduction», in T.L. BRODIE – D.R. MACDONALD – S.E. PORTER (edd.), The Intertextuality of the Epistles. Explorations of Theory and Practice (New Testament Monographs 16), Sheffield 2006, 77.

10 ROSNER, Paul, Scripture, 61-93.

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al punto che uno convive con la moglie di suo padre2. E voi siete ricolmi di orgoglio e non vi siete rammaricati3,

affinché si togliesse4 da voi chi ha compiuto una tale azione! (1-2).

Orbene, io, assente nel corpo ma pre- sente nello spirito, ho già giudicato5, come se fossi presente, l’autore di tale misfatto: nel nome del Signore nostro Gesù, convocati insieme voi6, il mio spirito e la potenza del Signore nostro Gesù, questo individuo sia abbando- nato a Satana7, per la rovina della sua carne8 (Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché è santo il tempio di Dio, che siete voi9). Affin- ché lo spirito possa ottenere la salvez- za10 nel giorno del Signore (3-5).

Non è bello il vostro vanto. Non sape- te che un po’ di lievito fermenta tutta la pasta? Togliete via11 il lievito vec- chio12, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. È stata immolata la nostra Pasqua, Cristo13!

Celebriamo dunque la festa14 non tra lievito vecchio, né in lievito di malizia e perversità, ma con azzimi di purez- za e di verità (6-8).

Vi ho scritto nella lettera di non immischiarvi15 con gli impudichi. Non mi riferivo agli impudichi di questo mondo o ai cupidi, ai rapaci o agli ido- latri; altrimenti dovreste uscire dal mondo.

2 Lv 18,8; 20,11; Dt 23,1; 27,20; mSan 7,4; 9,1; mKer 1,1; tSan 10,1; Giub. 33,10-13; ecc. 3 Esd 10,6; Ne 1,4; 1Esd 8,72; 9,2; Dn 10,2; 4 Lv 10,4-5

5 2Sam 12

6 Dt 19,16-20; Nm 15,35; 35,24; Lv 24,14.16; 1QS 6-7

7 Gb 2,1 8 Dt 27,20

9 1Cor 3,16-17; Dt 23,1-8 10 mSan 6,2; CD 12,4-6; 1QS 7

11 Giub. 20,13 12 Es 12,15; 13,7

13 Dt 4,20 14 2Cr 29,30; 35,1-19; 2Re 23,1-23; Esd 6,13-22

15 Os 7,8; Ez 20,18

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Ma ora vi scrivo di non immischiarvi con chi si dice fratello, ed è impudi- co16, o cupido17, o idolatra18, o blasfe- mo19, o ubriacone20, o ladro21: con questi tali non dovete neanche met- tervi a mensa22. Tocca forse a me giu- dicare quelli di fuori? Non sono quel- li di dentro che voi giudicate? Quelli di fuori li giudicherà Dio. Togliete quel perverso di mezzo a voi23! (9-13).

16 Dt 22,21; 17 Dt 24,7; 18 Dt 13,5; 17,7 19 Dt 19,19; 20 Dt 21,21; 21 Dt 24,7

22 Sal 101,5

23 Dt 13,6; 17,7; 19,19; 21,21; 22,21; 24,7

Ovviamente un simile quadro di riferimento necessita di un’attenta valu- tazione perché supporre troppi retroterra è operazione metodologicamente complicata. Del resto, che molte pagine della Scrittura siano tra loro in una qual- che relazione è di una evidenza pressoché assoluta, ma talvolta anche abbastan- za casuale. In questo caso specifico si tratta però di vedere se veramente il retro- terra ultimo di 1Cor 5 sia costituito da Esd 7–10. A me personalmente non pare perché i contatti sono solo tematici, e per giunta lo sono poi in una maniera che è anche abbastanza larga. Si può ipotizzare un retroterra laddove non ci sia nep- pure una minima convergenza testuale? In teoria sì, ma in questo caso non con- viene affatto perché è Paolo stesso a indicarci per mezzo di citazione il contesto da cui attinge. Ben più massicci sono infatti i legami tra 1Cor 5 (e non solo, per- ché ci si può spingere fino all’insieme di 1Cor 5–7!) e la massima di Dt (con rela- tivi contesti) da Paolo esplicitamente citata in 1Cor 5,13:

«Togliete il malvagio di mezzo a voi». Kai, evxarei/te to.n ponhro.n evx u`mw/n auvtw/n.

La stessa operazione fatta per 1Cor 5 è poi ripetuta da Rosner anche per il ricorso ai tribunali pagani, affrontato in un capitolo intitolato «Moses and Paul appointing judges. 1Corinthians 6:1-11»,12 e alla cui fine compare questo pro- spetto sintetico:13

V’è tra di voi chi, avendo una questio- ne con un altro, ha l’ardire di farsi giu- dicare dagli ingiusti1 anziché dai santi? O non sapete che i santi giudicheran- no il mondo?2 E se da voi viene giudi- cato il mondo, sareste dunque incapa- ci di giudizi da nulla?3 Non sapete che giudicheremo gli angeli?4 Quanto più

1 Dt 16,18-20; Es 23,6-8; Lv 19,15; ecc. 2 Dn 7,22; Sal 8,5

3 Es 21,6 4 Dn 7,18; Sal 8,5

11 ROSNER, Paul, Scripture, 92-93. 12 ROSNER, Paul, Scripture, 94-122.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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dunque le cose di questa vita! Quando perciò doveste giudicare di affari quo- tidiani3, designate a giudici5 i più umili della chiesa. Lo dico per farvi arrossi- re!6 Cosicché non vi sarebbe nessuno tra di voi saggio7 da poter fare da inter- mediario tra (un uomo) e suo fratello?8 Ma un fratello9 viene chiamato in giu- dizio dal fratello, e per di più davanti a infedeli! (1-6).

Senza dire che è già una colpa per voi avere liti vicendevoli!10 Perché non subire piuttosto l’ingiustizia?11 Perché non lasciarvi piuttosto far torto?12 Ma voi commettete ingiustizia e recate danno, e ciò ai fratelli!9 O non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né gli impuri, né gli idolatri, né gli adulteri,13 né gli effeminati,14 né i depravati, né i ladri, né i cupidi, né gli ubriaconi, né i maldicenti, né i rapaci erediteranno il regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi15; ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio! (7-11).

5 Es 18,14

6 Es 32,12.25; 1Re 20,28, Is 52,5; Ez 36,20; Qo 7,1; ecc. 7 Es 18,18.19; Dt 1,15 8 Dt 1,16; 9 Gen 13,6-13; Sal 133,1

10 Es 18,22 11 Lv 19,13 12 Dt 24,14; 25,1

13 Es 20,13; Dt 5,17; Lv 20,10 14 Lv 18,22; 20,13

15 Dt 9,6.24; 32,16ss; Sal 78; 106; ecc.

In estrema sintesi, Rosner pensa qui che il retroterra di Paolo in 1Cor 6,1- 11 sia costituito dalle tradizioni su Mosè che stabilisce giudici, a cui però occor- re aggiungere anche i motivi del giusto che soffre e dell’avere una buona repu- tazione presso quelli di fuori. Sicuramente Rosner vede bene molti contatti, ma ancora una volta occorre dare la giusta precedenza al Deuteronomio in virtù del- l’evidentissimo contatto testuale tra

Dt 1,16

1Cor 6,5

In quel tempo ho ordinato ai vostri giudici: Ascoltate i vostri fratelli e giu- dicate con giustizia fra un uomo e il suo fratello (kai. kri,nate dikai,wj avna. me,son avndro.j kai. avna. me,son avdelfou/) o il forestiero.

Lo dico per farvi arrossire! Cosicché non vi sarebbe nessuno tra di voi sag- gio (ou[twj ouvk e;ni evn u`mi/n ouvdei.j sofo,j) da poter fare da intermediario tra i suoi fratelli (diakri/nai avna. me,son tou/ avdelfou/ auvtou)?

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A questo contatto testuale va anche aggiunto il fatto che, nel contesto di Dt 1,9-18, Mosè ricorda come, incapace ormai di amministrare da solo la giusti- zia in mezzo a un popolo divenuto numeroso, chiese che si scegliessero uomini saggi in mezzo alle tribù per sostituirlo in tale incombenza. Come recita per l’ap- punto Dt 1,13:

Prendete in ognuna delle vostre tribù uomini saggi, perspicaci, conosciuti (a;ndraj sofou.j kai. evpisth,monaj kai. sunetou.j), affinché io li ponga alla vostra testa.

Il contatto tra l’insieme più ampio di Dt 1 e 1Cor 6,1-11 è invece eviden- ziato da Brodie,14 autore che alterna però buone intuizioni a forzature sconcer- tanti, di cui la tavola seguente costituisce un buon campione:

Dt 1

1Cor 6,1-11

Evitare giudizi davanti agli ingiusti

*«...Voi...andateagiudizio(krin, esqai) davanti agli ingiusti (adv ik, wn)». + Non sapete voi che i santi (a[gioi) giu- dicheranno (krinou/sin) il mondo? [= Il giudizio appartiene solo ai santi].

> Se da voi il mondo (ko,smoj) è giudi- cato (kri,netai), siete forse indegni di giudicare ciò che è più piccolo (evlaci,stwn)? (6,1-2).

Nomina il saggio... e il giudice

«Io non posso (ouv dunh,somai) portare da solo... “Prendete tra voi uomini saggi (sofou,j)...”. Così io ho preso tra voi uomini saggi (sofou,j)... e li ho costituiti sopra di voi (evfV u`mw/n) come capi... e istruttori per i vostri giudici (kritai/j)» (1,9.12-15).

«È possibile che non vi sia (ouvk) tra di voi (evn u`mi/n) una persona saggia (sofo,j) che sia capace (dunh,setai) di pronunciare un giudizio (diakri/nai)

Giudicare tra fratelli

«Io dissi ai giudici: “Ascoltate i vostri fratelli (avna. me,son tw/n avdelfw/n) e giu- dicate giustamente (kri,nate dikai,wj) fra un uomo e il suo fratello o il fore- stiero che sta con lui” (avna. me,son avndro.j kai. avna. me,son avdelfou/ kai. avna. me,son proshlu,tou auvtou/)» (1,16).

tra i suoi fratelli (avna. me,son tou/ avdelfou/ auvtou/), ma un fratello va in giudizio contro il fratello (avdelfo.j meta. avdelfou/ kri,netai)» (6,5-6).

13 ROSNER, Paul, Scripture, 122.

14 BRODIE, «The Systematic Use», 450-451. Rispetto alla tavola originale, oltre alla traduzione, ho corretto anche qualche numero dei versetti e vari accenti greci, per il semplice motivo che erano palese- mente sbagliati. Brodie non me ne voglia!

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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Da ultimo, per 1Cor 6,12-20 Rosner opta per «Joseph and Paul fleeing immorality. 1 Corinthians 6:12-20»,15 visto che l’aggancio testuale più immediato viene da lui individuato nella storia di Giuseppe tentato dalla moglie di Potifar. Anche qui Rosner offre un quadro sintetico, a dire il vero molto parafrasato, con i possibili incroci testuali:16

(Voi dite) «Tutto mi è lecito»; ma (io dico) non tutto giova! «Tutto mi è leci- to»; ma io non mi lascerò dominare da nulla (e da nessuno)! (Voi dite) «I cibi sono per il ventre e il ventre per i cibi», ma Dio distruggerà questo e quelli! Il corpo non è per l’impudicizia1 (come voi supponete), bensì per (il servizio e la comunione con) il Signore, e il Signore è per (la santità e il futuro de) il corpo; e Dio che ha risuscitato (cor- poralmente) il Signore dalla morte, risusciterà anche noi (nei nostri corpi) con la sua potenza!2 (12-14).

Non sapete che i vostri corpi sono membra (completando il corpo) di Cri- sto? Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di meretrice? Non sia mai! O non sapete che chi si unisce3 a una meretrice4 forma un corpo solo? Poiché sta scritto (nelle Scritture): «I due formeranno una sola carne»3.

Ma chi si unisce3 al Signore5 (come voi avete fatto) forma con lui un solo spiri- to (e queste due unioni sono incompa- tibili)6 (15-17).

1 Gen 38,24; Os 4,11; Sir 41,17

2 Dn 12,2-3; 2Mac 7,9.14; 14,46; Bar 50,51; 2Esd 7; TGiud 25,1-4; ecc.

3 Gen 2,24 4Gen 38,15.21.22; Sir 19,2; 1Re 11,2

5 Dt 10,20; 2Re 18,6; Ger 13,11; Sir 2,3 6 Os 3,1-3

15 ROSNER, Paul, Scripture, 123-146.

16 ROSNER, Paul, Scripture, 146. Ma anche B.S. ROSNER, «A Possible Quotation of Test. Reuben 5:5 in 1 Corinthians 6:18a», in JTS 43(1992), 123-127.

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«Fuggite la fornicazione (come Giu- seppe scappato dalla moglie di Poti- far)»7. Qualunque altro peccato che l’uomo commetta è fuori del corpo, ma chi commette fornicazione pecca con- tro (il crescente benessere spirituale de) il suo proprio corpo3. O non sapete che il vostro corpo è santuario dello Spirito Santo8, che è in voi, che avete da Dio e (non dimenticate) che non appartenete a voi stessi9. Siete stati comprati a prezzo9. Glorificate dunque Dio10 nel vostro corpo (18-20).

7 TReu 5,5; Gen 39,7-8

8 TJos 10,1-3; Gen 39,2-3.21.23; 41,38 9 Es 19,15; Dt 26,18; Is 43,21; ecc. 10 TJos 8,5; Gen 39,9

In estrema sintesi, Rosner ritiene che Paolo elabori il comando di fuggire la pornei,a avendo bene in mente la storia di Giuseppe, così come reinterpreta- ta e parafrasata da alcuni testi della letteratura intertestamentaria, e le parole profetiche di Osea (principalmente in Os 3,1-3). E in effetti l’esortazione di 1Cor 6,18 (Feu,gete th.n pornei,an) ricorre identica in TRub 5,5 (feu,gete ou=n th.n pornei,an), così come notato anche da Nestle-Aland (271993) e ancora prima da Godet17 e Bruce,18 ripresi in seguito da quasi tutti i maggiori commentari.19 Costoro fanno giustamente notare come il richiamo cada in un contesto in cui si parla proprio di Giuseppe. Recita infatti TRub 4,8-10:

8Avete sentito, dunque, di Giuseppe, come si seppe guardare da una donna e purifica- re il pensiero da ogni impudicizia; così trovò grazia davanti a Dio e agli uomini. 9L’e- giziana tentò molte cose contro di lui; chiamò degli stregoni e gli portò dei filtri, ma la sua volontà non accolse il desiderio cattivo. 10Per questo il Dio dei nostri padri lo pro- tesse da ogni mala morte nascosta. Se infatti l’impudicizia non domina la vostra mente, nemmeno Beliar può avere dominio su di voi.

Se però ci si allarga al contesto più ampio, che è sempre una buona regola quando si studiano i ricorsi alle altre Scritture, ci si rende facilmente conto di quanto questo testo una volta utilizzato da Paolo rimanga comunque nella sua mente in ordine a difficoltà e problemi che di lì a poco dovrà affrontare. Leggia- mo il seguito del Testamento, in 5,1-5:

17 F.L. GODET, Commentary on St. Paul’s First Epistle to the Corinthians, Edinburgh 1886, 311. 18 F.F. BRUCE, 1 and 2 Corinthians (NCBC), London 1971, 65. 19 Cf. tra i tanti H. CONZELMANN, 1 Corinthians (Hermeneia-CHCB), Philadelphia 1975, 112, nota 32

(or. ted. Der erste Brief an die Corinther [KEKNT 11], Göttingen 1969); G. BARBAGLIO, La Prima lettera ai Corinzi (SOC 16), Bologna 1995 e 2005, 316, nota 226; R.F. COLLINS, First Corinthians (SP 7), Collegeville, MN 1999, 248; D.E. GARLAND, 1 Corinthians (BECNT), Grand Rapids, MI 32008, 235, nota 22; J.A. FITZMYER, First Corinthians (AYB 32), New Haven-London 2008, 268.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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1Cattive sono le donne, figlioli miei, e poiché non hanno nessun potere sull’uomo, usano l’inganno della bellezza per attrarlo a sé. 2Quello poi che non hanno la forza di sedurre con la bellezza, lo vincono con l’inganno. 3Altre cose di esse mi disse l’angelo di Dio e mi insegnò che le donne sono più esposte dell’uomo allo spirito di impudici- zia: nel cuore tramano contro gli uomini; attraverso gli ornamenti ingannano le menti degli uomini; attraverso lo sguardo iniettano il veleno; a questo punto li hanno dav- vero resi schiavi. 4La donna, infatti, a viso aperto, non ha la forza di far violenza all’uo- mo, ma può fargli del male con la bellezza impudica. 5Dunque, figlioli miei, fuggite l’impudicizia (feu,gete ou=n th.n pornei,an) e ordinate alle vostre mogli e alle vostre figlie di non adornare le loro teste e i loro sguardi per non ingannare le menti; ogni donna che si serva di questi inganni è destinata alla punizione eterna.

Come si vede, uno dei motivi del passo di TRub sarà presente nella mente di Paolo proprio quando, un po’ più avanti, in 1Cor 11,2-16, affronterà la que- stione della chioma delle donne durante le assemblee. Ma questa è un’altra que- stione, che qui accenno soltanto. Tornando a 1Cor 6,12-20, la conclusione di Rosner è che, come Giuseppe, anche Paolo esorta a fuggire la pornei,a e, come Osea, anche Paolo proibisce ai corinzi la prostituzione ricordando loro che solo il Signore è il loro marito e padrone. Tuttavia, visto che qui si è in presenza sol- tanto di allusioni e di eco su cui non si può troppo forzare, Rosner è comunque costretto a riconoscere come Paolo dia qui priorità a motivi soprattutto cristiani.

3. LA CITAZIONE DI 1COR 5,13: UNA PRIMA COSTATAZIONE

Abbiamo già accennato un paio di volte all’importanza che riveste la cita- zione di 1Cor 5,13:

«Quelli di fuori li giudicherà Dio. Togliete il malvagio di mezzo a voi stessi».

Tou.j de. e;xw o` qeo.j krinei/Å Kai, evxarei/te to.n ponhro.n evx u`mw/n auvtw/nÅ

Qui la Scrittura a cui Paolo starebbe pensando è ritenuta dalla Bibbia CEI, nei suoi riferimenti laterali, quella di Dt 13,6:

Questo profeta o sognatore morirà perché ha proposto una defezione dal Signore vostro Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto e ti ha liberato dalla casa di schia- vitù, per trascinarti fuori del cammino sul quale il Signore tuo Dio ti ha prescritto di camminare. Così distruggerai il malvagio in mezzo a te (kai. avfaniei/j to.n ponhro.n evx u`mw/n auvtw/n).

In realtà però l’espressione a cui Paolo fa riferimento nella sua citazione non è perfettamente identica a Dt 13,6 (evxarei/te versus avfaniei/j), mentre è l’e- satta riproposizione di un vero e proprio leitmotiv dell’intero libro del Deutero- nomio dove la ripresa paolina ricorre in ben 8 passaggi (6 se si esclude Dt 17,12 e Dt 22,22, dove evx u`mw/n auvtw/n è sostituito da evx Israhl):

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P. BASTA – Questioni morali in 1 Corinzi 5–6

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VERSETTO DI DT

LEITMOTIV

17,7

kai. evxarei/j to.n ponhro.n evx u`mw/n auvtw/n20

17,12

kai. evxarei/j to.n ponhro.n evx Israhl

19,19

kai. evxarei/j to.n ponhro.n evx u`mw/n auvtw/n

21,21

kai. evxarei/j to.n ponhro.n evx u`mw/n auvtw/n

22,21

kai. evxarei/j to.n ponhro.n evx u`mw/n auvtw/n21

22,22

kai. evxarei/j to.n ponhro.n evx Israhl

22,24

kai. evxarei/j to.n ponhro.n evx u`mw/n auvtw/n22

24,7

kai. evxarei/j to.n ponhro.n evx u`mw/n auvtw/n23

A quale di questi passi Paolo fa dunque riferimento? Andrebbe anzitutto escluso Dt 13,6, non solo per ragioni di non perfetta identità, che è il minimo, visto che spesso le citazioni paoline della LXX non brillano per riproposizione esatta, ma soprattutto perché l’analisi del contesto più ampio di Dt 13 non aiuta nella comparazione.24 Infatti tra il caso dell’incestuoso in 1Cor 5 e le direttive di Dt 13 in materia di sanzioni da comminare contro il profeta o il sognatore che spinga verso divinità straniere, non sembrano esserci troppe analogie, se non nel mostrare come in entrambi i casi si ponga in essere un atto che offende ed espo- ne a grosso pericolo l’intera comunità. Ma è troppo poco per la logica secondo cui Paolo fa giocare i testi dell’AT con le questioni che gli si parano innanzi all’interno delle sue comunità. Si impone di conseguenza un esame più approfondito.

20 Questo sarebbe il passo citato secondo H.-D. WENDLAND, Le Lettere ai Corinzi (NT 7), Brescia 1976, 92 (or. ted. Die Briefe an die Korinther, Göttingen 1968); CONZELMANN, 1 Corinthians, 102, nota 85; G.D. FEE, The First Epistle to the Corinthians (NICNT), Grand Rapids, MI 1987, 227; F. LANG, Le Lettere ai Corinzi (NT II/7), Brescia 2004, 104 (or. ted. Die Briefe an die Korinther, Göttingen 1986, 21994); R. FABRIS, Prima lettera ai Corinzi (LBNT 7), Milano 1999, 81, nota 6; BARBAGLIO, La Prima lettera, 284.

21 Dt 22,21 sarebbe il passo citato in 1Cor 5,13 secondo l’opinione di COLLINS, First Corinthians, 223.

22 Queste ultime tre occorrenze così insistite di Dt 22,21.22.24 cadono tutte e tre in un contesto in cui si parla di fidanzate, di giovani donne e del modo in cui comportarsi con loro, il che lancia ancora una volta uno squarcio sulla sequenzialità di 1Cor 5–6 + 1Cor 7. Ma la questione ci porterebbe troppo lontano e comunque non si potrebbe restare nei limiti imposti dal presente lavoro.

23 L’elenco intero delle ricorrenze in Deuteronomio è riferito quale retroterra da GARLAND, 1 Corinthians, 191; C.S. KEENER, 1-2 Corinthians (NCBC), Cambridge 2005, 51; FITZMYER, First Corinthians, 245.

24 Sull’importanza che assumono i contesti all’interno delle citazioni paoline dell’AT cf. P. BASTA, Gezerah Shawah. Storia, forme e metodi dell’analogia biblica (SubBi 26), Roma 2006.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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4. NECESSITÀ DI ALLARGARE AL CONTESTO VETEROTESTAMENTARIO PIÙ AMPIO: L’IPOTESI DI MCDONOUGH

Una buona regola metodologica valida per l’esame di quasi tutti i ricorsi paolini all’AT consiste nel non fermarsi alla citazione puntuale, ma nel cercare di allargare costantemente l’indagine al contesto veterotestamentario più ampio. Ora, se si analizzano i luoghi del Deuteronomio in cui cade l’indicazione relativa all’eliminazione del malvagio di mezzo alla comunità (kai, evxarei/te to.n ponhro.n evx u`mw/n auvtw/n), ci si rende facilmente conto di come tale citazione non riguardi soltanto il caso di 1Cor 5 (l’incestuoso), ma tocchi in un certo qual senso, non come prassi, sia chiaro, ma solo come contatto, anche 1Cor 6,1-12 (appello ai tribunali pagani), 1Cor 6,13-20 (la pornei,a con prostitute) e anche, pur se in maniera più sfumata, 1Cor 7 (questioni matrimoniali). Ma procediamo per ordi- ne. Si è già sopra notato come, in Dt 13,6, il kai. avfaniei/j to.n ponhro.n evx u`mw/n auvtw/n cada in un contesto di lotta contro l’idolatria, che non sembra essere affat- to ciò di cui si parla nella nostra sezione di 1Cor. Con la conseguenza che sono in errore tutti coloro i quali, come la CEI, legano 1Cor 5,13 con Dt 13,6.25 Del resto, argomento ulteriore già sopra evidenziato, anche il verbo cambia: in 1Cor 5,13 si trova evxarei/te mentre in Dt 13,6 avfaniei/j. Se si va, però, a Dt 17,7, non a caso il versetto preferito da molti eccellenti commentari, ecco comparire, e in una maniera che è perfettamente identica, il nostro kai. evxarei/j to.n ponhro.n evx u`mw/n auvtw/n, e per giunta in un contesto tematico che è molto più vicino a quello di 1Cor 5–6, visto che cade tra due sezioni che rimandano proprio ai problemi su cui Paolo sta legiferando a Corinto.

Se però i commentari si fermano alla semplice segnalazione della presen- za di una citazione di Dt 17,7 in 1Cor 5,13, nessuno di essi sembra poi interessa- to ad approfondire ulteriormente la questione? Perché parlare di Dt 17,7 e non magari di Dt 19,19, o Dt 21,21 o Dt 22,21? Chi lo vieta? Interessante al riguardo è la proposta di McDonough, il primo – per quanto io ne sappia – a scoprire una relazione tra l’ordine in cui cadono le questioni in 1Cor e quanto capita in Dt 17,1-8.9-13:26

25 L’esame di questo caso rende chiaro come gli estensori dei riferimenti laterali presenti nelle moderne traduzioni della Bibbia non tengano sempre nel debito conto gli apporti che vengono dai miglio- ri studi e commentari, anche perché ciò richiederebbe un lavoro davvero improbo. Ovviamente le opera- zioni di intertestualità sono quanto di più complesso ci sia e non basta un solo uomo o anche un piccolo gruppo per esaurire la totalità dei dati. È però qui interessante notare soltanto il fenomeno.

26 Cf. S.M. MCDONOUGH, «Competent to Judge: the Old Testament Connection between 1 Corinthians 5 and 6», in JTS 56(2005), 99-102. Con le due tabelle seguenti intendo riproporre in maniera sintetica e facilmente visualizzabile i risultati a cui questo autore giunge nel corso del suo articolo.

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P. BASTA – Questioni morali in 1 Corinzi 5–6

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a. Deviazioni nel culto

Dt 17,1 Non sacrificherai al Signore tuo Dio un capo di bestiame grosso o minuto che abbia un difetto o una qualsiasi tara, perché questo è abomi- nio per il Signore tuo Dio. 17,2 Se si troverà in mezzo a te, in una delle tue città che il Signore tuo Dio ti dona, un uomo o una donna che faccia quanto è male agli occhi del Signore tuo Dio, trasgredendo la sua alleanza, 17,3 che vada a servire altri dèi e a prostrarsi innanzi a loro, al sole, alla luna o a tutto l’esercito del cielo, cosa che io non ho ordinato; 17,4 se ti è stato riferito e tu ne hai sentito parlare, hai indagato e accertato che la cosa è vera, che cioè questo abominio è stato compiuto in Israele, 17,5 farai uscire alle porte della tua città quell’uomo o quella donna che hanno compiuto tale azione malva- gia, e lapiderai quell’uomo o quella donna, così che muoiano. 17,6 Un con- dannato sarà messo a morte sulla paro- la di due o di tre testimoni; non sarà messo a morte sulla parola di un testi- mone solo. 17,7 La mano dei testimoni sarà la prima contro di lui per uccider- lo, poi la mano di tutto il popolo. Estir- perai il male in mezzo a te (kai. evxarei/j to.n ponhro.n evx u`mw/n auvtw/n).

1Cor 5,2 E voi siete ricolmi di orgoglio e non vi siete rammaricati, affinché si togliesse da voi chi ha compiuto una tale azione (i[na evxarqh/| evk me,sou u`mw/n o` to. e;rgon tou/to poih,saj)!

1Cor 5,13 Quelli di fuori li giudicherà Dio. Togliete quel perverso di mezzo a voi (Kai, evxarei/te to.n ponhro.n evx u`mw/n auvtw/n)!

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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b. I Giudici leviti

Dt 17,8 Se è troppo difficile per te un caso di giudizio tra sangue e sangue, tra diritto e diritto, tra percossa e percossa, questione di litigi nella tua città, allora ti leverai e salirai al luogo che il Signo- re tuo Dio sceglierà (eivj to.n to,pon o]n a'n evkle,xhtai ku,rioj o` qeo,j sou evpiklh- qh/nai to. o;noma auvtou/ evkei/)

17,9 e andrai dai sacerdoti leviti e dal giudice che sarà in funzione in quei giorni. Essi indagheranno e ti indiche- ranno i termini della sentenza. 17,10 Allora agirai secondo i termini che ti avranno indicato nel luogo che il Signore sceglierà; baderai di agire secondo le loro istruzioni. 17,11 Tu agi- rai secondo le istruzioni che ti imparti- ranno e la sentenza che pronunceran- no, senza deviare né a destra né a sini- stra dalla sentenza che essi ti indiche- ranno. 17,12 L’uomo che agirà con pre- sunzione e senza ascoltare il sacerdote che sta là per servire il Signore tuo Dio, o il giudice, quest’uomo morirà. Estir- perai il male da Israele (kai. evxarei/j to.n ponhro.n evx Israhl). 17,13 Tutto il popo- lo lo verrà a sapere, ne avrà timore e non agirà più con presunzione.

1Cor 6,1 V’è tra di voi chi, avendo una questione con un altro, ha l’ardire di farsi giudicare dagli ingiusti anziché dai santi?

1Cor 5,4 nel nome del Signore nostro Gesù (evn tw/| ovno,mati tou/ kuri,ou h`mw/n VIhsou// sunacqe,ntwn), convocati insieme voi, il mio spirito e la potenza del Signore nostro Gesù,

1Cor 3,16 Non sapete che siete tempio di Dio (Ouvk oi;date o[ti nao.j qeou/ evste) e che lo Spirito di Dio abita in voi? 1Cor 6,19 O non sapete che il vostro corpo è santuario dello Spirito Santo che è in voi ("H ouvk oi;date o[ti to. sw/ma u`mw/n nao.j tou/ evn u`mi/n a`gi,ou pneu,mato,j evstin), che avete da Dio e che non appartenete a voi stessi?

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P. BASTA – Questioni morali in 1 Corinzi 5–6

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Le conclusioni a cui McDonough giunge, dopo aver evidenziato anche qualche altro contatto a dire il vero assai flebile (come ad esempio i legami tra Dt 17,8 e 1Cor 5,4; 3,16; 6,19), è che Paolo avrebbe strutturato l’intera discussio- ne di 1Cor 5–6 alla luce di Dt 17 secondo questo ordine:

Dt 17,2-7␣  1Cor 5 Come in Israele, così anche a Corinto i peccati gravi devono essere trattati eliminando i trasgressori dalla comunità. Dt 17,8-13␣1Cor 6 Allo stesso modo casi difficili di varia natura nell’ambito di liti e di giudizi che sorgeranno nella comunità della nuova alleanza, devono essere trattati come già avvenne nell’antica. Ma con alcune differenze cruciali:

a) mentre nell’alleanza del Sinai alcuni casi dovevano essere portati per il giudizio al tempio, dove c’era il nome di Dio, sotto la nuova alleanza questa necessità scompare; b) i corinzi stessi infatti sono il tempio di Dio, in quanto essi sono il luogo che Dio ha scelto per porvi il suo nome;

c) di conseguenza, essi sono senza scuse quando non riescono a stabilire un accordo tra di loro e perciò si rivolgono a giudici pagani perché risolvano le loro questioni; d) finalmente, il misero fallimento dei giudizi tra i corinzi richiede che essi siano anco- ra bisognosi di essere riempiti di Spirito.27

Al di là di queste ultime considerazioni, che vanno un po’ troppo oltre quanto si possa fondatamente affermare sulla base dei contatti tra 1Cor 5–6 e Dt 17,2-13, rimane però vero che effettivamente all’indicazione di Dt 17,7, quella a cui Paolo verosimilmente fa riferimento in 1Cor 5,13, fa seguito in Dt 17,8-13 l’e- same delle liti tra israeliti e il modo in cui risolverle, con l’indicazione del ricor- so ai giudici leviti, a quei giudici cioè designati dalla comunità per sbrigare fac- cende interne al popolo di Israele. Di conseguenza i contesti di 1Cor 6,1-11 e Dt 17,8-13 possono essere ben assimilati.

5. UN CONTESTO ANCORA PIÙ AMPIO: LE ESPULSIONI DALLA COMUNITÀ IN DEUTERONOMIO

L’intuizione di McDonough è quindi ottima. Ma forse era necessario allar- gare la sua costatazione anche agli altri contesti deuteronomici in cui compare la norma di espellere dalla comunità,28 visto che emergono interessanti considera- zioni in tutti e quattro gli altri casi.

1) Se infatti ci spostiamo a Dt 19,19, si nota come l’indicazione kai. exv areij/ ton. ponhron. exv um` wn/ autv wn/ cada all’interno dell’unità di 19,15-20, interamente dedi- cata ancora una volta a questioni di tribunale (anche se più mirate alla faccenda del numero dei testimoni validi in un processo e alla loro eventuale falsa testimo- nianza), il che rimanda di nuovo allo stesso ambito «giudiziario» di 1Cor 6,1-11.

2) Ma anche il kai. evxarei/j to.n ponhro.n evx u`mw/n auvtw/n di Dt 21,21 cade in un contesto in cui si parla del figlio testardo e ribelle al padre e alla madre, il che

27 Cf. MCDONOUGH, «Competent to Judge», 101.

28 Per alcuni aspetti questo stesso invito a esaminare tutti i contesti del Deuteronomio in cui si ordi- na l’espulsione dalla comunità, compare, senza però che l’analisi ne risulti poi adeguata, in P. ELLINGWORTH – H. HATTON, A Translator’s Handbook on Paul’s First Letter to the Corinthians, London-New York-Stuttgart 1985, 105; R.B. HAYS, First Corinthians. Interpretation, Louisville 1997, 88; GARLAND, 1 Corinthians, 189.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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ha ancora in un certo senso a che fare con questa sezione di 1Cor, e più precisa- mente con il caso dell’incestuoso.

3) Per non parlare dei tre kai. evxarei/j to.n ponhro.n evx u`mw/n auvtw/n di Dt 22,21.22.24, presenti questa volta in un contesto in cui si parla di giovani mogli, di vergini fidanzate e del modo in cui comportarsi con loro. Il che rimanda, pur se con i dovuti distinguo, alle questioni da Paolo affrontate in 1Cor 7. Infatti, se si spinge lo sguardo all’insieme più ampio di Dt 22,13–23,1, salta immediata- mente all’attenzione come ci sia un grosso legame tra le questioni matrimoniali e il problema di estirpare il male da Israele:

Dt 22,13–23,1

1Cor 7

Dt 22,13 Se un uomo sposa una donna (eav n. de, tij lab, h| gunaik/ a), va da lei e poi la prende in odio, 22,14 l’accusa di colpe e le fa una cattiva fama dicendo: «Ho sposato questa donna, mi sono avvicina- to a lei, ma non le ho trovato i segni della verginità», 22,15 il padre e la madre della giovane prenderanno i segni della verginità della giovane, li porteranno agli anziani alla porta della città, 22,16 e il padre della giovane dirà agli anziani: «Ho dato mia figlia in sposa a quest’uomo, ma egli l’ha odiata, 22,17 ed ecco l’accusa di colpe dicendo: “Non ho trovato in tua figlia i segni della ver- ginità”. Questi sono i segni della vergi- nità di mia figlia», e stenderanno l’indu- mento davanti agli anziani della città. 22,18 Gli anziani di quella città prende- ranno l’uomo, lo castigheranno, 22,19 lo multeranno di cento sicli d’argento e li daranno al padre della giovane, perché quegli ha fatto una fama cattiva a una vergine d’Israele. Rimarrà sua moglie e non potrà ripudiarla mai più. 22,20 Ma se quel fatto è vero e i segni di verginità della giovane non si trovano, 22,21 con- durranno la giovane alla porta della casa di suo padre, e gli uomini della sua città la lapideranno e morirà, perché ha commesso un’infamia in Israele, profa- nando la casa di suo padre. Estirperai il male in mezzo a te (kai. exv areij/ ton. ponh- ron. exv um` wn/ autv wn/ ).

1Cor 7,10: Agli sposati ordino (Toi/j de. gegamhko,sin paragge,llw)..Pitta-Di Palma - II bozza_A8 24/05/12 15.31 Pagina 282

P. BASTA – Questioni morali in 1 Corinzi 5–6

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Dt 22,13–23,1

1Cor 7

22,22 Se un uomo viene trovato men- tre giace con una donna sposata (meta. gunaiko.j sunw|kisme,nhj avndri,), moriran- no tutti e due, l’uomo che giace con la donna e la donna. Estirperai il male da Israele (kai. evxarei/j to.n ponhro.n evx Israhl).

22,23 Se una giovane vergine è fidan- zata a un uomo (eva.n de. ge,nhtai pai/j parqe,noj memnhsteume,nh avndri,), e un altro uomo la trova in città e giace con lei, 22,24 li condurrete fuori tutti e due alla porta di quella città e li lapiderete; moriranno, la giovane perché non ha gridato nella città, l’uomo perché ha umiliato la donna del suo prossimo. Estirperai il male in mezzo a te (kai. evxarei/j to.n ponhro.n evx u`mw/n auvtw/n). 22,25 Ma se l’uomo trova la giovane fidanzata in campagna, le fa violenza e giace con lei, morirà l’uomo che è gia- ciuto con lei, 22,26 mentre non farai nulla alla giovane; per la giovane non c’è peccato meritevole di morte; è come quando un uomo sorge contro il suo prossimo e lo uccide, così in questo caso: 22,27 la giovane fidanzata, essen- do stata trovata in campagna magari ha gridato, ma nessuno l’ha sentita. 22,28 Se un uomo trova una giovane vergine non fidanzata (th.n pai/da th.n parqe,non h[tij ouv memnh,steutai), la pren- de, giace con lei e sono trovati in fla- grante, 22,29 l’uomo che è giaciuto con lei darà al padre della giovane cin- quanta sicli d’argento ed essa sarà sua moglie; poiché l’ha umiliata, non gli sarà mai lecito ripudiarla.

23,1 Un uomo non sposerà una moglie di suo padre (ouv lhm, yetai an; qrwpoj thn. gunaik/ a tou/ patroj. autv ou)/ e non scoprirà il lembo del mantello di suo padre.

1Cor 7,36: Se però qualcuno ritiene di non regolarsi convenientemente nei riguardi della sua vergine (Eiv de, tij avschmonei/n evpi. th.n parqe,non auvtou/ nomi,zei)... [1Cor 7,36-38 affronta il tema delle vergini fidanzate]

1Cor 7,25: Quanto alle vergini (Peri. de. tw/n parqe,nwn), non ho alcun comando dal Signore... [1Cor 7,25-28 affronta il tema delle vergini, con particolare rife- rimento a quelle non fidanzate]

1Cor 5,1: Si sente dovunque parlare di immoralità tra voi... al punto che uno convive con la moglie di suo padre (w[ste gunai/ka, tina tou/ patro.j e;cein).

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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Come si può facilmente vedere, pur se nella differenza dei casi e delle solu- zioni offerte, tanto Dt 22,13-29 quanto 1Cor 7 si occupano di tre questioni fon- damentali: la donna sposata, la vergine fidanzata e la vergine non fidanzata. Quel che a noi qui interessa non è l’esame della casistica, che è ovviamente molto diversa sia nei punti di partenza che nelle conclusioni, ma il fatto che entrambi i testi affrontino le medesime questioni. Inoltre, particolare non da poco, a Dt 22,13-29 segue la norma relativa al divieto per un figlio di sposare la moglie del padre, che è la questione con cui Paolo ha aperto la sua sezione di 1Cor 5–7. Che cosa significa? Sicuramente che i contesti di Dt sono ampiamente nella sua mente nel momento in cui offre ai corinzi le possibili piste di percorrenza di fron- te a talune difficoltà di ordine morale.

L’ultima ricorrenza di kai. evxarei/j to.n ponhro.n evx u`mw/n auvtw/n, in Dt 24,7, cade all’interno di un versetto che riguarda il ladro di fratelli:

Se si sorprende un uomo che rapisce uno dei suoi fratelli (kle,ptwn yuch.n tw/n avdelfw/n auvtou/) tra i figli d’Israele, se lo assoggetta o lo vende, quel rapitore morirà. Estirperai il male in mezzo a te (kai. evxarei/j to.n ponhro.n evx u`mw/n auvtw/n).

Il che rimanda questa volta a 1Cor 6,1-11, dove il defraudarsi tra fratelli (si noti all’interno di questo brano proprio l’insistenza sulla massa semantica di avdelfo,j)29 è l’elemento centrale, e con precisione a:

1Cor 6,8: Voi invece fate torto e defraudate, e questo nei confronti dei fratelli (kai. tou/to avdelfou,j). 1Cor 6,10: ... né gli effeminati, né i depravati, né i ladri (ou;te kle,ptai), né i cupidi, né gli ubriaconi, né i maldicenti, né i rapaci erediteranno il regno di Dio.

Che dire a questo punto della nostra indagine? Sicuramente che, alla luce di tutte queste considerazioni, è possibile affermare senza timore che Paolo nel momento in cui scrive 1Cor 5–7 ha ben in mente non solo la frase di Dt da lui cita- ta in 5,13 (Kai, evxarei/te to.n ponhro.n evx u`mw/n auvtw/n), ma anche il contesto più ampio in cui questo vero e proprio leitmotiv deuteronomistico cade, all’interno di quelle sezioni dell’ultimo libro della Torah, in cui trovano ampio spazio questio- ni identiche o soltanto simili a quelle che si stanno proponendo all’interno della comunità corinzia e in risposta alle quali l’apostolo sente di dover intervenire.

Molte considerazioni a questo punto si impongono.

– Anzitutto, ci sono argomenti importanti in favore dell’unità redazionale di 1Cor 5–7, che invece taluni indebitamente smembrano.30

29 Cf. 6,5: avna. me,son tou/ avdelfou/ auvtou/ – 6,6: avdelfo.j meta. avdelfou/ – 6,8: kai. tou/to avdelfou,jÅ

30 Cf. tra i tanti G. SELLIN, «Hauptprobleme des Ersten Korintherbriefes», in ARNW II, 25.4 (Berlin- New York 1987), 2965-2967; FEE, The First Epistle, 6-10, 266; FITZMYER, First Corinthians, 56-57. Per una ras- segna delle posizioni in merito alle varie ipotesi di compilazione di 1Cor servono ancora bene CONZELMANN, 1 Corinthians, 3-4; BARBAGLIO, La Prima lettera, 44-49.

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P. BASTA – Questioni morali in 1 Corinzi 5–6

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– In secondo luogo, emerge un metodo paolino molto chiaro che consiste nel rivisitare le situazioni contingenti alla luce di quanto espresso in AT, in un lavoro di riproposizione e di adattamento che è tipico del midrash giudaico.

– In terzo luogo, emerge ancora una volta con chiarezza come la citazione di un singolo versetto deve sempre essere indagata all’interno del suo contesto più ampio.

L’AT forniva a Paolo, e io penso non solo a lui, ma anche ai suoi contempo- ranei, un punto di riferimento assoluto in ordine all’interpretazione del presente. In tal modo le situazioni attuali venivano retroproiettate alla ricerca di contatti analogici, di semplice nesso o di similitudine di circostanza tali da offrire un aggan- cio sicuro in ordine alla risposta da offrire all’interno di una situazione concreta.

6. ESPULSIONI DALLA COMUNITÀ E CONTESTO PASQUALE

Ciò che Paolo ha però presente come background di 1Cor 5–7 lo si desu- me ulteriormente se si indaga più a fondo e ad altri livelli sui contatti con l’AT. Emerge infatti anche un collegamento importante tra l’esclusione/estirpazione dalla comunità e il tema del lievito a Pasqua, così come emerge con chiarezza in 1Cor 5,6-8, quasi una postilla al caso dell’incestuoso:

«Non è una bella cosa il vostro vanto. Non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta? Togliete il lievito vecchio, per essere pasta nuova, perché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità».31

6Ouv kalo.n to. kau,chma u`mw/nÅ ouvk oi;date o[ti mikra. zu,mh o[lon to. fu,rama zumoi/È 7evkka- qa,rate th.n palaia.n zu,mhn( i[na h=te ne,on fu,rama( kaqw,j evste a;zumoi\ kai. ga.r to. pa,sca h`mw/n evtu,qh Cristo,jÅ 8w[ste e`orta,zwmen mh. evn zu,mh| palaia/| mhde. evn zu,mh| kaki,aj kai. ponh- ri,aj avllV evn avzu,moij eivlikrinei,aj kai. avlhqei,ajÅ

Dall’AT si evince come, in occasione della Pasqua, le procedure di elimi- nazione del lievito presente nelle case dovessero essere eseguite con grande accuratezza. I testi che ne parlano sono Es 12,14-20; 13,3-10; Dt 16,1-8. Ma è solo in Es 12,15.19 che si insiste sulla recisione dalla comunità di Israele (evxoleqreu- qh,setai h` yuch. evkei,nh evk sunagwgh/j Israhl) di chi malauguratamente avesse tra- sgredito questo comandamento, ingerendo cibo lievitato:

Es 12,14 «Quel giorno sarà per voi un memoriale, e lo festeggerete come festa del Signore: nelle vostre generazioni lo festeggerete come prescrizione perenne». 12,15 Per sette giorni mangerete azzimi. Nel primo giorno farete sparire il lievito dalle vostre case, perché chiunque mangerà del lievitato, dal primo al settimo giorno, quel- la persona sarà recisa da Israele (e`pta. h`me,raj a;zuma e;desqe( avpo. de. th/j h`me,raj th/j prw,thj avfaniei/te zu,mhn evk tw/n oivkiw/n u`mw/n\ pa/j( o]j a'n fa,gh| zu,mhn( exv oleqreuqh,setai

31 Per la ricorrenza del motivo pasquale in 1 Corinzi cf. J.K. HOWARD, «“Christ Our Passover”: A Study of the Passover-Exodus Theme in I Corinthians», in EQ 41(1969)2, 97-108.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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h` yuch. evkei,nh evx Israhl avpo. th/j h`me,raj th/j prw,thj e[wj th/j h`me,raj th/j e`bdo,mhj).12,16 Nel primo giorno avrete una convocazione sacra, e anche nel settimo giorno avrete una convocazione sacra. Non si farà nessun lavoro: solo quello che si dovrà mangiare da ognuno, quello solo sarà fatto. 12,17 Osserverete gli azzimi, perché proprio in que- sto giorno ho fatto uscire le vostre schiere dal paese d’Egitto: osserverete questo gior- no come prescrizione perenne per le vostre generazioni. 12,18 Nel primo mese, il quat- tordicesimo giorno del mese, alla sera, mangerete azzimi fino al ventunesimo giorno del mese, alla sera. 12,19 Per sette giorni non si troverà lievito nelle vostre case, per- ché chiunque mangerà del lievitato, quella persona sarà recisa dalla comunità d’I- sraele, immigrato o nativo del paese (e`pta. h`mer, aj zu,mh ouvc eu`reqh,setai env tai/j oivkia, ij u`mw/n\ pa/j( o]j a'n fag, h| zumwton, ( evxoleqreuqh,setai h` yuch. evkei,nh evk sunagwgh/j Israhl e;n te toi/j geiw,raij kai. auvto,cqosin th/j gh/j). 12,20 Non mangerete nessun genere di lievi- tato; ovunque abiterete, mangerete azzimi».

Esiste dunque un contatto netto tra l’esclusione dalla comunità e il motivo pasquale già in AT. Ma se si continua a indagare, all’interno questa volta della tradizione ebraica, si nota come il contatto tra i casi che Paolo sta affrontando, in particolare quello dell’incestuoso, e le norme di esclusione collegate con il lie- vito pasquale è ancora più forte di quanto si possa immaginare. Molto interes- sante al riguardo è il legame tra 1Cor 5,1-11 e MKer 1,1:32

A. Trentasei trasgressioni sono sogget- te a estirpazione nella Torah: B. Colui che ha relazioni sessuali con (1) sua madre, e (2) con la moglie di suo padre, e (3) con sua nuora;

C. Colui che ha relazioni sessuali (4) con un maschio, e (5) con una bestia; e (6) la donna che ha relazioni sessuali con una bestia;

D. Colui che ha relazioni sessuali (7) con una donna e con la figlia di lei, e (8) con una donna sposata; E. Colui che ha relazioni sessuali (9) con sua sorella, e (10) con la sorella di suo padre, e (11) con la sorella di sua madre, e (12) con la sorella di sua moglie, e (13) con la moglie di suo fra- tello, e (14) con la moglie del fratello di suo padre, e (15) con una donna mestruata (Lv 18,6ss);

1Cor 5,1 Si sente parlare niente di meno che di un’impudicizia tra voi, e di un’impudicizia tale, che non capita neanche tra i pagani, al punto che uno convive con la moglie di suo padre.

1Cor 5,11 Ma ora vi scrivo di non immi- schiarvi con chi si dice fratello, ed è impudico, o cupido, o idolatra, o blasfe- mo, o ubriacone, o ladro (h|= por, noj( h' pleonek, thj( h' eidv wlolat, rhj( h' loid, oroj( h' meq, usoj( h' ar[ pax): con questi tali non dovete neanche mettervi a mensa.

32 Per questo testo cf. J. NEUSNER, A History of the Mishnaic Law of Holy Things. Part Five: Keritot, Meilah, Tamid, Middot, Qinnim. Translation and Explanation, Leiden 1980, 7-8.

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P. BASTA – Questioni morali in 1 Corinzi 5–6

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F. (16) Colui che bestemmia (Nm 15,30), e (17) colui che compie un atto di adorazione blasfema (Nm 15,31), e (18) colui che dà il suo seme a Moloch (Lv 18,21), e (19) uno che abbia «uno spirito di famiglia» (Lv 20,6);

G. (20) Colui che profana il giorno di Sabato (Es 31,14); H. E (21) una persona immonda che mangi una Cosa Santa (Lv 22,3), e (22) colui che viene al santuario quando è immondo (Nm 19,20);

I. Colui che mangia (23) grasso proibi- to (Lv 7,25), e (24) sangue (Lv 17,14), e (25) gli avanzi (Lv 19,6-8), e (26) i rifiu- ti (Lv 19,7-8);

J. Colui che (27) macella e colui che (28) offre [un sacrificio] fuori [del cor- tile del tempio] (Lv 17,9); K. (29) Colui che mangia lievito a Pasqua (Es 12,19); e colui che (30) mangia e colui che (31) lavora nel gior- no dell’Espiazione (Lv 23,29-30);

L. Colui che (32) fabbrica olio per l’un- zione [come quello fatto nel tempio (Es 30,23-33)], e colui che (33) fabbrica incenso [come quello fatto nel tempio], e colui che (34) unge se stesso con olio per l’unzione (Es 30–32);

M. [Colui che trasgredisce le leggi della] (35) Pasqua (Nm 9,13) e (36) cir- concisione (Gen 17,14), tra i comanda- menti positivi.

1Cor 5,7 Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. È stata immolata la nostra Pasqua, Cristo! 5,8 Celebriamo dunque la festa non tra lievito vecchio, né in lievito di malizia e perversità, ma con azzimi di purezza e di verità.

A questo punto resta da esaminare un ultimo contatto, evidenziato da Francis, tra la Pasqua e l’esclusione dalla comunità. Il testo in questione pone, a dire il vero, notevoli problemi di datazione perché appare di molto posteriore a Paolo. Ma è altrettanto vero che la tradizione in esso attestata affonda la sua radice in un’epoca molto antica. Si tratta infatti della celebre baraita sui quattro tipi di figli così come presente nell’haggada di Pesah:33

33 Per questo contatto cf. F.O. FRANCIS, «The Baraita of the Four Sons», in JAAR 42(1974), 296, nota

63.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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La Torah parla di quattro tipi di figli (quando ci impone di raccontare loro dell’uscita dall’Egitto): il saggio, il cattivo, il semplice e colui che non sa porre domande. Il saggio (acham) cosa dice? Quali sono i precetti, gli statuti e le leggi che vi ha comandato il Signore nostro Dio? Tu gli spiegherai in risposta le regole di Pesah fino alla proibizione di mangiare alcunché dopo aver mangiato al termine del pasto il sacri- ficio pasquale (che oggi è rappresentato simbolicamente da un pezzetto della terza azzima, afikomen).

Il cattivo (rashà) cosa dice? Cosa è questa vostra cerimonia? Vostra, non sua. Come se si mettesse fuori dalla comunità degli altri ebrei (ulfì sheotzì et atzmò min akelal kafar baikar). Tu gli risponderai provocatoriamente dicendogli: Tutto ciò è per quan- to il Signore fece per me quando uscii dall’Egitto. Dirai per me, non per lui, perché se fosse stato lì non sarebbe stato liberato.

Il semplice (tam) cosa dice? Domanda: che succede? Gli risponderai: con la sua poten- za ci fece uscire il Signore dall’Egitto, dal luogo della schiavitù. E con colui che non sa porre le domande (vesheenò iodea lishol), apri tu, donna, il discorso come è comandato nella Torah: ne parlerai a tuo figlio in quel giorno dicen- dogli: questo è per ciò che il Signore fece per me quando uscii dall’Egitto.

Come si vede, il figlio cattivo che pone nel contesto pasquale una doman- da impertinente, mettendosi in tal modo come fuori dalla comunità, collega il tema dell’esclusione con testi dal tono decisamente più sapienziale. In particola- re a riecheggiare è qui Es 13,14:

E se tuo figlio domani ti domanderà: «Che cos’è questo? (taZO=-hm; / ti, tou/to)», gli dirai: «Con mano forte il Signore ci ha fatto uscire dall’Egitto, dalla casa di schiavitù».

Versetto che ha una singolare assonanza con tre testi di scuola sapienziale:

Sir 39,16

Sir 39,21

Sir 22,10

Le opere del Signore son tutte molto belle, ogni suo comando si compie a suo tempo. Non deve dirsi: «Cos’è questo? Perché quello? (ti, tou/to eivj ti, tou/to)», perché ogni cosa sarà indagata a suo tempo.

Non deve dirsi: «Cos’è questo? Perché quello? (ti, tou/to eivj ti, tou/to)», perché ogni cosa è stata creata per un fine.

Parlare allo stolto (mwrw/|) è parlare a chi dorme, alla fine dirà: «Di che si trat- ta? (Ti, evstin)».

Da questo possibile e ulteriore contatto si può dedurre come l’esclusione dalla comunità, così come richiesta con particolare riferimento alla Pasqua, fosse collegata in ambito veterotestamentario e poi anche nella celebrazione del seder pasquale con motivi più strettamente sapienziali. Ma non ha forse Paolo in 1Cor 1–4 appena concluso una lunga riflessione completamente dominata dal tema della vera e della falsa sapienza? Un motivo in più dunque per sostenere, anche

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P. BASTA – Questioni morali in 1 Corinzi 5–6

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dall’osservatorio dell’intertestualità, l’unità di 1Cor, dato non sempre ammesso da tutti, come notato in precedenza, in maniera pacifica.34

Di conseguenza Deuteronomio e Pasqua, intrecciati tra loro dal motivo fondamentale dell’esclusione, sono i due contesti a cui Paolo pensa nel momen- to in cui offre ai corinzi piste di riflessione e di conversione in ordine a compor- tamenti obiettivamente riprovevoli che si erano presentati all’interno della comunità.

7. CONCLUSIONI

Proviamo a tirare ora una conclusione che tenga insieme i dati fin qui emersi. Tanto in Deuteronomio quanto nella catechesi pasquale domina il moti- vo delle due strade, della possibilità di stare dentro o di andare fuori. In 1Cor 5–6 le aeree sono tre:

1) la pornei,a, nel caso dell’incestuoso; 2) litigio, quindi tribunali pagani; 3) fornicatori, quindi ancora una volta il problema della pornei,a. In tutte e tre le aree abbiamo sempre due piste (come è del resto tipico

della tradizione deuteronomistica con le sue «due vie») sia per l’incesto, sia per i litigi, sia per la questione della pornei,a con prostitute.

1. Nella linea dell’incesto emerge subito il problema fondamentale: una immoralità (pornei,a) che porta a essere in balia di Satana (tw/| satana/|),35 come lie- vito vecchio (th.n palaia.n zu,mhn), con la conseguenza che si è fuori. Tra quelli di fuori (tou.j e;xw) ci sono «ubriaconi, maldicenti, impudichi, avari, ladri, idolatri». Fuori però, ma con la possibilità di ritornare dentro (e;sw). E questa è una prima via. C’è poi una seconda via che parte dalla salvezza nel giudizio (v. 5b: i[na to. pneu/ma swqh/| evn th/| h`me,ra| tou/ kuri,ou), ovviamente di immoralità, e che porta con sé l’essere fratello (avdelfo,j), l’essere dentro (e;sw), finalmente la verità e la since- rità (evn avzu,moij eivlikrinei,aj kai. avlhqei,aj). Ci sono, dunque, due macro-aree nella questione dell’incesto con uno «spartiacque» netto: l’immorale sta fuori, mentre il contrario di immorale (Paolo non ci dà un termine per definirlo) sta dentro. Vi è però anche un cenno a quel giudizio che ha bisogno del filtro del lievito vec- chio per essere agito, e che passa anche attraverso il vanto. Un lievito vecchio che porta poi a tutti i vizi elencati, escludendo di fatto dalla possibilità di stare den- tro una fratellanza, una verità, una sincerità. In definitiva, mi sembra che qui Paolo più in generale vada a definire uno schema relazionale tra gli uomini delle sue comunità. Uno schema di tipo predatorio, come nel caso dell’incestuoso, che

34 Cf. supra la nota 30.

35 Sulla strategia comunicativa del ricorso a Satana in 1 e 2 Corinzi cf. L.A. JOHNSON, «Satan Talk in Corinth: The Rhetoric of Conflict», in BTB 29(1999), 145-155; P. BASTA, «Satana: il nemico del cristiano, della Chiesa e dell’evangelizzazione I», in Theologia viatorum 2(1997), 77-125; ID., «Satana: il nemico del cristia- no, della Chiesa e dell’evangelizzazione II», in Theologia viatorum 3(1998), 83-122.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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in questa accezione può essere visto come il possedere una donna che in origine è madre o matrigna, ma che comunque compare in un’altra veste che non dovrebbe coinvolgere affatto l’aspetto sessuale. Il concetto di atteggiamento «predatorio» va però esteso, perché è lo stesso che conduce all’avarizia, a ruba- re, a idolatrare, a essere maldicenti, a indugiare nei vizi. Tutto questo porta ine- sorabilmente fuori da un rapporto di vicinanza, di fratellanza, di verità, di since- rità. Nel caso dell’incestuoso lo spaccato paolino è proprio questo.

2. E non è infatti una pura casualità che il medesimo schema ritorni subito dopo. Perché infatti subito dopo il caso dell’incestuoso c’è il tribunale, con il liti- gio? Sicuramente perché Paolo ha come retroterra l’ordine sequenziale di Dt 17,1-8.9-13, ma a questa considerazione bisogna anche aggiungere il fatto che il kri,nein fa da parola-gancio, visto che era un termine chiave già a proposito del- l’incestuoso e che ritorna subito qui, nel contesto dei tribunali:

5,12 ti, ga,r moi tou.j e;xw kri,neinÈ ouvci. tou.j e;sw u`mei/j kri,neteÈ 5,13 tou.j de. e;xw o` qeo.j krinei/Å evxa,rate to.n ponhro.n evx u`mw/n auvtw/nÅ 6,1 Tolma/| tij u`mw/n pra/gma e;cwn pro.j to.n e[teron kri,nesqai evpi. tw/n avdi,kwn kai. ouvci. evpi. tw/n a`gi,wnÈ 6,2 h' ouvk oi;date o[ti oi` a[gioi to.n ko,smon krinous/ inÈ kai. eiv evn u`mi/n kri,netai o` ko,smoj( avna,xioi, evste krithri,wn evlaci,stwnÈ 6,3 ouvk oi;date o[ti avgge,louj krinou/men( mh,tige biwtika,È

Come ritornano anche tutti i difetti di un cattivo giudizio, che in tale con- testo proviene dalle illusioni (cf. 6,9b: Non illudetevi [mh. plana/sqe]), e che tiene fuori ancora una volta il concetto di fratello (si noti l’abbondante ricorrenza di avdelfo,j in questo contesto), già presente nella sezione dell’incestuoso, a cui si lega però qui anche il concetto di santità/santo/santificazione (si noti la ricorren- za di a[gioj in 6,1-2 e di h`gia,sqhte in 6,11). È illusorio ritenere di poter fare a meno di questo concetto di fratellanza. Paolo insiste molto qui sulla parola fra- telli, perché se non si è fratelli non si va verso la santità, e si è nell’illusione, e quindi si diventa «immorali, maldicenti, idolatri, rapaci, ubriaconi, avari, sodomi- ti, infedeli, effeminati, ladri». Come già in precedenza, ancora una volta c’è que- sto grande filone del fratello, che qui diventa però più esplicito, generando la parola santi. Ancora una volta c’è un giudizio che porta all’illusione della carne, e quindi a tutti i difetti che a essa si legano. Nel caso dell’incesto l’essere in balìa di Satana equivale qui all’illudersi, da cui l’apostolo chiede di stare lontani, come in precedenza aveva chiesto di togliere il lievito vecchio, che in definitiva è poi il lievito di Satana. Il discorso non è però casuistico o moralistico, ma eminente- mente spirituale: si tratta in definitiva di non far lievitare quelle parti umane senza Spirito, cioè azzime da questo. Ma senza che il discorso sia disincarnato. Tutt’altro! È solo il recupero della dimensione di fratelli che può salvare dalle illusioni della carne, dall’essere in balìa di Satana, dal lievito vecchio.

3. Nella fornicazione (pornei,a) questo discorso viene ancor più specificato, partendo però da una considerazione ulteriore. E cioè che la fornicazione, in

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P. BASTA – Questioni morali in 1 Corinzi 5–6

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quanto elemento da valutare, è tale che, mentre gli altri peccati vengono fatti fuori, cioè nei confronti degli altri, pornei,a è invece un peccato che si fa contro se stessi. Quindi in questo caso si è di fronte all’esemplificazione di come alcuni corinzi trattano se stessi da dentro. L’espressione che ritorna qui, sulla base di Gen 2,24, è «un unico corpo (e]n sw/ma, / eivj sa,rka mi,an)».36 Ciò significa che quan- do un membro della Chiesa va da una prostituta pecca non semplicemente per- ché sta con una prostituta, ma ancor di più perché è una unità che ricerca un pia- cere. Il che ha a che fare nuovamente con tutti i difetti che si erano visti nell’a- rea dell’incestuoso (avari, ladri, impudichi, idolatri, maldicenti, ubriaconi) e poi nel caso dei litigi portati davanti al tribunale pagano (immorali, maldicenti, rapa- ci, idolatri, ubriaconi, adulteri, avari, sodomiti, effeminati, ladri). Qui però Paolo parla di fornicazione, che equivale a fare un male dentro. La progressione è chia- ra: nell’incesto si insisteva su moralità/immoralità; nel litigio davanti al tribunale pagano su giusto/ingiusto; qui invece la coordinata è lecito/illecito. C’è un illecito consumato dal corpo nei confronti del corpo, perché esiste a Corinto un corpo che pensa di poter fare a meno del Signore, invece di glorificarlo (6,20b: doxa,sate dh. to.n qeo.n evn tw/| sw,mati u`mw/n). Che cosa significa glorificare, se non andare verso il Signore? Ma andare verso il Signore e glorificarlo significa essergli pros- simali, vicini. E il corpo che risplende di questo è un corpo lecito, che vive quin- di anche le dimensioni del corpo lecitamente. Invece il corpo che non è in questa tensione di glorificazione di Dio consuma le cose illecitamente. Mi sembra che Paolo insista su questi temi per un giudizio morale non sulla prostituzione o sulla prostituta, ma sul fatto che alcuni tra i corinzi vivono momenti unificanti che sono fine a se stessi e che si esauriscono nello scaricamento dell’energia sessua- le. Ecco perché il brano si apriva con un riferimento all’ingozzarsi di cibo, quasi che le due realtà siano sullo stesso piano a livello delle pulsioni sottostanti. Una simile considerazione orienta tutta l’esegesi del brano, spiegando anche il fatto, molte volte purtroppo misconosciuto se non addirittura banalizzato, che il discorso di Paolo non nasconde sotto mentite spoglie una sua generica avversio- ne nei confronti di tutto ciò che è sessuale, ma è invece legato a una sua critica pertinentissima nei confronti di un utilizzo del corpo finalizzato esclusivamente a una scarica adrenergica di piacere, che è in definitiva fine a se stesso e che di conseguenza non glorifica Dio. Che cosa significa allora «glorificare il Signore nel proprio corpo»? Significa stare all’interno di una relazione, che è una rela- zione di amore.37 Tutto ciò che è fine a se stesso e che esclude una relazione di amore non va bene!

Una conclusione generale a questo punto si impone. Tanto nel caso del- l’incesto con il problema dell’immoralità, quanto nel caso del litigio davanti al

36 Sull’importanza della citazione di Gen 2,24 nel contesto di 1Cor 6,12-20 cf. G. BALDANZA, «L’“una caro” in 1Cor 6,12-20. Raffronto con Ef 5,25-32», in ID., La metafora sponsale in s. Paolo e nella tradizione liturgica siriaca (Biblioteca «Ephemerides liturgicae». Subsidia CLV 114), Roma 2001, 9-29.

37 Considerazioni simili sull’importanza del concetto di relazione in 1Cor 6,12-20 ancora in BAL- DANZA, «L’“una caro”», 14-15.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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tribunale pagano con la questione dell’ingiustizia, e infine nel caso della pornei,a con le considerazioni su ciò che è illecito, Paolo ha sempre insistito sulla neces- sità degli aspetti relazionali. La direzione è stata sempre la stessa: immoralità, giudizi ingiusti e illiceità sono tali perché portano a tutta una serie di aberrazio- ni, che hanno come denominatore comune l’esclusione sistematica della relazio- ne con Dio. Nell’incesto, lo ribadiamo, ciò è visto come un portare avanti una relazione altamente immorale, che in definitiva allontana da Dio e fa precipita- re in balìa di Satana. Nel giudizio davanti al tribunale pagano il grande difetto consiste nell’illusione di poter avere un giudizio esclusivamente umano sulle liti interne, e tale da escludere in ultima analisi ancora una volta la relazione con Dio, di cui i santi e sapienti della comunità potrebbero farsi portavoce. Nel terzo caso invece si fa riferimento a un modo illecito di trattare il corpo, che esclude una relazione, mirando a un appagamento fine a se stesso.

Quindi mi sembra, in definitiva, che ci sia una liaison in questa direzione, che ho provato soltanto ad abbozzare. Di conseguenza mi limito qui a questo, senza voler approfondire ulteriormente il livello di analisi, anche perché la mia intenzione è quella di lasciare al riguardo il discorso volutamente aperto, senza però non ribadire ancora un’ultima volta il fatto che non è un caso che Paolo offra in 1Cor 5–6(7) queste sequenze e non altre. L’apostolo ha davanti a sé i testi del Deuteronomio in cui emerge il motivo dell’esclusione dalla comunità, e di conse- guenza – per circostanze analoghe verificatesi a Corinto – ne segue la falsariga, pur se con le dovute distinzioni, che abitano però più al livello delle conclusioni che non dell’ordine sequenziale. E, come è prassi nella tradizione deuteronomi- stica, Paolo traccia per ognuna delle tre questioni una doppia via di percorrenza: da un lato la negazione delle relazioni a tutti i livelli, dall’altro la piena realizza- zione di esse tanto con Dio quanto con i fratelli, perché queste tre sequenze ser- vono in definitiva a tracciare la linea del morale/immorale, del giusto/ingiusto, del lecito/non lecito. «Tutto è lecito, ma non tutto giova». Che cosa significa? Che tutto è morale, giusto e lecito se si è in relazione armonica con gli altri e con Dio, con Colui cioè che nell’armonia delle relazioni viene per l’appunto glorificato.

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S. Paolo, maestro della carità. L’amore nella Prima lettera ai Corinzi (1Cor 12,31–13,7)

JOAN MARIA VERNET MATEU

Paolo è stato tradizionalmente chiamato «maestro della fede» per il suo insegnamento originale e profondo sulla fede cristiana, specialmente nel senso «paolino» o «salvifico» della fede, cioè, la fede in Cristo che ci salva credendo che lui è il nostro Redentore e per la cui morte e risurrezione tutti noi siamo stati redenti. In tutte le sue epistole troviamo riferimenti a questa fede salvifica, ma in particolare la vediamo nelle Lettere ai Galati e ai Romani dove l’apostolo svi- luppa la sua dottrina.

Lo stesso si potrebbe dire dell’apostolo nei suoi insegnamenti sulla carità o amore cristiano: h` avga,ph. Paolo è pure un vero e originale «maestro della carità». Solo Giovanni può rivaleggiare con lui nel primato della dottrina della carità nel Nuovo Testamento, sia nella profondità che nella qualità e originalità della dottrina sull’amore cristiano. Anzi, prima ancora di Giovanni, Paolo ha posto la carità al centro del cristianesimo.1

avga,ph è un vocabolo raro, ma non sconosciuto nella letteratura greca. La versione dei LXX spesso usa questa parola per parlare dell’amor di Dio, e probabilmente era la fonte del suo uso tra i primi cristiani; essi adoperarono la parola avga,ph per indicare l’amore, distinguendolo da e;roj, «amore che desidera», e da fili,a, «simpatia naturale o mutuo affetto».2

Paolo parla in tutte le sue epistole della carità, insistendo su di essa in mille forme (dottrina, insegnamento, esortazione) perché secondo lui l’avga,ph è un tema basilare nella vita cristiana.3 Nel suo epistolario troviamo pagine splendide sulla carità, come in Rm 12,9-21; 1Cor 9,19-23; Ef 4,25–5,2; Col 3,12-15; 1Ts 5,12- 22; ecc. Ma il luogo dove questa parola giunge al suo culmine, il punto più alto di sublimità e di bellezza è, senza alcun dubbio, il capitolo 13 della Prima lettera ai Corinzi.

Questo capitolo, anche se consacrato a una sola grazia della vita cristiana, e conse- quentemente non lo si può paragonare con il capitolo ottavo della Lettera ai Romani

1 «Avant saint Jean, c’est saint Paul qui a placé l’avga,ph au centre du christianisme» (C. SPICQ, Agapé II, Paris 1966, 9).

2 G.D. FEE, God’s Empowering Presence, Pealudy, MA 1994, 201, nota 441.

3 Secondo le statistiche, Paolo cita 75 volte la parola avga,ph; Giovanni la cita 7 volte nel Vangelo, 21 nelle sue lettere e 1 volta nell’Apocalisse. Matteo e Luca la citano una volta sola, e Marco e Atti mai.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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o con qualche capitolo della Lettera agli Efesini che ci rivela i misteri della redenzio- ne, è stato sempre considerato come uno dei gioielli della Scrittura. Per la sua eleva- zione morale, per la sua ricchezza e ampiezza, per la sua bellezza e armonia di espres- sione, è stato l’oggetto di ammirazione della Chiesa in tutti i tempi.4

Come maestro religioso e moralista, Paolo parla di questa virtù centrale della vita cristiana come di un o`do,j, cioè come l’indispensabile via da seguire per i seguaci di Cristo.

Nello studio di questo capitolo, inizieremo analizzando l’ultimo versetto del capitolo 12 (12,31) e la prima e la seconda parte del capitolo 13 (vv. 1-3.4-7). Lo studieremo sotto il punto di vista letterario e teologico, illuminando le qua- lità e le caratteristiche di questo straordinario insegnamento dell’apostolo nelle sue parti e nei singoli vocaboli.

Basandoci sul testo originale greco e sulla versione italiana ufficiale della CEI, terremo anche conto della versione latina della Vulgata e della nostra stes- sa scelta davanti alle opzioni possibili.

Cominciamo con l’intero capitolo 13 della Prima lettera ai Corinzi, sia nel testo greco sia nella traduzione italiana.

1. CAPITOLO 13 DELLA PRIMA LETTERA AI CORINZI

Prima di tutto, diamo il testo greco originale e la versione italiana della CEI di 1Cor 12,31–13,7 con qualche mio ritocco personale:

1Cor 12,31: Aspirate ai carismi più grandi! E io vi mostrerò una via migliore di tutte.

1Cor 13,1: Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.

2: E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e possedessi la pienezza della fede

Zhlou/te de. ta. cari,smata ta. mei,zonaÅ

Kai e;ti kaqV u`perbolh.n o`do.n u`mi/n dei,knumiÅ

VEa.n tai/j glw,ssaij tw/n avnqrw,pwn lalw/ kai. tw/n avgge,lwn avga,phn de. mh. e;cw

ge,gona calko.j hvcw/n h' ku,mbalon avlala,zonÅ

kai. eva.n e;cw profhtei,an kai. eivdw/ ta. musth,ria pa,nta kai. pa/san th.n gnw/sin kai. eva.n e;cw pa/san th.n pi,stin

4 C. HODGE, First Epistle to the Corinthians, London 1959, 265.

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J.M. VERNET MATEU – S. Paolo, maestro della carità

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così da trasportare le montagne, ma non avessi carità, non sono nulla.

3: E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato,

ma non avessi la carità, niente mi giova.

4: La carità è paziente, la carità è benigna, non è invidiosa, non si vanta,

non si gonfia,

5: non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto,

6: non gode dell’ingiustizia ma si compiace della verità.

7: Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.

w[ste o;rh meqista,nai avga,phn de. mh. e;cw( ouvqe,n eivmiÅ

ka'n ywmi,sw pa,nta ta. u`pa,rconta, mou kai. eva.n paradw/ to. sw/ma, mou i[na kauch,swmai avga,phn de. mh. e;cw( ouvde.n wvfelou/maiÅ

~H avga,ph makroqumei/ crhsteu,etai h` avga,ph ouv zhloi/( ouv perpereu,etai(

ouv fusiou/tai(

ouvk avschmonei/( ouv zhtei/ ta. e`auth/j( ouv paroxu,netai( ouv logi,zetai to. kako,n(

ouv cai,rei evpi. th/| avdiki,a| sugcai,rei de. th/| avlhqei,a|Å

pa,nta ste,gei( pa,nta pisteu,ei( pa,nta evlpi,zei( pa,nta u`pome,neiÅ

2. STUDIO LETTERARIO DEL CAPITOLO 13 DELLA PRIMA LETTERA AI CORINZI

Fin dall’antichità il capitolo 13 della Prima lettera ai Corinzi è stato consi- derato dai padri della Chiesa, da commentatori, esegeti e persone colte nella fede un capolavoro delle lettere paoline sul tema dell’avga,ph, l’amore cristiano o carità. La sua ispirazione, la sua struttura letteraria, il suo equilibrio nelle tre parti che lo compongono, e specialmente la sua forza spirituale e la sua bellezza morale, lo collocano tra i brani più straordinari di tutto il Nuovo Testamento.

Probabilmente questo capitolo è il più noto di tutte le lettere dell’aposto- lo. Il suo valore letterario e teologico è grande. La sua composizione mostra fino a quali estremi di profondità e di spiritualità possano giungere la mente e lo spi- rito di Paolo, offrendo alla Chiesa un tesoro di divina e umana ispirazione senza pari. L’emozione e il fervore che riempiono questo capitolo sono unici in tutta la letteratura paolina.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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Questa pagina, chiamata il «Cantico dei cantici del Nuovo Testamento», è stata definita da A. Harnack come «la più grande, la più vigorosa e la più profon- da delle pagine che Paolo abbia mai scritto».5

Il capitolo 13 della Prima lettera ai Corinzi è l’apice dell’epistola dove l’a- postolo parla dell’avga,ph. Questo amore non è né un approccio moralistico né una semplice filantropia umana. È il vero amore di Dio condiviso nella vita cristiana, riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo (Rm 5,5) che raggiunge i fratelli. La carità è l’essenza, il nocciolo della vita cristiana. Senza di essa il resto è del tutto inutile e, a differenza dei carismi, la carità è necessaria a tutti. Questa è la dottrina dell’apostolo delle genti nella Lettera ai Corinzi.

Dobbiamo aggiungere con Barbaglio che questo insegnamento è «una parola diretta a una Chiesa divisa che ha sbagliato il senso della fraternità e della condivisione della mutua sollecitudine».6

Autenticità

Sull’autenticità paolina della Prima lettera ai Corinzi e sul capitolo 13 non c’è oggi praticamente nessun dubbio. Tempo fa c’erano autori che dubitavano dell’autenticità di entrambi. Basti vedere quanto pensava Loisy sul capitolo 13 della lettera: «Anche se questo capitolo è degno di Paolo nei suoi migliori momenti, questo brano ha tutta la possibilità di non essere suo».7

Per il suo stile, per la profondità e lo slancio che percorrono tutto il capi- tolo, l’evidenza paolina s’impone a tutti e oggi si considera questo brano come uno dei capolavori del genio dell’apostolo. Si veda lo studio di M. Dibelius, «Zur Formgeschichte des Neuen Testaments».8

Contesto

Il v. 31a del capitolo 12 di 1Cor si unisce perfettamente a quanto lo prece- de, sui carismi entro la Chiesa, specialmente nei vv. 1.4-11.27-30. La seconda metà, v. 31b, è unita tematicamente al capitolo 13. Così diversi autori hanno con- siderato l’intero capitolo 13 con 12,31 come un’aggiunta posteriore nel mezzo di un trattato paolino sui carismi. In effetti, come dice J. Héring, «questo capitolo interrompe manifestamente l’argomento sui doni spirituali. Le due frasi aggiun- te all’inizio e alla fine da un redattore sono un esempio tipico di quello che si chiama un raccordo».9

5 A. HARNACK, «Das hohe Lied des Apostles Paulus von der Liebe», in Sitz.-Ber.Akad. Wissenschaft, Berlin 1911, I, 132.

6 G. BARBAGLIO, La Prima lettera ai Corinzi, EDB, Bologna 1996, 482. 7 A. LOISY, Les livres du Nouveau Testament, Paris 1922, 43. 8 In Theologische Rundsehau 3(1931), 231. 9 «Ce chapitre interrompt manifestement la discussion sur les dons spirituels. Les deux phrases

ajoutées au début et à la fin par un redacteur sont même un exemple typique de ce qu’on appelle raccord» (J. HËRING, La Première épître de saint Paul aux Corinthiens, Neuchâtel 21959, 115).

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J.M. VERNET MATEU – S. Paolo, maestro della carità

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Lo stesso afferma J. Weiss, quando dice che questo capitolo con le sue sutu- re artificiali che lo uniscono ai capitoli 12 e 14 non occupa il suo vero spazio, che sarebbe dopo 8,13 dove, effettivamente, Paolo parla in un contesto di carità sulla carità.10

I capitoli 12 e 14 sono una dissertazione-risposta di Paolo sui carismi e sulla supposta interruzione di questo tema. Scrive Spicq: «Le chapitre XIII n’in- terrompt nullement l’exposé sur les charismes. Il est au contraire un anneau nécessaire dans l’argument qui veut les situer à leur place».11

Forma letteraria

Citando O. Wishmeyer, Barbaglio enumera una serie di nomi che cercano di definire il senso di questo capitolo, come encomio, descrizione, inno, aretolo- gia, salmo, confessione, sermone, istruzione, diatriba... e dice: «La lunga enume- razione dei 15 verbi del brano dice che per l’autore l’agape è tutto. Già qui si annuncia la successiva categoria di ciò che è perfetto to téleion».12

La conclusione è che il capitolo 13 della 1Cor non è propriamente un inno nel senso di una composizione poetica, come nel caso di Fil 2,6-11, l’inno della «kenosi» di Cristo. È piuttosto una prosa con un certo ritmo e cadenza.13

In mezzo al grande tema dei carismi (cc. 12 e 14), il capitolo 13 costituisce la parte centrale del discorso e rivela la sua importanza e trascendenza, superio- re a ogni altro dono dello Spirito Santo.

Struttura letteraria

Nella seconda parte della lettera, il capitolo 13 è l’apice dell’insegnamento morale di Paolo; la struttura letteraria di questa composizione teologica e poeti- ca sviluppa un movimento ascendente diviso in tre parti, con una breve introdu- zione. La divisione si può fare facilmente tenendo conto della tematica delle diverse parti:

a) Introduzione: 12,31. b) Carità e carismi: assoluta superiorità della carità: 13,1-3. c) Caratteristiche della carità: la carità attrae le altre virtù: 13,4-7. d) Trascendenza della carità: durata e valore della carità: 13,8-13.

205.

10 J. WEISS, Der erste Korintherbrief, Göttingen 101925. 11 SPICQ, Agapé II, 56. 12 BARBAGLIO, La Prima lettera ai Corinzi, 692; O. WISCH-MEYER, Der Hoechste Weg, Gütersloh 1981,

13 Cf. A. KLOSTERMANN, Probleme im Aposteltexte, Gotha 1896, 183-184; 209-210.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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3. INTERPRETAZIONE DI 1COR 12,31 1Cor 12,31: Aspirate ai carismi più grandi! E io vi mostrerò una via migliore di tutte.

Critica testuale

Zhlou/te de. ta. cari,smata ta. mei,zonaÅ Kai e;ti kaqV u`perbolh.n o`do.n u`mi/n dei,knumiÅ

1Cor 12,31 ha delle varianti che, comunque, non cambiano eccessivamente il senso del pensiero. In luogo di mei,zona (maggiore), certi manoscritti (D E F G it Vg cl) hanno krei,ttona (meglio, superiore). Altri, in luogo di e;ti hanno eiv tiÅ Alcuni autori le hanno adottate, ma il senso non rimane molto lontano da quel- lo che la maggiorianza degli studiosi ammette.14

Metodologicamente dobbiamo considerare che il capitolo 13 della lette- ra comincia propriamente nell’ultimo versetto del capitolo precedente, in 1Cor 12,31. Questo versetto è la conclusione del capitolo 12 sui doni dello Spirito Santo (12,31a) ed è anche il preludio che mostra l’eccellenza, la suprema importanza dell’avga,ph nella vita cristiana (12,31b). La seconda parte del v. 31 mostra l’importanza dell’avga,ph, definita come la più eccellente delle vie, o`do,j katV u`perbolh,n.

– 1Cor 12,31a: Aspirate ai carismi più grandi!

Dopo aver parlato dell’eccellenza dei carismi, Paolo può aprire la porta ai corinzi invitandoli a desiderare i più alti doni dello Spirito. I carismi costruisco- no la comunità, sono segni della vita e della vitalità della Chiesa e manifestazio- ne della presenza e azione dello Spirito Santo tra i cristiani. Per questo l’aposto- lo invita a desiderare i doni migliori ta. cari,smata ta. mei,zona, i più importanti, i più grandi doni dello Spirito, come dirà di nuovo in 14,1. «Non è “amore versus i doni” che s. Paolo ha in mente, ma l’amore come l’unico contesto per i doni, per- ché, senza l’amore, i doni non hanno alcuna utilità».15

– 1Cor 12,31b: E io vi mostrerò una via migliore di tutte.

Paolo, scrivendo il capitolo 13 della Prima lettera ai Corinzi, volle dargli un titolo, una parola che riassumesse la dottrina sulla carità. Questa parola-titolo o parola-sintesi del cantico sulla carità è la parola o`do,j, via, cammino, strada.

14 A. DEBRUNNER, «Ueber einige Lesarten der Chester-Beatty Papyri des neuen Testamentes», in Coniec. Neot. 11(1947), 37.

15 FEE, God’s Empowering Presence, 197.

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J.M. VERNET MATEU – S. Paolo, maestro della carità

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Il termine o`do,j

Sopra i doni spirituali, tutti eccellenti e necessari per la comunità, vi è qual- cosa di ancora più alto, superiore, ancora più eccellente, completo ed efficiente: vi è una virtù, una caratteristica, un valore che l’apostolo ha qualificato come via, o`do,j, sulla quale deve camminare l’intera vita cristiana.16

Il termine o`do,j è un vocabolo tradizionale che, oltre al senso fisico e geo- grafico di «via», indica una dottrina morale o religiosa, utilizzata da quasi tutti i saggi e maestri di spirito dell’antichità nelle loro dottrine. Essi parlano della via della verità, via della vita, via della salvezza, via della giustizia, ecc. In questi insegnamenti o`do,j è sinonimo di comportamento, di condotta personale, di stile di vita.

~Odo,j in effetti è un termine pieno di senso e di significato, usato da mae- stri spirituali e dalla Bibbia per indicare l’umana esperienza della via e il suo sim- bolismo, per esprimere che cosa siano la vita umana, la sua origine e la sua fine, il comportamento dell’uomo e le sue aspirazioni e ideali.

Da sempre l’uomo è stato in contatto con questa realtà dai molteplici volti mutanti che è la via. In tutti i secoli l’uomo ha conosciuto le grandi migrazioni che lo hanno condotto da un paese all’altro. Per l’uomo di sempre, la via è qualcosa di concreto, che rappresenta un certo numero di valori fissi: la via è evocatrice di sforzi, di difficoltà superate, di coraggio tenace, perfino di bellezza... Solo all’uomo moderno della tec- nica e della velocità senza sforzo, delle grandi crociere che non sono avventure, la via non parla più e non gli rivela i suoi segreti. È dai nostri padri, dai pellegrini del medioevo, e dai nomadi dell’oriente che dobbiamo andare per chiedere quello che molti progressisti del nostro tempo ignorano.17

Paolo accompagna la parola o`do,j con un sorprendente avverbio: kaqV u`per- bolh,n, che significa «per eccellenza», «il più eccellente», «il migliore di tutti»: «a still more excellent». KaqV u`perbolh.n non è un comparativo, come traduce la Vul- gata: excellentiorem, ma un superlativo che indica il livello più alto, l’unica cosa, «un grado straordinario, oltre ogni misura»,18 come una regola d’oro di compor- tamento per il fedele cristiano, in modo che noi possiamo essere cristiani senza carismi, ma non cristiani senza carità.

16 Paolo utilizza solo 6 volte la parola o`do,j nelle sue epistole: tre di esse, al plurale, come citazioni dell’Antico Testamento (Rm 3,16.17; 11,33; 1Cor 4,17; 1Ts 3,11; 1Cor 12,31). Il più originale di tutti questi utilizzi è quello di 1Cor 12,31.

17 A. GROSS, Je suis la route, Lille 1960, 8: «De tout temps l’home fut en contact avec cette réalité aux multiples visages toujours changeants qu’est la route. A toutes les époques l’homme a connu ces grandes migrations qui l’amenaient d’un pays à l’autre. Pour l’homme de toujours la route est quelque chose de con- cret, qui représente un certain nombre de valeurs fixes: la route est évocatrice d’efforts, de difficultés sur- montées, de courage ténace, de beauté en fin... Il n’y a guère qu’à l’homme moderne de la technique et de la vitesse sans effort, des grandes croisières qui ne sont plus des aventures, que la route ne parle pas et ne livre pas ses secrets. C’est à nos pères, les pèlerins du Moyen Age, c’est aux nomades de l’Orient qu’il faut aller demander ce que beaucoup de civilisés d’aujourd’hui ignorent».

18 W. BAUER, A Greek-English Lexicon, Chicago 1964, 848.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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Il termine avga,ph

La carità è per i cristiani il dono sopra ogni altro dono, il primo dono in assoluto (Gal 5,22), la vera teleio,thj o perfezione. La carità è l’essenza, l’anima della vita cristiana. Senza di essa tutto il resto è inutile.

Il termine greco avga,ph viene ripetuto nell’interno dell’inno nove volte. Spesso il testo procede in forma paradossale. Il pezzo lirico, di notevole qualità stilistica, ha quindi una funzione fondativa e discernente in ordine alla conflittualità all’interno della comunità corinzia relativamente alla gerarchia dei carismi.19

Utilizzando la parola o`do,j l’apostolo Paolo si colloca tra le grandi guide religiose o morali dell’antichità ed è visto come un vero maestro della dottrina che insegna.

Paolo non chiama la carità virtù, carisma o grazia, ma o`do,j. È l’unico caso nella letteratura biblica in cui l’amore viene espresso dal vocabolo o`do,j. Per il fatto di avergli dato tale denominazione, Paolo ha arricchito enormemente il concetto cristiano di amore e allo stesso tempo questa sua presentazione come via arricchisce moltissimo il campo della sua significazione. «È questa che costi- tuisce la via regale da battere da parte dei credenti».20

Nell’Epistola agli Efesini leggiamo: «Camminate nella carità» (Ef 5,1). Come la via della vita di un uomo, il suo stile di vita, lo distinguono dagli altri uomini, così la via della carità è quello che distingue il cristiano. Proprio questo era quanto Gesù, con altre parole, aveva detto ai suoi discepoli nell’ultima cena, parlando del nuovo comandamento: «Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35).

4. INTERPRETAZIONE DI 1COR 13,1-3

1Cor 13,1: Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. 2: E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi carità, non sono nulla. 3: E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova.

19 S. GRASSO, Prima lettera ai Corinzi, Città nuova, Roma 2002, 146. 20 BARBAGLIO, La Prima lettera ai Corinzi, 478.

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J.M. VERNET MATEU – S. Paolo, maestro della carità

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Carità e carismi: assoluta superiorità della carità: 13,1-3

In questa prima strofa del capitolo 13, Paolo paragona i carismi con la carità e mostra l’eccellenza e la superiorità dell’avga,ph sopra ogni carisma e dono, perfino i più alti o i più importanti.

Paolo descrive ogni possibile perfezione dell’uomo nel campo religioso e morale, e mostra che, con il possesso dei doni più eccellenti, tutti i doni senza la carità non hanno alcun valore. L’uomo senza la vera carità cerca solo se stesso. Senza carità ogni dono o potere religioso, ogni vicinanza a Dio e ogni pietà si cor- rompono; essi sono una semplice esteriorità o apparenza.

Solo l’avga,ph è il parametro con il quale gli altri doni di Dio possono essere misurati. Solo la carità è il vero senso che conserva l’unità e la testimonianza nella comunità cristiana (Gv 13,35). Senza la carità, i carismi non sono vita cri- stiana ma rumore, vento, vanità e nullità.

In questi primi tre versetti Paolo enumera una serie di doni o di atteggia- menti carismatici: dono delle lingue (v. 1), profezia, saggezza, scienza e fede (v. 2) e assistenza (v. 3). L’apostolo relativizza tutti questi doni e afferma che tutta la loro ricchezza spirituale, senza la carità, non ha alcun valore.

13,1: Dono delle lingue 1Cor 13,1: Se anche parlassi le lingue

degli uomini e degli angeli ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.

VEa.n tai/j glw,ssaij tw/n avnqrw,- pwn lalw/ kai. tw/n avgge,lwn avga,phn de. mh. e;cw

ge,gona calko.j hvcw/n h ku,mbalon avlala,zonÅ

Per i corinzi parlare in lingue era il più desiderabile dei carismi. Tale dono era un fenomeno carismatico di lode ed esultazione in un linguaggio inintelli- gibile.

Paolo aggiunge, in una evidente iperbole, «le lingue degli angeli» come se dicesse: «Se io parlassi del modo più sublime, con un linguaggio divino». L’apo- stolo paragona il dono delle lingue senza amore al suono del bronzo che risuona o al cembalo che tintinna, bronzo e cembalo che producono rumore ma non danno alcuna melodia. Il dono delle lingue senza carità è solo un segno di este- riorità, di vuoto, di superficialità o di inconsistenza. Solo l’amore dà senso, profondità e pienezza al cristiano.

13,2: Dono della profezia

2: E se avessi il dono della profezia kai. eva.n e;cw profhtei,an e conoscessi tutti i misteri kai. eivdw/ ta. musth,ria pa,nta

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e tutta la scienza e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi carità, non sono nulla.

kai. pa/san th.n gnw/sin kai. eva.n e;cw pa/san th.n pi,stin w[ste o;rh meqista,nai avga,phn de. mh. e;cw( ouvqe,n eivmiÅ

Profezia è il dono di parlare da parte di Dio per esortare o incoraggiare i fratelli (1Cor 14,3).

La saggezza è la perfetta conoscenza dei misteri della fede. Invece la scien- za (gnw/sij) è la conoscenza dei misteri ultimi o escatologici.

Fede, in questo caso, è l’abilità di realizzare dei miracoli (non la fede che giustifica).

Perfino questi doni, anche se preziosi e desiderati, senza amore non danno nulla e non sono nulla per colui che li possiede.

13,3: Dono dell’assistenza e la propria immolazione

3: E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato,

ma non avessi la carità, niente mi giova.

Critica testuale

ka'n ywmi,sw pa,nta ta. u`pa,rconta, mou kai. eva.n paradw/ to. sw/ma, mou i[na kauch,swmai avga,phn de. mh. e;cw( ouvde.n wvfelou/maiÅ

«Questo versetto costituisce uno dei più conosciuti esempi di una crux della critica testuale nel Nuovo Testamento».21 In esso abbiamo una variante: il verbo che segue la preposizione i[na ha una doppia lettura nei vecchi manoscrit- ti: una è kauch,swmai (gloriarsi di se stesso) e l’altra è kauqh,swmai (bruciarsi). La prima forma è attestata da P46 B S A Or Jer Copt. La seconda forma è attestata da C D F G L, versioni antiche, manoscritti medievali e il Textus receptus. Con la maggior parte dei commentatori, noi scegliamo la seconda lettura, «essere bru- ciato». Vantarsi o gloriarsi di se stesso è di per sé un atto riprovevole. Tutto som- mato, «essere bruciato appare come la lettura preferibile».22

Paolo va oltre il pensabile per insegnare il valore supremo della carità: parla perfino della possibilità di dare tutto quanto si possiede per i poveri, e per- fino immolare se stesso, donando il proprio corpo per essere bruciato, indicando l’estremo dell’umana energia e donazione.

Ma anche in questi casi estremi, in questi eroismi, se fatti senza carità, non c’è alcun valore o virtù. Uno può dare tutto quanto possiede ai poveri in un atto

21 «This verse constitutes one of the most widely known examples of a crux of textual criticism in the New Testament» (A.C. THISELTON, The First Epistle to the Corinthians, Grand Rapids, MI 2000, 1042).

22 R.F. COLLINS, First Letter to the Corinthians, Minnesota 1999, 477.

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J.M. VERNET MATEU – S. Paolo, maestro della carità

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di filantropia, e un altro può darsi totalmente fino alla morte mostrando il suo affetto, la sua fedeltà, la sua totale donazione, ma perfino in questi casi, se non c’è carità, non vi è alcun profitto, alcun bene per colui che li realizza.

Solo l’avga,ph può dare pienezza, senso, profondità e solo l’avga,ph può creare l’atmosfera che, venendo da Dio, raggiunge il prossimo, dando all’atto d’amore un valore umano-divino.

Paolo va al di là di ogni facciata, di ogni apparenza, di ogni miraggio e scen- de nelle profondità del cuore e della fede dell’uomo, per insegnare la verità del- l’amore cristiano, l’amore che viene dallo stesso Dio attraverso lo Spirito Santo (Rm 5,5) per arrivare all’uomo. Questo è il vero amore, l’amore di Dio in noi, non un semplice sentimento, anche se coperto da generosità e da altruismo.

Paolo ci darà nei prossimi versetti la descrizione del vero amore cristiano.

5. INTERPRETAZIONE DI 1COR 13,4-7

Caratteristiche della carità

«Nella seconda parte dell’inno viene illustrata la capacità operativa della carità».23 Paolo nei versetti precedenti ha dato il primo insegnamento sull’avga,ph, mostrando il suo supremo valore su tutti i carismi e i nobili atteggiamenti degli uomini. Nella seconda strofa egli continua a parlare della carità e la descrive con i verbi più semplici della vita umana. Le caratteristiche dell’avga,ph sono una serie di atteggiamenti e azioni che costituiscono vere virtù, la cui somma è la realtà dell’amore cristiano.

L’apostolo descrive ora la vera carità, non in termini teologici o filosofici, ma operativi e pratici, usando una lista di verbi, 15 in totale, che indicano che, sul- l’amore, noi possiamo solo parlare in termini di azione e di donazione. Questi tre versetti non hanno alcun aggettivo o avverbio. «Si noti pure che dei 15 verbi uti- lizzati, tre hanno una forma positiva e semplice, otto una forma negativa, gli ulti- mi quattro esprimono positivamente una totalità di azione».24 Paolo descrive l’avga,ph come il summum bonum, non un carisma e non una virtù (avrhth,) in senso filosofico. Paolo personifica l’avga,ph come la Sapienza: i libri sapienziali personi- ficano la sofi,a come qualcosa di trascendente e immanente che viene da Dio e torna a Dio.

Le sezioni che accompagnano questo capitolo contengono sentenze con una struttura grammaticale complessa, ma quelle nella sezione centrale di Paolo sono brevi e sem- plici. Nell’encomio di Platone sull’amore (Eros piuttosto che Agape), i fatti di Eros sono similarmente collocati in serie di brevi sentenze con Eros come soggetto (Sym- posion 197 A-E). Le parole di Platone a lode dell’amore si caratterizzano per parago-

23 GRASSO, Prima lettera ai Corinzi, 148. 24 BARBAGLIO, La Prima lettera ai Corinzi, 486.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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ne e una serie di attributi. Dopo Platone, il topos letterario della lode dell’amore fu generalmente associato al Symposion.25

13,4: Qualità della carità (a) Critica testuale

Cominciando con la descrizione della carità cristiana, troviamo che la parola avga,ph si ripete tre volte, ma vecchi documenti (tra cui B e Vg) ne hanno solo due, e questa lezione sembra più probabile per l’eufonia della frase.

4: La carità è paziente, la carità è benigna, non è invidiosa, non si vanta,

non si gonfia, Commento

~H avga,ph makroqumei/ crhsteu,etai h` avga,ph ouv zhloi/( ouv perpereu,etai(

ouv fusiou/tai(

«Qui inizia il vero e proprio elogio dell’agape. Se ne presentano i segni di riconoscimento, di cui due in forma positiva, otto in forma negativa e cinque ancora positiva. Sullo sfondo, in filigrana, si intravedono gli atteggiamenti dei corinzi che Paolo disapprova».26

– La carità è paziente, h` avga,ph makroqumei/, «caritas patiens est».

La carità è longanime, longanimis in latino, paziente, sofferta, tollerante. La semplice pazienza ha un suo nome in greco: u`pomonh,, ma makroqumi,a possiede un senso più largo, e significa sopportare, soffrire, caricare i pesi degli altri e della vita. È l’opposto di ovrgh,, collera, ira, esasperazione, oltraggio. Agostino scriveva: «Solemus eam quam Graeci makroqumi,a vocant, longanimitatem interpretari».27 Questo vuol dire che la carità ha una grande capacità di sopportare, di soffrire senza lamenti o impazienze. Normalmente la traduzione è «paziente», ma il suo significato è più vasto.

La carità cristiana riceve le ingiurie, le offese e gli insulti senza ritornar- li, reprime la collera, l’irritazione, l’ira, l’animosità. In 1Ts 5,14 leggiamo: «Siate pazienti con tutti», come in Col 1,11: «Con ogni fortezza e pazienza».

Makroqumi,a è la trionfante perseveranza, dolcezza, autodominio, come una partecipazione della pazienza di Dio descritta nell’Antico Testamento che parla di Dio come «lento all’ira, ricco nell’amore» (Es 34,6). Makroqumi,a è molto vici-

25 COLLINS, First Letter to the Corinthians, 478. 26 R. FABRIS, Prima lettera ai Corinzi, Milano 1999, 177. 27 AGOSTINO, De quantitate animae 17,30: PL 32,105.

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no alla megaloyucia, , magnanimitas, magnanimità, all’essere magnanimo, alla gran- dezza di anima e di cuore.

– La carità è benigna, crhsteu,etai h` avga,ph, «benigna est».

Crhsteu,etai significa avere un atteggiamento gentile e benevolo. «È un hapax in tutta la Bibbia ed è ignorato nel greco profano. Essere benigno è la disposizione del cuore che si gode facendo del bene agli altri».28 Questo verbo dà un’idea di nobiltà, di eccellenza, di affabilità e di liberalità. Essere gentile signi- fica accogliere, servire, farsi utile agli altri.

Se makroqumei/ poteva avere un certo senso negativo, crhsteu,etai ha un senso totalmente positivo, di comunicazione e diffusione della bontà e della gen- tilezza.

Quanto Paolo dice con i verbi in questo capitolo, lo ripete in Gal 5,22 con i sostantivi: makroqumi,a e crhsto,thj.

«Dopo la prima descrizione dell’agape seguono otto espressioni negative che indicano gli atteggiamenti che sono incompatibili con la carità».29

– Non è invidiosa, ouv zhloi/, «non aemulatur».

Il verbo zhlo,w significa rivaleggiare, emulare, essere geloso, invidiare. La carità ignora l’invidia, la meschinità, la viltà. L’invidia è essenzialmente tristezza e amarezza. L’invidia suscita animosità, ira, tradimento e crudeltà. Il cuore del- l’invidioso è costantemente inquieto, pieno di sospetto. La gelosia divide, separa, arriva all’odio e alla morte. L’invidia non lascia spazio alla libertà interiore, sot- tomette alla schiavitù e alla condanna. Fu il peccato di Caino. Gesù fu condan- nato dall’invidia (Mt 27,18). Paolo aveva già avvertito i corinzi della loro «car- nalità» quando parla delle loro gelosie e rivalità (1Cor 3,3).

– Non si vanta, ouv perpereu,etai, «non agit perperam».

L’aggettivo perpero,j significa indiscreto, frivolo, fanfarone, millantatore, e il verbo perpereu,w è sinonimo di vantarsi, essere vanaglorioso, mettersi davanti, strombazzare. È un altro hapax nella Bibbia. Suppone la presunzione, l’arrogan- za, l’ostentazione, l’ambizione personale, la propria esaltazione, in contrasto con l’umiltà vissuta e predicata da Cristo Gesù che «spogliò se stesso assumendo la condizione di servo [...] e umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte» (Fil 2,7-8).

– Non si gonfia, ouv fusiou/tai, «non inflatur».

Il verbo fusio,w significa gonfiarsi, riempirsi di orgoglio. La carità non è orgogliosa, non ha una grande idea di sé, non si considera superiore agli altri. Questo fu il caso di Adamo ed Eva, che pensarono di rendersi uguali a Dio (Gen

28 FABRIS, Prima lettera ai Corinzi, 177. 29 SPICQ, Agapé II, 84.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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3,1-6), e del principe di Tiro (Ez 28), che esaltò se stesso al punto di considerar- si un dio. «Paolo ha usato diverse volte nella Lettera ai Corinzi il verbo fusio,w (4,6.18.19; 5,2; 8,1) e ora offre un antidoto contro di esso».30 In 5,2 lo troviamo in un contesto di gonfiarsi d’orgoglio, condannato dall’apostolo; in 8,1 Paolo mette in contrasto il verbo fusio,w con il verbo oivkodome,w, edificare, proprio in rappor- to con l’avga,ph.

13,5: Qualità della carità (b)

5: non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto,

ouvk avschmonei/( ouv zhtei/ ta. e`auth/j( ouv paroxu,netai( ouv logi,zetai to. kako,n(

– La carità non manca di rispetto, ouvk avschmonei/, «non est ambitiosa».

La carità non agisce indecorosamente, non si comporta in modo reprensi- bile. La carità evita tutto quanto possa offendere, urtare, ferire o scandalizzare gli altri. La carità non è rude, non si comporta aspramente, impropriamente, anzi evita qualsiasi severità, ruvidezza o durezza, fa attenzione e dimostra rispetto. «L’amore autentico esclude ogni azione vergognosa».31

– Non cerca il suo interesse, ouv zhtei/ ta. e`auth/j, «non quaerit quae sua sunt».

La carità non cerca vantaggi o interessi individuali, ignora l’egoismo. «L’a- micizia consiste, più che nell’essere amato, nell’amare».32 «Così come io mi sfor- zo di piacere a tutti in tutto, senza cercare l’utile mio ma quello di molti, perché giungano alla salvezza» (1Cor 10,33). «Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso» (Rm 15,3). Cristo insegnò con le sue azioni e le sue parole il servizio agli altri e la rinuncia a se stesso fra i fratelli.

– Non si adira, ouv paroxu,netai, «non irritatur».

Paroxune,w, nuovo hapax in Paolo, significa provocare, irritare, eccitare, inci- tare contro. Questa parola proviene dal verbo oxu,nw che vuol dire rendere acuto, appuntito, acido.33 Significa essere aggressivo, essere in preda a una rabbia irra- zionale che si esaspera ed esplode. La carità non si sente offesa né umiliata e non reagisce con collera o sdegno. «Colui che ama non soccombe a nessuna sorte di adirata autogiustificazione».34

30 J.A. FITZMYER, First Corinthians, Yale University, New Heaven-London 2008, 495. 31 FABRIS, Prima lettera ai Corinzi, 177. 32 ARISTOTELE, Eth. nicom. VIII, 8. 33 SPICQ, Agapé II, 86.

34 COLLINS, First Letter to the Corinthians, 481.

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J.M. VERNET MATEU – S. Paolo, maestro della carità

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– Non tiene conto del male ricevuto, ouv logi,zetai to. kako,n, «non cogitat malum».

La carità non pensa male: possiede un cuore buono e semplice. Non pensa al male degli altri: non giudica, non condanna, non ha dei pregiudizi e non tiene conto del male che riceve, così come Gesù perdonò i suoi crocifissori (Lc 22,34). «La carità non sospetta il male del prossimo allo stesso modo che essa non pensa di fare il male».35

13,6: Qualità della carità (c) 6: non gode dell’ingiustizia ouv cai,rei evpi. th/| avdiki,a|

ma si compiace della verità. sugcai,rei de. th/| avlhqei,a|.

– La carità non gode dell’ingiustizia, ouv cai,rei evpi. th/| avdiki,a|, «non gaudet super iniquitate».

Il v. 6 ha una struttura antitetica: si trovano in opposizione avdiki,a e avlh,qeia. La carità allontana ogni pensiero di vendetta e neppure pensa a un castigo o a una penitenza per il male dei suoi nemici. La carità non trova piacere nell’ingiu- stizia, nel fare il male. Questa dottrina è chiaramente insegnata nella parabola del buon samaritano (Lc 10,30-37) in cui la carità va al di là di ogni pregiudizio o barriera razziale e religiosa.

– Ma si compiace della verità, sugcai,rei de. th/| avlhqei,a|, «congaudet autem veritati».

La carità gioisce della gioia e del bene degli altri, del successo e del pro- gresso degli altri, la carità stima la verità negli altri, nelle loro azioni e intenzio- ni, se ne rallegra e ne condivide la gioia. Qui il senso di «verità» si intende come fedeltà. «L’amore trova la sua gioia nella fedeltà a Dio».36

13,7: Qualità della carità (d) 7: Tutto copre, tutto crede, pa,nta ste,gei( pa,nta pisteu,ei(

tutto spera, tutto sopporta. pa,nta evlpi,zei( pa,nta u`pome,neiÅ

Paolo aggiunge adesso quattro aspetti positivi con quattro verbi preceduti tutti dal plurale pa,nta, «tutte le cose, tutto», che stanno a indicare l’assolutezza di questa virtù. L’insegnamento di questa ultima parte (d) può essere riassunto come segue con i sostantivi: la carità è piena di bontà, di fiducia, di speranza e di pazienza.

35 SPICQ, Agapé II, 87. 36 COLLINS, First Letter to the Corinthians, 481.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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– La carità tutto copre, pa,nta ste,gei, «omnia suffert».

Il verbo greco ste,gw, dal vocabolo ste,gh, tetto e difesa, significa coprire, nascondere, occultare, dissimulare (uguale a kru,ptein o kalu,ptein). Significa anche portare, sopportare, soffrire, accettare in silenzio, tollerare. La carità copre tutto con il manto della bontà, non rivela il male, dissimula il male del prossimo, non drammatizza e soffre in silenzio le ingiustizie, i disprezzi e le umiliazioni.

– tutto crede, pa,nta pisteu,ei, «omnia credit».

La carità non perde la speranza. È incline a pensare bene, a interpretare bene, non ha alcun sospetto o pregiudizio. La carità è aperta e accetta quello che le viene detto, con prudenza e saggezza. Crede prima di essere sicura che gli altri lo meritino. Non è sinonimo, comunque, di essere credulo, ingenuo o «innocente».

– tutto spera, pa,nta evlpi,zei, «omnia sperat».

Della carità noi possiamo dire come in Rm 4,18: «Sperò contro ogni spe- ranza». La carità sa sperare, ha fiducia nelle riserve umane, nell’aiuto di Dio e nella sua grazia; non è puerile ottimismo. Paolo ricorda che, prima di essere apo- stolo, era stato persecutore. La carità sa che il bene trionfa sul male, che Cristo ha vinto il peccato e la morte. «Quando l’amore non ha evidenza, crede il meglio; quando l’evidenza è avversa, spera il meglio».37 La carità non cede davanti a situazioni disperate.

– tutto sopporta, pa,nta u`pome,nei, «omnia sustinet».

Dove la speranza è vana, l’amore non perde fiducia, non si lascia vincere dal male, dall’ingratitudine, dalla freddezza o dall’ingiustizia, dalle frustrazioni o dalla poca corrispondenza. La sua pazienza è illimitata. La carità possiede una duratura capacità di sopportare, di umiliare se stessa, di sostenere ogni genere di male (calunnie, diffamazioni, sdegni, disprezzi, arroganze, persecuzioni).

Queste tre nozioni: «tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» formano una progressione: quando la carità non ha evidenza del male, crede le cose più favo- revoli. Dove questa fede viene contraddetta dai fatti, spera il meglio. E perfino quando questa fiducia viene delusa, non si scoraggia. La carità non diventa mai amara o umiliata, sa come sopportare tutto con coraggio e nella fiducia in Dio.

Quest’ultimo aspetto considerato da s. Paolo richiama il primo nell’inizio della descrizione: «La carità è paziente» (13,4) e forma una certa «inclusio semi- tica», un insegnamento che finisce con una parola simile a quella con cui ha ini- ziato: u`pome,nei corrisponde a makroqumei/.

Paolo ha descritto in questa progressione una realtà spirituale delle tre virtù teologali: fede, speranza e carità, e, nel suo insegnamento, la carità include

37 «When love has no evidence, it believes the best, when evidence is adverse, it hopes the best» (A. PLUMMER, First Epistle of St. Paul to the Corinthians, Edinburgh 1950, 295).

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J.M. VERNET MATEU – S. Paolo, maestro della carità

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le altre due. Alla fine del capitolo 13, v. 13, l’apostolo affermerà che la carità è più grande della fede e della speranza.

Mai la carità è stata così innalzata come in queste parole di Paolo. Tutto il capitolo 13 della 1 Corinzi ne è come una spiegazione.

6. CONCLUSIONE

L’amore insegnato da Paolo in 1Cor 13,1-7 è l’amore cristiano o carità, l’in- segnamento di tutto il Nuovo Testamento. Paolo ha mostrato una profonda com- prensione dell’avga,ph o carità cristiana, descrivendola nelle due prime strofe del capitolo. Paolo stesso aveva afferrato il messaggio centrale di Cristo, aveva capi- to come nessuno il comandamento nuovo di Gesù (Gv 13,34-35), preceduto dalla lavanda dei piedi ai suoi discepoli (Gv 13,1-15).

«L’avga,ph di Dio si è riversata nei nostri cuori ed è ormai la realtà fonda- mentale della nostra esistenza».38 L’amore cristiano è una partecipazione o con- divisione dell’amore di Dio che è stato comunicato a noi per mezzo del suo Spi- rito (Rm 5,5). Noi conosciamo che Dio è amore (1Gv 4,8.16) e Paolo descrive la carità con le caratteristiche del cuore di Dio («lento all’ira, ricco nell’amore»), cosicché chi possiede l’amore possiede una particolare irradiazione di Dio stes- so, una speciale trasparenza di Cristo Gesù.

«Dietro questo inno si può cogliere un taglio cristologico: colui che ha vis- suto in maniera esemplare la carità è proprio Cristo Gesù».39 Difatti, sembra che Paolo, descrivendo così la carità, abbia descritto in realtà Cristo stesso nella sua fondamentale espressione di amore e di servizio, del Cristo che passò benefican- do (At 10,38), con un’estrema generosità e un’estrema donazione, senza aspetta- re né premio né ricompensa da parte degli uomini; il Gesù che amò i suoi sino alla fine (Gv 13,1) e mostrò il più grande amore dando la sua vita per i suoi amici (Gv 15,13). E se in una cosa Gesù stesso ha detto di imitarlo, è stato proprio nella bontà e umiltà di cuore: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29), parole estremamente vicine all’insegnamento paolino in questo suo inno della carità. La parola o`do,j è il punto aureo di unione che unisce Gesù e l’avga,ph: Gesù si definì come o`do,j (Gv 14,6) e l’avga,ph è l’o`do,j della vita cristiana.

L’inno di 1Cor 13 è un capolavoro sia nel senso letterario che nel senso teologico e spirituale. Paolo è un maestro dei contrasti, in incisività e in forza, e qui, dando alla carità il nome di o`do,j, ha brillantemente insegnato la più notevo- le delle caratteristiche del cristianesimo, l’amore, perché o`do,j significa lo stile di vita che una persona possiede e che la distingue dalle altre. Nel nuovo coman- damento agli apostoli, Gesù dice lo stesso, affermando che dall’amore fraterno,

38 E. STAUFFER, «avgapa,w avga,ph», in Grande lessico del Nuovo Testamento, Brescia 1965, I, 130. 39 GRASSO, Prima lettera ai Corinzi, 146.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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e solo da esso, tutti li riconosceranno come suoi discepoli (Gv 13,35). Nell’ultimo giudizio l’esame verterà anche sulla carità (Mt 25,31-46).

«L’amore è il dono celeste più grande di ogni altro carisma [...]. Come per Gesù, così anche per Paolo, l’avga,ph è l’unica energia vitale per cui nel mondo pre- sente l’uomo, soggetto al male e alla morte, può in qualche modo vivere la vita futura, immortale».40

Essendo dono dello Spirito Santo, l’amore dovrebbe essere per i cristiani qualcosa di spontaneo, di naturale, come il frutto di un’esistenza che viene dal- l’amore, cresce nell’amore e tende verso l’amore in questa vita e nell’eternità. La carità è lo stile di vita del cristiano, la sua condotta, il suo ideale, e la sua pratica lo distingue da quelli che non hanno fede.

In Rm 13,8.10 leggiamo: «Chi ama il suo prossimo ha adempiuto la legge [...]. L’amore è il compimento della legge». Paolo era certamente ispirato dalle parole di Gesù: «Questo è il più grande comandamento. E il secondo è simile a lui: amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti» (Mt 22,38-40).

Mostrando la via ed esortando a seguirla, l’apostolo si presenta come un maestro straordinario della carità, come lo è stato anche della fede.

Sì, Paolo, discepolo fedele di Cristo, che al pari dell’apostolo Giovanni è penetrato come nessuno nell’amore insondabile di Gesù, è stato anche realmen- te un insuperabile maestro dell’amore cristiano, l’avga,ph. Il capitolo 13 della 1 Corinzi ne è la prova.

40 STAUFFER, «avgapa,w», 136-137.

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Appropriazione letteraria e proprium paolino in 1Cor 15,33b

LEONARDO GIULIANO

Poiché il professore Cesare Marcheselli-Casale si è interessato della tema- tica della risurrezione nel NT e nella letteratura coeva, intendiamo soffermarci su una citazione, da molti considerata proverbiale, che ricorre in 1Cor 15,33b: fqei,rousin h;qh crhsta. o`mili,ai kakai,Å Lo studio partirà dall’analisi del passo cer- cando di capire se si tratta di una sentenza o di un proverbio, e di stabilire l’at- tribuzione e il suo significato. In un secondo momento, evidenzieremo come il detto o la massima si inserisca in 1Cor 15 «inaugurando» un senso nuovo e pro- babilmente inedito.

Qual è, dunque, il significato del detto nel contesto più prossimo di 1Cor 15? Che cosa significa per l’apostolo il sintagma o`mili,ai kakai,? Si tratta di sem- plici «conversazioni, discorsi» o di «compagnie, gruppi, associazioni»? E, soprat- tutto, qual è la connotazione degli h;qh crhsta.?

1. INTERTESTUALITÀ E ALLUSIVITÀ LETTERARIA

Diversi sono i contributi sulle citazioni o i paralleli letterari di autori extra- biblici nell’epistolario paolino che destano interesse, anche non molto frequenti1 e con esiti discutibili.2 Ora, per il passo di 1Cor 15,33b sembra che Paolo abbia ripreso una citazione proverbiale, che apparterrebbe, per la maggior parte degli

1 Oltre alla nostra citazione in 1Cor 15,33b, per il NT cf. ARATO, Phenomena 5 in Tt 1,12 e EPIMENI- DE, De Oraculis in At 17,28. Si veda V. WITTKOWSKY, «“Pagane” Zitate im Neuen Testament», in NT 51(2009), 107-126.

2 Cf. R.A. RAMSARAN, «Paul and Maxims», in J.P. SAMPLEY (ed.), Paul in the Greco-Roman World. A Handbook, Harrisburg-London-New York 2003, 429-456; C.A. EVANS, Ancient Texts for New Testament Stu- dies: A Guide to the Background Literature, Peabody, MA 2005; ID., «Paul and the Pagans», in S.E. PORTER (ed.), Paul: Jew, Greek, and Roman (PS 5), Leiden-Boston 2008, 117-139, con bibliografia. Da un’analisi dei riferimenti registrati da Evans, diversi casi non sembrano del tutto appropriati. Cf. R. PENNA, «Paolo di Tarso e le componenti ellenistiche del suo pensiero», in RivB 57(2009), 176 che commenta «le corrispondenze [...] un po’ stiracchiate».

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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autori (antichi e contemporanei), alla commedia Taide di Menandro, per altri invece a Euripide. Ma qual è la «natura» del detto?

1.1. Sententia o proverbium?

La sententia è, per Aristotele, una massima generale priva di forma metafo- rica, divenuta d’uso popolare, come «il troppo stroppia». Invece il proverbium è una massima in forma di comparazione accorciata, come «il lupo perde il pelo, ma non il vizio». Per Demetrio il proverbio è «l’unica forma di saggezza che dovrebbe trovare posto in una lettera», perché è ormai di patrimonio comune (koino,n) ed è popolare (dhmotiko,n).3 La sententia, invece, sebbene derivi talvolta «direttamente da frasi d’autore (letterarie) divenute celebri»,4 assume una tra- smissione limitata ad ambienti e a classi medio-alte rispetto al proverbium, desti- nato a una diffusione più ampia. La massima/sentenza si presenta, dunque, nei termini di un locus communis, una sorta di giudizio che si «innalza» a norma generale.5 Di solito chiude un discorso e, in questo caso, prende il nome di evpifw,nhma: «epifonema, detto aggiunto». Non mancano casi in cui, collocata all’i- nizio, assuma lo scopo di enunciare il tema da trattare. La sua funzione è per lo più di natura filosofica e pedagogica con una valenza retorica: si tratta di far risuonare in chi ascolta cose che già conosce, conferendo una sorta di approva- zione ai propri modi di pensare.6 In seguito, richiameremo i testimonia letterari dove ricorre il nostro «detto»: frammenti di Euripide (V sec. a.C.) e Menandro (IV-III sec. a.C.). Al momento, non possiamo definire la natura «popolare» oppure dotta della citazione, ma la presenza della stessa in testi letterari e il fatto che il suo impiego sia proprio di «uno che parla tramite un espediente (avpo.

3 DEMETRIO DEL FALERO, De elocutione § 232. La maggior parte dei paremiologi asserisce che i pro- verbi presentano tre caratteristiche da tutti condivise: brevità, un contenuto condiviso e «tradizionale»; una «funzione didascalica, etica, morale». Cf. E. LELLI (ed.), I proverbi greci. Le raccolte di Zenobio e Diogenia- no, Soveria Mannelli (CZ) 2006, 11.

4 LELLI, I proverbi, 13.

5 «Sententia est oratio sumpta de vita, quae ‹a›ut quid sit aut quid esse oporteat in vita, breviter ostendit» (PSEUDO-CICERONE, Rhetorica ad Herennium 4,17). Sotto l’aspetto formale, le sententiae presenta- no queste caratteristiche: 1) brevitas (la paratassi piuttosto che l’ipotassi con l’impiego di tempi al presente o all’aoristo); 2) presenza del lessico assiologico (buono o cattivo, difetti o qualità, male o bene). La tratta- zione aristotelica (generalizzazione e risvolto particolare/universale) è decisiva per individuare una senten- tia, a differenza dei criteri linguistici esposti, per i quali tuttavia «non si deve pensare che ciascuno di essi sarà presente in qualsiasi gnw,mh». Cf. G.W. MOST, «Euripide o GNWMOLOGIKWTATOS», in M.S. FUNGHI (ed.), Aspetti della letteratura gnomica nel mondo antico, Firenze 2003, I, 146.

6 MOST, «Euripide», 150-151. Cf. ARISTOTELE, Ars rhetorica 2,10-12,1395a. Le gnw/mai, di per sé, non hanno bisogno di essere motivate: non necessitano di un evpi,logoj, «proposizione esplicativa». Vi è, talvolta, il caso in cui alle sententiae seguono delle dimostrazioni: si tratta di massime contestate o contestabili (avmbisbetou,menon) oppure inaspettate (para,doxon). Cf. ARISTOTELE, Ars rhetorica 2,21,1394b; 1,15,1376a.

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L. GIULIANO – Appropriazione letteraria e proprium paolino

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mhcanh/j)»,7 ci porta a sostenere l’identità di una sententia/massima. Questa, infat- ti, si presenta generalizzata e universale: assenza di articoli determinativi, verbo alla terza persona plurale e polarità tra buono e cattivo.8

1.2. Attribuzione e topos letterario

Come si è accennato, il verso in questione è stato attribuito a Euripide e a Menandro. Socrate Scolastico (330 ca.-440 ca.) commenta: «Anche il Fqei,rousin h;qh crhsta. o`mili,ai kakai. dimostra che [Paolo] non ignorasse i drammi di Euri- pide».9 Questa sembra l’unica testimonianza esplicita in merito all’attribuzione euripidea della citazione. Non mancano, tuttavia, riferimenti meno diretti come quello di Clemente Alessandrino, per il quale Paolo si riferirebbe a un «verso giambico tragico» (ivambei,w| sugke,crhtai tragikw|/), senza specificarne ulterior- mente la paternità letteraria.10 Girolamo, invece, attribuisce il passo a Menandro: de Menandri comoedia versum sumpsit iambicum: Corrumpunt mores bonos col- loquia mala.11 Più problematica, invece, è la testimonianza di Fozio: e;ti de, evn th/| auvth|/ evpistolh/| *** ~fqei,rousin h;qh crhsta. o`mili,ai kakai.V.12 Riportiamo i testimo- nia letterari nei quali ricorre in forma invariata il detto.

7 Cf. DEMETRIO DEL FALERO, De elocutione § 232.

8 Rimandiamo a una collezione di Sententiae (GNWMAI MONOSTICOI) attribuite a MENANDRO, una cospicua fonte di conoscenza di questo «mondo» culturale, tra le quali ritroviamo la nostra citazione (Sen- tentia 808). Su quest’opera di Menandro si veda C. PERNIGOTTI, «Osservazioni sul rapporto tra tradizione gno- mologica e Menandri sententiae», in FUNGHI (ed.), Aspetti di letteratura gnomica nel mondo antico, II, 187-202; ID., Menandri sententiae (Studi e testi per il corpus dei papiri filosofici greci e latini 15), Firenze 2008.

9 SOCRATE SCOLASTICO, Historia ecclesiastica 3,16,81. Cf. G.C. HANSEN (ed.), Sokrates. Kirchengeschi- chte (Die griechischen christlichen Schriftsteller der ersten Jahrhunderte. Neue Folge 1), Berlin 1995, 212.

10 CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata 1,14,59; cf. Paedagogus 2,50,4. Si veda O. STÄHLIN (ed.), Clemens Alexandrinus. Zweiter Band: Stromata Buch I-VI (Die griechischen christlichen Schriftsteller der ersten Jahrhunderte 52), Berlin 1960, 38. Rimandiamo ad alcune delle testimonianze che non riportano il nome dell’autore ma che registrano semplicemente il detto: EUSEBIO, Praeparatio evangelica 6,6,42; CLEMENTE ROMANO, Homiliae 4,24,1; ATANASIO, De synodis 39,3,6; BASILIO, Quod deus non est auctor malorum 31,348,26; EPIFANIO, Panarion 1,318,9; GREGORIO DI NAZIANZO, Carmina 2,2viii,76; ANFILOCHIO DI ICONIO, Iambi ad Seleu- cum 76; CIRILLO DI ALESSANDRIA, Contra Iulianus 1,3; TERTULLIANO, Ad uxorem 1,8,4; ORIGENE, Homilia in Eze- chielem 8,1; GIROLAMO, Epistula 22,29 (corrumpunt mores bonos confabulationes pessimae); 130,18 (cor- rumpunt mores bonos confabulationes malae).

11 GIROLAMO, Commentariorum in Epistolam beati Pauli ad Titum. Liber unus: PL 26,572B.

12 FOZIO, ad Amphilochium (De locis scriptorum extraneorum in scriptura citatis) 151,20. Il testo è tratto da L.G. WESTERINK (ed.), Photii Patriarchae Constantinopolitani Epistulae et Amphilochia, 5: Amphi- lochiorum Pars Altera (BSGRT), Leipzig 1986, 194. Dopo il sostantivo evpistolh|/ il testo è lacunoso: manca- no 3 vv. nell’Athous Laurae D 73 del X secolo. Nei codd. Vaticanus gr. 1023 del XIII secolo derivato dal Pari- sinus gr. 1228 dell’XI secolo e nel Parisinus Coislinianus gr. 270 dell’XI secolo sono riportati i vv. carenti: Menan, drou tou/ kwmikou\/ gnwm, aj de. autv oj. anv afer, etai arv caiw, n tinwn/ Å mem, nhtai leg, wn out[ ojÅPur trattandosi forse di un’aggiunta successiva per rendere più chiaro il passo, riteniamo opportuno riportarla per un senso di completezza e perché confermerebbe che si tratta di una gnw,mh.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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Euripide13

Menandro14

Fr. 1024

e;peiÎt#a crh/sqai Î (92) o[soi dokou/soi ou) Î eivdw.j o`qou,nekaÎ fqei,rousin h;qh crh,sqV o`mili,ai kakai,

a;ggarojà o;leqroj) h`de,wj a;n moi dokw/ o[mwj peponqw.j tau/ta nu/n tau,thn e;cein) Fr. 217 evmoi. me.n ou=n a;eide toiau,thnà qea,à qrasei/anà w`rai,an de. kai. piqanh.n a[maà avdikou/sanà avpoklh|,ousanà aivtou/san pukna,à mhdeno.j evrw/sanà prospooume,nhn dV avei,)

Fr. 218 fqeir, ousin h;qh crh,sqV o`mili,ai kakai, Fr. 219 kata. muo,j o;leqron Fr. 220 ;Arhj tu,rannoj

Fr. 221 ptwco,teroj ki,gklou Fr. 222 me,tauloj

Fr. 1024 ... e in seguito usare

... quanti sembrano ... sapendo che poiché corrompono i buoni costumi le cattive compagnie

impotente, una peste. Riterrei piacevo- le per me ora subirla, pur avendo sof- ferto in passato. Fr. 217 per me, dunque, canta(la) così, o dea, insolita, graziosa e allo stesso tempo accattivante, oltraggiata, aven- do sbarrato la sua porta, spesso deside- rata, non invaghitasi di nessuno, sem- pre oggetto di contesa.

Fr. 218 corrompono i buoni costumi le cattive compagnie Fr. 219 come la morte del topo Fr. 220 Ares tiranno

Fr. 221 più povero di una strolaga Fr. 222 interno

13 R. KANNICHT (ed.), Tragicorum Graecorum fragmenta (TrGF). Euripides, Göttingen 2004, V, 990. Cf. anche C. COLLARD – M. CROPP (edd.), Euripides Fragments. Oedipus-Chrysippus. Other Fragments (LCL 506), Cambridge, MA – London 2008, 578. Gli editori annotano che il fr. 1024 trova conferma in un papiro del III secolo a.C. che appartiene alla collezione edita da B.P. GRENFELL – A.S. HUNT (edd.), The Hibeh Papy- ri, London 1906, I, 38-39. Così anche R. KASSEL – C. AUSTIN (edd.), Poetae comici graeci (PCG). 6/2: Menan- der. Testimonia et Fragmenta apud scriptores servata, Berlin 1983, IX, 125. GRENFELL – HUNT (edd.), The Hibeh Papyri, I, 39 ritengono che i vv. 91-93 «certainly suggest tragedy rather than comedy, and since another extract from Euripides occurs in this anthology, it is probable that he was the author of ll. 91-4. But fqei,rousin h;qh k)t)l) may, of course, have been found in Menander as well».

14 Il testo riportato è tratto da F.G. ALLINSON (ed.), Menander. The Principal Fragments (LCL), Lon- don-New York 1921, 356. I frr. 217 e 218 seguono il testo di T. KOCK (ed.), Comicorum atticorum fragmenta, Lipsiae 1888, III, 61-63. Allison aggiunge ai frr. in questione altri due versetti registrati da I. DEMIAŃCZUK (ed.), Supplementum comicum comoedia graecae fragmenta post editiones Kockianam et Kaibelianam reper-

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L. GIULIANO – Appropriazione letteraria e proprium paolino

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Data l’esiguità dei versetti, il testimonium euripideo non è di semplice interpretazione e ciò impedisce di poter stabilire il titolo dell’opera. Nonostante la difficoltà, il fr. 1024 trova diversi paralleli concettuali in altre opere euripidee.15 I frr. 217-222 di Menandro, invece, appartengono alla commedia Taide,16 come attestato da Ateneo: dram, ata apv o. et` airwn/ es; ce taj. epv igrafaj, [...] Menan, drou de. Qaij. .17 Il fr. 217, già conosciuto da Plutarco, rileva un parallelo con l’inizio dei poemi omerici: «Come Menandro nel prologo di Taide ha scritto».18

Per la duplice traditio letteraria non è semplice stabilire se il passo sia di fattura euripidea o menandrea. Tuttavia l’analisi del vocabolario19 e la «diffusio- ne» di paralleli concettuali favoriscono l’origine euripidea. Anche la dipendenza di Menandro dal tragediografo20 ci induce a sostenere che la sententia fosse già nota nel IV secolo a.C. e che il primo autore a renderla «letteraria» sia stato Euripide.21 Non si esclude che i singoli autori possano averla desunta da una tra- dizione precedente, forse popolare e, in seguito, divenuta dotta. Già Eschilo sosteneva che non vi fosse cosa peggiore che incappare in brutte compagnie (evn

ta vel indicata, collegit, disponuit, adnotationibus et indice verborum, Kraków 1912, 55. Quest’ultimo ci aiuta nella traduzione di a;ggaroj da intendersi con a;krathj. Il fr. 218, secondo Allison, appartiene a Euripide. Cf. anche KOCK, Comicorum atticorum fragmenta, III, 61: «Mutuatus est ut solebat versum Menander ab Euri- pide». Il fr. 218 corrisponde al fr. 165 di KASSEL – AUSTIN (edd.), Poetae comici graeci, VI/2, 124-125.

15 Andromache 683-684; Erechteus fr. 362,21; Aegeus fr. 7; Peliades fr. 609; Bellerophon fr. 296; Phoe- nix fr. 812,5-9. Se si esaminano i riferimenti, si riscontrerebbe l’uso del vocabolario e della polarità antino- mica (buono-cattivo).

16 Sulla storicità di Taide cf. DIODORO SICULO, Bibliotheca historica 17,72,2; ARRIANO, Anabasis Alexandri 3,18,11.

17 G. KAIBEL (ed.), Athenaei Naucratitae Dipnosophistarum libri XV (BSGRT), Lipsiae 1890, III, 250. In seguito cf. LUCIANO, Rhetorum praeceptor 12,9: Auvtoqai?da th.n kwmikh.n @...# mimhsa,menoj; MARZIALE, Epi- grammata 14,187: Mena,ndrou Qai<j. Haec primum iuvenum lascivos lusit amores; / Nec Glycera pueri, Thais amica fuit (D.R.S. BAILEY [ed.], M. Valerii Martialis Epigrammata [BSGRT], Leipzig 1990, 483); PROPERZIO, Elegiae 2,6,3: Turba Menandrae fuerat nec Thaidos olim tanta, in qua populus lusit Ericthonius (P. FEDELI [ed.], Sexti Properti Elegiarum libri IV [BSGRT], Leipzig 1984, 61); GIOVENALE, Satura 3,93-94; OVIDIO, Ars amatoria 3,603-604.

18 PLUTARCO, Moralia 19A,4. Eliano il sofista, poi, citando il celeberrimo proverbio sul topo, attesta che il fr. 219 appartiene alla commedia menandrea: «Di qui, vedi, il proverbio dice: “Come la morte di un topo” e Menandro ne fa menzione nella sua Taide» (ELIANO, De natura animalium 12,10). Cf. A.F. SCHOL- FIELD (ed.), Aelian. On the Characteristics of Animals (LCL 449), London-Cambridge, MA 1959, III, 24.

19 Il sostantivo om` ilia. ricorre solo 2x con il significato di coetus o consuetudo. Per gli altri lessemi: fqeir, ein (4x); hq; oj (6x); più diffusi i due aggettivi (crhsta. e kakai), . Cf. G. POMPELLA (ed.), Lexicon Menan- dreum (Lexika – Indizes – Konkordanzen zur Klassischen Philologie CXLII), Hildesheim-Zürich-New York 1996, 185; A.G. KATSOURIS (ed.), Menandri Concordantiae. A Concordance to Menander (Lexika – Indizes – Konkordanzen zur Klassischen Philologie CCXXXIX), Hildesheim-Zürich-New York 2004, 428. In Euripi- de, invece, om` ilia. (20x nel significato per lo più di «associazione, compagnia»); fqeir, ein (15x); hq; oj (16x). Cf. J.T. ALLEN – G. ITALIE, A Concordance to Euripides, Berkeley-Los Angeles-London 1954, 274-275; 459; 646.

20 Cf. QUINTILIANO, Institutio oratoria 10,1,69. Sulla dipendenza di Menandro da Euripide e dai tragi- ci cf. E. SEHRT, De Menandro Euripidis imitatore, Giessen 1912, 42-69, che elenca una serie di sententiae euri- pidee nell’opera di Menandro, prima tra queste, la massima del nostro studio. Cf. A.G. KATSOURIS, «Staging of palaiai. tragw|di,ai in relation to Menander’s Audience», in Dodone 3(1974), 175-204; T.B.L. WEBSTER, Stu- dies in Menander, 2 voll., Manchester 21960; ID., An Introduction to Menander, Manchester-New York 1974, 56-67.

21 Euripide è una delle fonti principali delle raccolte di gnw/mai, sebbene solo dopo la sua morte si assista al sorgere di una «tradizione gnomologica formalizzata». MOST, «Euripide», 142-143.

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panti. pra,gei dV e;sqV o`mili,aj kakh/j).22 Per Teognide23 e per Platone, gli uomini non sono cattivi dalla nascita, ma lo diventano in compagnia di uomini meschini (ovmili,aj de. tai/j tw/n a;llwn kakai/j kecrh/sqai).24 Filone d’Alessandria, riferendo- si a Mosè e alla contesa con i sofisti d’Egitto, li definisce «incantatori» a causa della loro capacità di ingannare sui buoni costumi (h;qh crhsta.) e distruggendoli (diafqei,retai).25 Anche per Seneca la frequentazione di un compagno malvagio (malignus comes) può contaminare un uomo semplice e puro.26 Infine per Plu- tarco i giovani rischiano di contagiarsi frequentando i barbari o gente dai cattivi costumi.27

2.ANALISI DI 1COR 15,33B

Nel suo significato originario il verbo fqei,rein28 è usato per esprimere «corruzione, rovina».29 Impiegato nella sua valenza morale, il significato è quel- lo di «corrompere, pervertire». Con i composti katafqei,rein e diafqei,rein30 «distruggere, corrompere», la LXX traduce in genere l’ebraico tx;v' «essere cor- rotto, rovinato» o «eliminare, mandare in rovina».31 Il sostantivo o`mili,ai, hapax legomenon nel NT, è reso con «compagnia, relazione, conversazione», con valo- re collettivo e, talvolta, tale rapporto è di natura sessuale.32 Più diffuso del

22 Septem contra Thebas 600-605. A.H. SOMMERSTEIN (ed.), Aeschylus. Persians, Seven Against The- bes, Suppliants, Prometheus Bound (LCL 145), Cambridge, MA – London 2008.

23 TEOGNIDE, Elegiae 1,305; cf. 1,31.35. Si veda D. YOUNG (ed.), Theognis. Ps.-Pytagoras. Ps.-Phocyli- des. Chares. Anonymi aulodia. Fragmentum teliambicum (BSGRT), Leipzig 1971.

24 PLATONE, Res publica 8,550b. Cf. Phaedrus 250a. Il tema torna nella Sententia 383 di Menandro: «Frequentando i malvagi diventerai tu stesso malvagio (Kakoi/j o`milw/n kauvto.j evkbh,sh| kako,j)» o, per inver- so, in un verso attribuito a Sofocle oppure a Euripide: «Saggi tiranni in compagnia di saggi (sofoi. tu,rannoi tw/n sofw/n sunousi,a|)».

25 FILONE D’ALESSANDRIA, Quod deterius potiori insidiari soleat 12,38,1.

26 SENECA, Ad Lucilium 1,7,7. Nel De ira 3,8,1-2 tornerà sul tema invitando a circondarsi di persone tranquille e affabili (placidissimo et facillimo), visto che si è soliti appropriarsi di mores che appartengono a coloro con cui si conversa (sumuntur a conversantibus mores).

27 PLUTARCO, De liberis educandis 6. La letteratura sapienziale dell’AT tramanda il proverbio: «Chi va (o` sumporeuo,menoj) con i saggi diventa saggio, ma chi va con gli insensati diventa cattivo» (Pr 13,20 LXX; cf. Sap 4,12).

28 1Cor 3,17.17; 15,33; 2Cor 7,2; 11,3; Ef 4,22; 2Pt 2,12; Gd 1,10; Ap 19,2.

29 Assunto nel contesto della filosofia antica, è usato per descrivere il deperimento di quegli ele- menti che non sono permanenti, per cui si deve ricercare nel divenire della natura quanto perisce. Cf. G. HARDER, «fqei,rw ktl.», in GLNT XIV, 1073.

30 Katafqei,rein ricorre 27x nella LXX e in 2Tm 3,8; diafqei,rein 51x nella LXX e in 2Cor 4,16 (o` e;xw h`mw/n a;nqrwpoj diafqei,retai); 1Tm 6,5 (diefqarme,nwn avnqrw,pwn); Lc 12,33; Ap 8,9; 11,18x2.

31 Gen 6,11; Es 10,15; Lv 19,27; Dt 34,7; 1Cr 20,1; Gb 15,32; Sap 16,27; Os 9,9; Is 24,3.4; 54,16; Ger 13,9; Ez 16,52; Dn 2,44; 7,14; 8,24x2; 9,26; 11,17; 4Mac 18,8. HARDER, «fqei,rw ktl.», 1078. In altri casi, la LXX preferisce avnomei/n «comportarsi illegalmente, essere corrotto o condannato». Anche in FILONE, Quod Deus sit immutabilis 73; Legum allegoriae 3,22,5; 3,243,4; De sacrificiis Abelis et Caini 122; FLAVIO GIUSEPPE, Anti- quitates judaicae 1,334; 4,252; 14,327; 15,123; 17,309; De bello iudaico 2,549; 6,182.193, il verbo con i compo- sti katafqei,rein e diafqei,rein, è tradotto con «uccidere, distruggere, rovinare, sedurre, corrompere».

32 Nel periodo romano e bizantino il sostantivo assumerà in prevalenza il senso di «conversazione, discorso», come in Erotiano (68 d.C.), Ignazio d’Antiochia e Taziano. Cf. E.A. SOPHOCLES, Greek Lexicon of the Roman and Byzantine Periods (from B.C. 146 to A.D. 1100), New York 1900, II, 804.

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sostantivo, nella LXX e nel NT (ma non in Paolo), è il verbo o`mile,w «riunirsi, essere in compagnia di, unirsi a», «frequentare» (cf. Pr 15,12; 23,31) o «rivolger- si, parlare». Il significato dominante è «conversare, essere in gruppo, discorrere» (cf. Dn 1,19; Pr 5,19; Lc 24,14-15; At 20,11; 24,26). Qui s’inizia a cogliere l’evolu- zione del lemma più in direzione locutiva che relazionale. Come per il sostanti- vo, anche il verbo assume, nel periodo ellenistico, il senso di «conversare, legge- re a un gruppo».33

L’aggettivo (kakai,) non è di grande aiuto, giacché può riferirsi sia alle «compagnie», sia alle «conversazioni»; e l’oggetto della presunta corruzione non sembra risolvere l’ambiguità del lemma. Nel nostro caso, le o`mili,ai kakai, sono in grado di corrompere «i buoni costumi» (h;qh crhsta.). Il sintagma è hapax lego- menon nel NT e nella LXX. Il sostantivo (h‐qoj), invece, ricorre solo nel nostro contesto per il NT e in ProlSir 1,35, Sir 20,26, 4Mac 2,2134. In epoca classica il lemma assume una pluralità semantica: «ambiente, domicilio», «abitudine, costu- me», «carattere» dell’anima o umano e «carattere morale», soprattutto nella let- teratura filosofica. In quest’ultimo contesto, il sostantivo esprime una valenza morale: costume/usanza che denota una persona, una realtà che è parte della propria vita e che la «caratterizza»; un «credo» che, fatto proprio, ha ricadute nel- l’agire. L’analisi del contesto della comunità di Corinto potrà aiutarci a stabilire se Paolo alluda a puri discorsi o se, invece, rimandi a vere e proprie forme di par- tecipazione/compagnia a gruppi cui parteciperebbero i credenti e dai quali si lascerebbero corrompere.

2.1. Contesto di 1Cor 15

Circa la struttura di 1Cor 15, ci riferiremo allo studio di G. Barbaglio, con eventuali precisazioni: 1) vv. 1-11; 2) vv. 12-19; 3) vv. 20-28; 4) vv. 29-32; 5) vv. 33- 34; 6) v. 35 (formula di apertura della seconda parte del capitolo); 7) vv. 36-41; 8) vv. 42-49; 9) vv. 50-57; 10) v. 58 (esortazione conclusiva del capitolo). I vv. 33-34 costituiscono la parte conclusiva della prima sezione di 1Cor 15, di carattere esortativo, formata dal sintagma mh. plana/sqe del v. 33a e dagli imperativi (aori- sto e presente) evknh,yate – mh. a`marta,nete del v. 34.35 Tutta l’argomentazione ruota intorno alla risurrezione di Cristo e dei credenti in lui.

33 BDAG 705.

34 G. SCARPAT, Quarto libro dei Maccabei. Testo, traduzione, introduzione e commento (Biblica. Testi e Studi 9), Brescia 2006, 146 rileva alcune ricorrenze del lemma nella filosofia antica e nello stoicismo. Il sin- tagma, tuttavia, torna solo nell’Aristeae epistola 290: «Un carattere buono (h‐qoj crhsto.n) e che abbia rice- vuto un’educazione è idoneo a comandare».

35 G. BARBAGLIO, La Prima lettera ai Corinzi. Introduzione, versione e commento (SOC 16), Bologna 1996, 782-794. Meno articolata è la struttura di J.A. FITZMYER, First Corinthians. A New Translation with Introduction and Commentary (AB 32), New Haven-London 2008, 540: 1) vv. 1-11; 2) vv. 12-34; 3) vv. 35-49; 4) vv. 50-58.

36 Cf. 1Cor 4,18; 8,7; 10,7-10; 2Cor 3,1; Gal 1,7; Fil 1,15. Per le divisioni nella comunità di Corinto cf. 1Cor 3,3; 11,17-22; 12,1-30; 2Cor 12,20.

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Al v. 12 Paolo richiama «alcuni36 (tinej)» che, in senso contrario, «dicono» (le,gousin) che «non vi è risurrezione dei morti». L’identità di questi ultimi non è specificata: non vi sono, infatti, ulteriori riferimenti che permettano di identifica- re i sedicenti «negatori» che però fanno parte della comunità (evn u`mi/n tinej). Più avanti (v. 34b), Paolo si riferirà ancora a questi ultimi, come a coloro che «non hanno conoscenza di Dio (avgnwsi,an ga.r qeou/ tinej e;cousin)».37 L’apostolo, tutta- via, non si rivolge a quanti negano la risurrezione, ma invita i credenti38 a resta- re saldi nel vangelo (evn w-| kai. e`sth,kate... v. 1), a tornare a essere sobri e a non peccare (evknh,yate dikai,wj kai. mh. a`marta,nete... v. 34). In una sorta di duplice refu- tatio, Paolo si sofferma sulle conseguenze di una tesi contraria alla risurrezione di Cristo e dei credenti (vv. 12-19.29-32): rifacendosi «alla posizione dei negato- ri, ammessa per ipotesi allo scopo di trarne ulteriori implicazioni che ne mostra- no la falsità».39

Non si tratta di dirimere una tesi (quella dei negatori) che non ha alcun impatto nell’esistenza dei credenti, ma di preservare questi ultimi da una «con- taminazione» di tipo morale. Da più parti si evince che la comunità di Corinto, nonostante attestazioni di una rilevante presenza di giudei, fosse per lo più for- mata da gentili e che attraversasse divisioni causate dal diverso status sociale ori- ginario: ceto medio e medio-alto e umili/poveri compresi gli schiavi; una mino- ranza di uomini sapienti e ricchi e una parte cospicua di gente con scarsa forma- zione culturale (cf. 1Cor 1,26).40 Sarebbe evidente sostenere che vi fossero frat- ture nella compagine ecclesiale e che vi siano stati membri contrari al vangelo dell’apostolo41 (cf. 1Cor 1,10.11-17). Tuttavia, sostenere la presenza di gruppi organizzati in movimenti ben configurati e che i credenti vi abbiano fatto parte anche solo sporadicamente, è fuorviante. Sembra verosimile, invece, che vi fos- sero alcuni che potevano corrompere e/o lasciarsi corrompere pronunciando e ascoltando discorsi in direzione contraria al vangelo paolino. Quando, poi, Paolo nel v. 32 cita il passo di Is 22,13 LXX (fa,gwmen kai. pi,wmen au;rion ga.r avpoqnh,|- skomen) – espressione simile si ritrova in Sap 2,1.6-8 – non pensa necessariamen-

37 Diverso il caso del pronome indefinito tine,j del v. 6, dove Paolo si riferisce a quanti hanno parte- cipato alle apparizioni del Risorto e sono morti (evkoimh,qhsan), e di tij del v. 35: Paolo introduce un interlo- cutore fittizio per «condurre» in avanti il discorso suscitando nei destinatari eventuali interrogativi. Cf. BAR- BAGLIO, La Prima lettera ai Corinzi, 790. Contro FITZMYER, First Corinthians, 587: «The “someone” might be one of the “some” of v. 12b».

38 J. DELOBEL, «The Corinthians’ (Un-)Belief in the Resurrection», in R. BIERINGER – V. KOPERSKI – B. LATAIRE (edd.), Resurrection in the New Testament (BETL 165), Leuven 2002, 346, per il quale Paolo prefe- risce rivolgersi a tutti i credenti di Corinto, «because the explicit opinion of “some” members either repre- sent or could become the common opinion».

39 BARBAGLIO, La Prima lettera ai Corinzi, 831.

40 BARBAGLIO, La Prima lettera ai Corinzi, 35 e 309. Sulla condizione economica dei cristiani di Corin- to e sulla loro posizione sociale si veda B. WITHERINGTON III, Conflict and Community in Corinth. A Social- Rhetorical Commentary on 1 and 2 Corinthians, Grand Rapids, MI 1995, 22-24.

41 Una comunità divisa «in “forti” e “deboli” (cc. 8–10), i primi orgogliosi della loro libertà interio- re di fronte agli idolotiti (“Tutto è permesso”: 10,23), i secondi vittime di scrupoli paralizzanti» (BARBAGLIO, La Prima lettera ai Corinzi, 309).

42 W.O. WALKER, «1 Corinthians 15:29-34 as a Non-Pauline Interpolation», in CBQ 69(2007), 100.

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te ai sofisti oppure agli epicurei, celebri per lo stile di vita «popolarmente cono- sciuto come immorale e licenzioso»42 e dai quali l’apostolo vorrebbe che i cre- denti si allontanassero.

2.2. Esegesi di 1Cor 15,33

La sententia di 1Cor 15,33b è introdotta dalla negativa mh. plana/sqe.43 Nella forma media e passiva, il verbo plana,w è tradotto con «essere fuorviato, essere indotto in errore, sbagliare». Nella LXX è impiegato con valenza religiosa: l’in- ganno e la seduzione dell’idolatria ad opera di falsi profeti (Dt 13,6; 2Re 21,9); la seduzione di falsi dèi (Os 8,6; Am 2,4). Per ben 19 volte nel NT il verbo ricor- re nella sua forma passiva e, quasi sempre, con la sua valenza «negativa» di inganno e seduzione. Nel suo significato letterale, vi è sottesa l’idea di un «fuori strada», una svista nel cammino che non ha più una meta certa dinanzi a sé. Tro- vando largo impiego nei contesti escatologici, la valenza negativa dell’inganno e della seduzione costituirà un motivo dominante, rapportato allo smarrimento nei pensieri e nella prassi.44

In 1Cor 6,9, Paolo mette in guardia (mh. plana/sqe) i credenti da quanti non erediteranno il regno di Dio: non si parla soltanto di «ingiusti» (a;dikoi), ma anche dei «vizi» che non permettono di perseverare nella salvezza. In questo contesto vi è una sorta di raccomandazione che nasconde una preoccupazione: l’inganno e l’illusione. Per alcuni l’apostolo farebbe suo un tema ricorrente nella filosofia stoica,45 mentre ci sembra più equilibrata l’osservazione di A. Pitta che intrave- de, nell’impiego del sintagma, un esempio «dello stile diatribico paolino».46 Indi- cativo è che ci si trova ancora una volta in uno scenario «escatologico», locus neotestamentario privilegiato dove ricorre il verbo plana,w, nonostante l’indica- zione riguardi l’oggi dei corinzi. Anche in Gal 6,7 il sintagma mh. plana/sqe s’inse- risce in una prospettiva che va oltre la contingenza: o] ga.r eva.n spei,rh| a;nqrwpoj( tou/to kai. qeri,sei. Qui, tuttavia, ci sembra più opportuno tradurre il sintagma con «non illudetevi», più che «non lasciatevi ingannare». I credenti della Galazia sono posti in guardia dalla tentazione di illudersi che sia possibile ingannare Dio (cf. Gal 6,7a). In tutti i passi interessati il sintagma precede un detto/sentenza di carattere popolare o introduce un’affermazione perentoria.

43 Il sintagma ricorre anche in 1Cor 6,9; Gal 6,7 e Gc 1,16. Per 3x, poi, il verbo è preceduto dall’im- perativo del verbo ble,pw: ble,pete mh, tij u`ma/j planh,sh| (Mt 24,4; Mc 13,5); ble,pete mh. planhqh/te (Lc 21,8). Nel NT il verbo plana,w è presente 39x. Ricorrente è il composto avpoplana,w «sviare, deviare, ingannare» (Mc 13,22; 1Tm 6,10); il sostantivo pla,nh «errore, vagabondaggio, inganno» (Mt 27,64; Rm 1,27; Ef 4,14; 1Ts 2,3; 2Ts 2,11; Gc 5,20; 2Pt 2,18; 3,17; 1Gv 4,6; Gd 1,11); pla,noj «impostore, imbroglione, ingannatore» (Mt 27,63; 2Cor 6,8; 1Tm 4,1; 2Gv 1,7x2).

44 Cf. Eb 3,10; 11,38; Gc 5,19; 1Pt 2,25; 2Pt 2,15; 1Gv 1,8; 2,26; Ap 2,20; 12,9; 13,14; 19,20; 20,3.8.10.

45 khru,ssw kai. le,gw «mh. plana/sqeà a;ndrej evmoi. kalw/j evstin» (EPITTETO, Dissertationes 4,6,23). Così BARBAGLIO, La Prima lettera ai Corinzi, 300; FITZMYER, First Corinthians, 255.

46 A. PITTA, Lettera ai Galati. Introduzione, versione e commento, Bologna 22009, 385. Il passo delle Dissertationes di Epitteto è l’unica presenza nella tradizione letteraria conosciuta e, pertanto, ci appare eccessivo ricorrere al pensiero stoico, fosse anche a una tipologia argomentativa.

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Pertanto in 1Cor 15,33b siamo in presenza di un’esortazione che, inserita in contesto escatologico, assume i toni di una raccomandazione perché i creden- ti non si lascino sviare dai discorsi contrari alla risurrezione: conversazioni/fre- quentazioni che possono corrompere il modus vivendi della comunità credente. L’espressione imperativa potrebbe significare che da parte dei credenti non vi è stata già «una corruzione» dei costumi, nonostante più avanti gli imperativi del v. 34 sembrino riferirci di una situazione avvenuta.47

3. PROPRIUM PAOLINO E FUNZIONE RETORICA

Una volta parte integrata nell’argomentazione paolina, la sententia euripi- dea segna il punto di arrivo della refutatio dei vv. 29-32. Paolo sigilla la sua «arrin- ga» con una massima che mette in guardia i destinatari dal rischio di lasciarsi cor- rompere da eventuali discorsi/frequentazioni con chi potrebbe esercitare la pro- pria influenza negativa. Per questo motivo l’apostolo, che si fa carico della cura dei singoli, soprattutto dei più fragili, richiama tutti a restare sobri e saldi senza peccare (cf. v. 34). La gnw,mh, collocata al centro dei vv. 33-34, assume valenza retorica: richiamare ciò che è noto, attribuendovi una sorta di consenso.48 Il caso particolare (alcuni «negatori» e la conseguente immoralità... cf. vv. 12.32), per- tanto, confluisce nella massima euripidea e acquista una valenza universale, dive- nendo convincente. Il suo spessore valoriale e autorevole, espresso da Paolo e non più da Euripide, trova un «terreno» favorevole e in piena sintonia con i gran- di autori del passato e impegna i credenti a cogliervi una sorta di «prova/testi- monianza» a sostegno della falsità dei presunti millantatori.

La presenza di «alcuni» e le loro conversazioni/frequentazioni non sono indifferenti. Ma chi sono? L’indeterminatezza della massima euripidea e l’im- precisata identità di questi famigerati «alcuni» (tinej) nel contesto di 1Cor 15 ci lascia perplessi e impedisce di configurarli chiaramente. C’è chi,49 credendo che Paolo si riferisca alla commedia Taide di Menandro, dove il sintagma è tradotto con «unioni sessuali», ritiene che le o`mili,ai kakai, siano da tradursi con «cattive compagnie» e che la corruzione rimanderebbe alle frequentazioni sessuali con le prostitute richiamate in 1Cor 6,12-20 e alla partecipazione ai banchetti cittadini o privati caratterizzati da promiscuità (1Cor 8,1–11,1). Ora, che la commedia tratti di una prostituta è da tutti condiviso, sebbene pervenuta in frammenti. Da questi, tuttavia, emergerebbe soltanto che Taide si sottraeva a relazioni stabili, o meglio, rifuggiva gli innamoramenti (mhdeno.j evrw/san), preferendo prestazioni mercenarie. In 1Cor 15 il contesto è diverso e siamo distanti da 1Cor 6,1–11,1 per affermare che questi «alcuni» siano gli stessi. In 1Cor 15,12, inoltre, questi tali

47 BARBAGLIO, La Prima lettera ai Corinzi, 836. 48 Si veda la nota 10. 49 Cf. B.W. WINTER, After Paul Left Corinth. The Influence of Secular Ethics and Social Change,

Grand Rapids, MI – Cambridge, UK 2001, 99-100.

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«dicono» (le,gousin) di non ammettere che vi sia «risurrezione dei morti»: il con- testo è quello di «discorsi» che non implicano la partecipazione a gruppi ben definiti. Paolo, dunque, desidera allontanare possibili conseguenze di tale dinie- go e non solo per i «deboli» nella fede, ma l’esortazione vale per tutti i credenti, sebbene spinte contrarie provengano dalla stessa comunità (evn u`mi/n).50

Pertanto, poiché l’origine di tale corruzione è nella comunità dei credenti, non si può tradurre le o`mili,ai kakai, con «cattive compagnie»: Paolo avrebbe, così, messo gli uni contro gli altri provocando, a nostro avviso, ulteriori divisioni in una Chiesa già divisa. La polivalenza semantica del sintagma potrebbe por- tarci in due direzioni: la compagnia che prevede la conversazione oppure la con- versazione che scaturisce dalla compagnia. Saremmo tentati di seguire i più e optare per la prima,51 ma preferiamo tradurre o`mili,ai kakai, con «cattive fre- quentazioni», accentuando l’aspetto del discorso/conversazione, data la natura «magica» del logos capace di sviare e corrompere gli h;qh crhsta. dei corinzi.

4. CONCLUSIONE

La presenza della sententia di Euripide in 1Cor 15,33b non significa che Paolo abbia letto le opere del tragediografo, e lo stesso dicasi per Menandro. Sembra, invece, che l’apostolo abbia preso «in prestito» un detto conosciuto al suo uditorio, con l’intenzione di richiamare e segnare «il passaggio dal senso nozionale a quello emozionale».52 Le sententiae, come il proverbio, hanno la capacità di incidere negli animi dell’uditorio e veicolano una carica persuasiva rendendo i discorsi etici. Gli ascoltatori, infatti, trovano piacere «se qualcuno, parlando in termini generali, s’imbatte nelle opinioni che essi già hanno in rela- zione a oggetti particolari».53

L’apostolo si pone sulla «lunghezza d’onda» del suo uditorio, mostrando familiarità con il contesto più prossimo, ma caricando il detto di un’inedita

50 Cf. Fil 3,18, dove Paolo esorta i credenti a prendere le distanze dai nemici della croce di Cristo, destinati alla «perdizione» (avpw,leia). Cf. A. PITTA, Lettera ai Filippesi. Nuova versione, introduzione e com- mento (I libri biblici. Nuovo Testamento 11), Milano 2010, 260. Più esplicita è l’esortazione in Rm 16,17-18: l’apostolo richiama la presenza di coloro che «non servono Cristo ma il proprio ventre» (cf. Fil 3,19) e che fomentano divisioni, scandali, seducendo (evxapatw/sin), con un «parlare accattivante e suadente» (crhsto- logi,aj kai. euvlogi,aj), soprattutto «i cuori dei semplici».

51 BARBAGLIO, La Prima lettera ai Corinzi, 837; FITZMYER, First Corinthians, 583.

52 G.B. CONTE – A. BARCHIESI, «Imitazione e arte allusiva. Modi e funzioni dell’intertestualità», in G. CAVALLO – P. FEDELI – A. GIARDINA (edd.), Lo spazio letterario di Roma antica, Roma 1989, I, 97. Le allu- sioni producono l’effetto desiderato soltanto se il lettore ricorda il testo cui rimandano. Cf. G. PASQUALI, «Arte allusiva», in ID., Pagine stravaganti di un filologo, 2: Terze pagine stravaganti. Stravaganze quarte e supreme, Firenze 1994, II, 275.

53 ARISTOTELE, Ars rhetorica 2,21,1395b.

54 La brevità e l’immediatezza di una sententia e/o di un proverbio potrebbero originare l’idea che l’autore voglia mettere fine alla discussione. Il loro tono perentorio, con il loro ritmo serrato e fermo, segne- rebbe la «morte» del dialogo senza alcuna possibilità di replica da parte dell’interlocutore. Cf. S. BRIOSI, «Sull’“effetto” della verità della forma breve», in G. FOLENA (ed.), La lingua scorciata: detto, motto, afori- sma. Atti del Convegno di Bressanone (1986), Padova 1987, 11-14.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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responsabilità: sovvertire una tesi estranea al suo vangelo. L’impiego di una sen- tentia potrebbe ingenerare l’idea che Paolo voglia «rifuggire» il dialogo o addi- rittura rifiutarlo.54 Al contrario, richiama una molteplicità di pensieri per l’even- tuale riflessione in camera caritatis dando la possibilità perché ciascuno possa scegliere e tornare sui propri passi. Pertanto intende salvaguardare i credenti dalle possibili conseguenze di una frequentazione/conversazione con alcuni della stessa comunità che, negando l’esistenza della risurrezione dei morti, potrebbe- ro determinare e diffondere uno stile di vita libertino (cf. 1Cor 15,32), dimenti- cando la prospettiva e la certezza escatologiche sulla retribuzione finale: il desti- no futuro è frutto di un presente caratterizzato da una condotta di vita conforme alla fede in Cristo.

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Ausgewählte frühchristliche Inschriften in und aus Ephesos

RENATE PILLINGER

An den Anfang sei die Inschrift des Demeas1 gestellt, die in zwei elegischen Disticha berichtet, dass er das Standbild der Artemis entfernt und durch ein Kreuz ersetzt hat. Wörtlich lautet sie (Abb. 1):

@Dai,m#onoj Art/Îe,midojÐkaqelw.n/avpath,lion ei=doj/ Dhme,aj avtreki,hj/a;nqeto sh/ma to,de/ eivdw,lwn evlath/ra/qeo.n stauro,n te/fere,rwn nikofo,/ron Crstou/ su,n/bolon avqa,naton

«Nachdem er der Göttin Artemis trügerische Gestalt heruntergenommen hatte, stellte Demeas dieses Zeichen der Zuverlässigkeit an dessen Stelle, dadurch dass er den Gott, der die Eidola (Götzenbilder) vertreibt, und das Kreuz das siegbringende unsterbliche Symbol Christi aufrichtete».

Von einem Sturz der Artemis durch fanatische Christen kann aber nicht die Rede sein, auch nicht bei der «schönen Artemis», wie M. Steskal2 an Hand der stratigraphischen Befunde klar gezeigt hat.

Interessant sind die Aussagen über das Kreuz: Als siegbringend wird es bezeichnet, nicht nur über die Götzenbilder, sondern alle Widerwärtigkeiten des Lebens und unsterbliches Symbol Christi – durch seine Auferstehung, die sich an alle Menschen richtet.

Auf die Verehrung der Erzengel weist eine Anrufung des heiligen Michael auf einer Terrakottaplatte mit Kreuz (Abb. 2).3 Auf seinem Querarm steht:

nika/| h` tu,ch th/j po,leoj K(uri,o)u kala. shmei/a, soi a=|r[on]

«Es siege die Tyche (das Geschick) der Stadt Des Herrn schöne Feldzeichen erhebe für dich»,

1 IvE 4(1980), 188f., Nr. 1351.

2 M. STESKAL, «Rituelle Bestattungen im Prytaneion von Ephesos? Zu den Fundumständen der Artemis Ephesia-Statuen», in ÖJh 77(2008), 363-373.

3 Unter Inv.-Nr. 3/48/72 heute im Kleinfunddepot des Ephesosmuseums in Selçuk. Näheres bei D. KNIBBE, «Tyche und das Kreuz Christi als antithetische Bezugspunkte menschlichen Lebens in einer früh- christlichen Inschrift aus Ephesos», in E. BRAUN (Red.), Festschrift für F. Eichler zum achtzigsten Geburts- tag dargebracht vom ÖAI (ÖJh Beiheft 1), Wien 1967, 96-102 und IvE 4(1980), 194, Nr. 1357.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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am senkrechten Arm:

a'[gi]/e '[Mi,]cah/l bo/h,qh/son Mar/gar/h,th// ke./ tou//ton/ to.n/ avgw/nan/ nik/a/|j/ ke. s/tef/ano/u,se/ e;nb/a( ni,/ka(/ pe./da,/rin(/ qeo./n e;c/ij me/tV evs/ou/

«Heiliger Michael, hilf Margarete und siege in diesem Kampf und bekränze sie. Steige ein, siege – Gott hast du mit dir».

Wahrscheinlich handelt es sich um eine Wandverkleidungsplatte in der Art derer von Vinica4 (Abb. 3) aus einem (Privat)Haus zwischen Prytaneion und Odeion.

Weitere Michaelserwähnungen gibt es u.a. auf einem Spielstein von der Südseite der Agora,5 einem Erlass,6 einem Brotstempel in der Antikensammlung des KHM in Wien unter Inv.-Nr. VI 3259,7 einem Kreuz in Genua,8 einer Inschrift aus der Marienkirche9 und einem Amulett aus der Johanneskirche heute im Kleinfunddepot des Ephesosmuseums in Selçuk.10

Zum Erzengel Gabriel siehe den in unserer Anm. 6 zitierten Erlass und eine Inschrift, die eine Kirche zu seinen Ehren (vielleicht eine Verkündigungs- kirche?) erwähnt.11 Sie teilt uns (Abb. 4) mit:

[VEge,]neto h` strws[ij] [th/j] platei,aj tau,thj [av]po. e]nqen e]wj tou/ euv kthri,ou oi;kou tou/ avr 5 cagge,lou Gabri-

h.l epi. VIwa,nnou kai. Leonti,ou tw/n logiwta,twn scolastikw/n

10 kai. pate,rwn

«Gemacht wurde der Belag dieser Straße von hier aus bis zum Haus des Erzengels Gabriel

unter Johannes und Leontios den redegewandtesten Schülern und (ihren) Vätern»

Auf einem Fresko in der Taberna III von Hanghaus 1 steht auf weißem Grund ein 85 cm hohes und ca. 37 cm breites rotes Kreuz mit je einem Vogel rechts und links und einer zweizeiligen Inschrift darüber.

4 Vgl. besonders K. BALABANOV – C. KRSTEVSKI, Die Tonikonen von Vinica. Frühchristliche Bilder aus Makedonien, München 1993, 61, Nr. 69 und Taf. 10.

5 IvE 4(1980), 187, Nr. 1347. 6 IvE 4(1980), 173, Nr. 1323. 7 Zuletzt bei R. NOLL, «Frühbyzantinische Bronzestempel mit Inschriften aus Ephesos», in M. KAND-

LER u.a. (Red.), Lebendige Altertumswissenschaft. Festgabe zur Vollendung des 70. Lebensjahres von H. Vet- ters dargebracht von Freunden, Schülern und Kollegen, Wien 1985, 320f. und Abb. 11.

8 IvE 4(1980), 193, Nr. 1356. 9 FiE 4(1932)1, 106, Nr. 45. 10 Bei G. LANGMANN, «Ein Zauberamulett aus Ephesos», in JbÖByz 22(1973), 281-284. 11 Sie trägt die Inv.-Nr. 4011. Genaueres bei D. KNIBBE – B. IPLIKÇIOGˇ LU, «Neue Inschriften aus Ephe-

sos VIII», in ÖJh 53(1981-82), 125, Nr. 124.

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R. PILLINGER – Ausgewählte frühchristliche Inschriften in und aus Ephesos

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Diese lautet: k(u,ri)e ev[kekr] axa proj [se

th/j fi)[ ]ede[12

Die erste Zeile entspricht dem Psalm 140,1: «Herr, zu dir habe ich gerufen (eile mir zu helfen)». Diese Ausstattung stammt wohl aus der Zeit, wo die Läden bereits aufgelassen und in sepulkraler Zweitverwendung waren.13

Dazu passt ein noch unveröffentlichtes Grab mit gemalten Kreuzen und Zitaten aus Ps. 90 in der Hafenenekropole.

Ebenfalls ein gemaltes Kreuz mit Inschrift fand man im sogenannten Freu- denhaus.14

Eine Stifterinschrift liefert uns die Statuenbasis der Scholastikia.15 Sie lau-

tet:

+ tu,pon gunaiko.j euvsesebou/j sofh/j Scolastiki,aj moi touto(n)

wv xe,ne ble,peij h` kai. kliqe,n toj evnqadi, tinos me,rouj cru

sou/ pare,sce plh/qoj evj kainou gi,an

«Das Bildwerk der sehr frommen und weisen Scholastikia siehst du mir, o Fremder, die auch, als hier ein Teil eingestürzt war,

eine Menge Geld hergab zur Erneue- rung (der den Hadrianstempel umgeben- den Therme)

Sowohl die Statue als auch die Basis sind zweitverwendet. Ob Scholastikia Christin war, ist fraglich.

12 Vgl. auch V.M. STROCKA (mit einem Beitrag von H. VETTERS), Die Wandmalerei der Hanghäuser in Ephesos (FiE 8/1), Wien 1976, 39-40 und Abb. 32.

13 Siehe hier auch Ю.А. Кулаковскій [Ju.A. Kulakovskij], Керченская христіанская катакомба 491 года [Eine christliche Katakombe in Kerč aus dem Jahr 491]. МАР [MAR] 6(1891), 1-31; dens., «Eine altchristliche Grabkammer in Kertsch aus dem Jahr 491», in RQS 8(1894), 49-87 und 319-327; R. PILLINGER, «Ein Bischofsgrab mit Psalmzitat in Stara Zagora (Bulgarien)?», in TYCHE 4(1989), 131-137; dies., «Grob- nitsa s psalmov tekst ot Stara. Zagora [Ein Grab mit Psalmtext von Stara Zagora]», КИМЮИБ [IMJUIB] 14(1991), 59-67; dies., «Ein frühchristliches Grab mit Psalmenzitaten in Mangalia/Kallatis (Rumänien)», in R. PILLINGER – A. PÜLZ – H. VETTERS (Hg.), Die Schwarzmeerküste in der Spätantike und im frühen Mittelal- ter (Bant 18), Wien 1992, 97-102; I. BARNEA, «Frühbyzantinische Inschriften aus der Dobrudscha», in RESEE 32(1994), 21-34 und ders., «Despre două inscripţii paleocreştine de la Callatis (Mangalia)», in Pontica 28- 29(1995-96), 183-186. Zum Totenkult in Ephesos insgesamt vgl. auch den Hirtenbrief des Hypatios auf unse- rer S. 319.

14 Näheres bei D. BOULASIKIS – H. TAEUBER, «Die Diakonie in der Insula MO1 von Ephesos», in MiChA 14(2008), bes. 65.

15 Zu ihr siehe V.M. STROCKA, «Zuviel Ehre für Scholastikia», in KANDLER u.a. (Red.), Lebendige Altertumswissenschaft, 229-232.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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Als Stifter des Viersäulenmonuments16 an einer Straßenkreuzung etwa in der Mitte der Arkadiane ist ein FRONTINOS17 überliefert, am Türsturz des Bap- tisteriums der Johanneskirche18 ein Erzbischof Johannes.

Liturgie spiegelt sich in einem Marmorfragment mit einem Teil des Trisha- gions (Sanctus), das am westlichen Ende der Arkadiane gefunden wurde (Abb. 5): a`gio]S ISCUROS AG[ioj avqa,natoj␣.19 Wahrscheinlich gehörte es einmal zu einem Templon (Ikonostase).

Zwei weitere Fragmente eines ebensolchen mit der Aufschrift avqa,]nato[j␣ senkrecht auf einer Leiste wurden am oberen Ende der Hafenstraße gefunden.20 Auch über die kirchliche Hierarchie erfahren wir aus den Inschriften, so z. B. von einem Anagnosten (Lektor) Demetrios in der Paulusgrotte,21 einem Dia- kon namens Melesios (Abb. 6) durch seine im Sieben Schläferzömeterium gefundene Grabinschrift,22 die übrigens von einer Somatotheke spricht und auch Kinder erwähnt, was bedeutet, dass er verheiratet war. Die Grabinschrift eines

Subdiakons namens Ripsilios23 fand man ebenfalls dort. Ein weiterer Diakon namens Demosthenes erscheint als Stifter in den

noch unveröffentlichten Widmungsinschriften der Polykandela der Ostgymnasi- umkirche.

Eine Diakonissin nennt die sekundär angebrachte Inschrift mit Stauro- gramm am Musensarkophag im Ephesosmuseum von Selçuk.24

Solche Sarkophage sind eher selten, da teuer. Meist handelt es sich um umgearbeitete heidnische Stücke, wie z.B. bei dem erst in fünfter (!) Verwendung mit christlichen Inschriften versehenen Exemplar des Baumeisters Erpidianos und seiner Frau Sophronia, heute vor dem Ephesosmuseum in Selçuk (Abb. 7).25 Seine Aufschrift lautet:

Aw AUTH H SOROS ERPIDIANOU OIKODOMOU

16 Genaueres bei W. WILBERG, «III der Viersäulenbau auf der Arkadianestraße», in FiE 1(1906), 132- 140 und F.A. BAUER, Stadt, Platz und Denkmal in der Spätantike. Untersuchungen zur Ausstattung des öffent- lichen Raums in den spätantiken Städten Rom, Konstantinopel und Ephesos, Mainz 1996, 271-275.

17 IvE 4(1980), 165f., Nr. 1306.

18 Vgl. D. KNIBBE – R. MERKELBACH, «Ephesische Bauinschriften 4. Die Johanneskirche», in ZPE 31(1978), 114.

19 Siehe IvE 4(1980), 195, Nr. 1359. Heute befindet es sich unter Inv.-Nr. 1092 im Inschriftendepot. Insgesamt vgl. hierzu E. KLUM-BÖHMER, Das Trishagion als Versöhnungsformel der Christenheit. Kontro- verstheologie im V. und VI. Jahrhundert, München 1979.

20 IvE 4(1980), 200, Nr. 1369. Sie tragen die Inv.-Nr. 1855. 21 IvE 4(1980), 158, Nr. 1285/18. 22 FiE 4(1937)2, 202, Nr. 8. Sie befindet sich heute unter Inv.-Nr. 2204 im Inschriftendepot. 23 FiE 4(1937)2, 202, Nr. 7. Ebenfalls heute im Inschriftendepot unter Inv.-Nr. 2120a, 2203b und

2119c.

24 Eine Abbildung findet sich bei C. TOPAL – A. ZÜLKADIROGˇ LU u.a., Ephesos Museum Selçuk, Istan- bul 2010, 93.

25 Siehe J. KEIL, «XV. Vorläufiger Bericht über die Ausgrabungen in Ephesos», in ÖJh 26(1930), Beibl. 12-18.

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R. PILLINGER – Ausgewählte frühchristliche Inschriften in und aus Ephesos

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Aw KAI GUNEKOS AUTOU SwFRONIAS

Heute in der Antikensammlung des KHM in Wien befindet sich26 ein Tür- sturz (Abb. 8) mit dem apokryphen Briefwechsel des König Abgaros V. Ukama («des Schwarzen», von Edessa, heute Urfar in der Türkei, mit Jesus:

+ AUGAROS OUKAMA TOPA[r]CHS IHSOU AGAQw ktl)

Gleichfalls in der Antikensammlung des KHM in Wien steht der Hirten- brief des Erzbischofs Hypatios27 aus der ersten Hälfte des 6. Jhs, der Anordnun- gen gibt über die würdige und kostenlose Bestattung der Toten durch die dafür bestimmten Gemeindemitglieder.

Gefunden wurde diese Inschrift im Narthex der Konzilskirche, die darin als «die große» und Zeile 18-20 als th/j panagi,aj evndo,xou kai. aveiparqe,nou Mari,aj («die der allerheiligsten Gottesgebärerin und ewigen Jungfrau Maria») bezeich- net wird.

Eine Anrufung der Theotokos finden wir auch auf einem ebenfalls aus der Marienkirche stammenden, heute im Hof des Ephesosmuseums in Selçuk aus- gestellten noch unveröffentlichten Schrankenpfeiler.

Erst seit Kurzem im KHM in Wien ausgestellt sind die Heilung des Para- lytischen und der Kanaaniterin (Abb. 9) aus der Krypta des sogenannten Lukas- grabes, die auch jeweils den paraphrasierten Bibeltext als Beischrift haben.28

Hinsichtlich der jüdischen Inschriften in Ephesos siehe die Abhandlung der Verfasserin.29

SOMMARIO

L’articolo vuole evidenziare, per mezzo di esempi prescelti, l’importanza culturale e umanistica delle iscrizioni cristiane di Efeso. Tra l’altro ci permetto- no, ad esempio attraverso l’iscrizione di Demea, di capire meglio il rapporto con

26 Unter Inv.-Nr. III 1072. Vgl. IvE 1(1979), 285-291, Nr. 46; R. HEBERDEY, «Vorläufiger Bericht über die Ausgrabungen in Ephesus IV», in ÖJh 3(1900), Beibl. 90-96 und R. NOLL, Die griechischen und lateini- schen Inschriften der Wiener Antikensammlung, Wien 21986, 30f., Nr. 59.

27 Unter Inv.-Nr. III 1092. Siehe zuletzt NOLL, Die griechischen, 31, Nr. 60.

28 Näheres bei A. PÜLZ, «Zur malerischen Ausstattung der byzantinischen Unterkirche des soge- nannten Lukasgrabes in Ephesos», in B. BRANDT – V. GASSNER – S. LADSTÄTTER (Hgg.), Synergia. Festschrift für F. Krinzinger, Wien 2005, 263-270 und dems., Das sog. Lukasgrab in Ephesos. Eine Fallstudie zur Adap- tion antiker Monumente in byzantinischer Zeit mit Beiträgen von G. Forstenpointner u. a. (FiE 4/4), Wien 2010, 104-115 und Taf. 56,2 bzw. 57.

29 R. PILLINGER, «Jüdische Alltagskultur in Ephesos und Umgebung im Spiegel der Denkmäler», in R. DEINES – K.-W. NIEBUHR – J. HERZER (Hgg.), Neues Testament und hellenistisch-jüdische Alltagskultur. Wechselseitige Wahrnehmungen. 3. Internationales Symposium zum corpus Judeo-Hellenisticum Novi Testamenti in Leipzig 21-24. Mai 2009 (i. Dr.), LEIPZIG (WUNT 274). Tübingen 2011, 85-98.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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l’ambiente non-cristiano, nonché la gerarchia e la liturgia del comune cristiano nella sua fase di crescita. In essa si parla sia del Trisagion, della venerazione degli arcangeli, di un anagnost (lettore), diaconi (tra cui un diacono femminile) e vescovi.

Si parla brevemente anche di iscrizioni dei donatori. Inoltre le iscrizioni riportano persino decisioni dogmatiche come il conferimento del titolo Theo- tokos a Maria. Nella cripta della cosiddetta tomba di Luca si trovano parafrasi di testi biblici. In certi casi le iscrizioni si riferiscono anche a fonti apocrife, come le lettere tra re Abgaros V. Ukama e Gesù.

ABKÜRZUNGSVERZEICHNIS

Bant FiE

КИМЮИБ [IMJUIB]

IvE

KHM

JbÖByz MAP [MAR]

MiChA

MVK

ÖJh

ÖTM

RESEE RQS

WUNT ZPE

Schriften der Balkan-Kommission der Österreichischen Akademie der Wissenschaften, antiquarische Abteilung Forschungen in Ephesos И звеести я Ha муз ите от ЮгоизточHa Бѣлгариа [Mitteilungen der Museen von Südostbulgarien]

Die Inschriften von Ephesos

Kunsthistorisches Museum, Wien

Jahrbuch der Österreichischen Byzantinistik

Mатериалъı по археологии России

[Materialien zur Archäologie Russlands]

Mitteilungen zur Christlichen Archäologie

Museum für Völkerkunde

Jahreshefte des Österreichischen Archäologischen Insti- tutes in Wien Österreichisches Theatermuseum Revue de études sud-est européennes

Römische Quartalschrift für christliche Altertumskunde und Kirchengeschichte Wissenschaftliche Untersuchungen zum Neuen Testa- ment

Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik

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Quale ecclesiologia e quale teologia politica nella Lettera ai Filippesi?

ANTONIO PITTA

Nella sua vasta produzione esegetica, l’amico e collega Cesare Marchesel- li-Casale ha approfondito più volte i contenuti della Lettera ai Filippesi, soffer- mandosi soprattutto sull’elogium o inno cristologico di Fil 2,6-11.1 In questa sede intendiamo approfondire il rapporto tra il linguaggio politico che contraddistin- gue la lettera (cf. Fil 1,27; 3,20) e l’ecclesiologia paolina. In verità anche in altre sue lettere Paolo affronta questioni relative ai rapporti tra le sue comunità, spar- se nelle principali città dell’impero, e le autorità amministrative (cf. Rm 13,1-7)2 o giudiziarie (cf. 1Cor 6,1-11), ma soltanto in Filippesi utilizza il vocabolario pro- priamente politico: il verbo politeu,esqai si trova soltanto due volte nel NT: in Fil 1,27 e in At 23,1; e il sostantivo poli,teuma (Fil 3,20) risulta hapax legomenon neo- testamentario e presenta una ricca gamma di significati: «cittadinanza, associa- zione, collegio, stato civico e colonia».3 Dunque la tematica merita di essere approfondita poiché nella stessa lettera compare per la prima volta nel NT l’at- tributo swth,r, conferito al Signore Gesù Cristo (Fil 3,20), che in seguito assumerà i tratti di un vero e proprio titolo cristologico.4 Ci soffermeremo sull’ambiente politico-religioso di Filippi, sulla cosiddetta «teologia politica» che emerge dalla lettera e sui criteri comportamentali che Paolo propone ai destinatari. In pratica sarà vero che, con la sua strategia politica, Paolo orienta le sue comunità verso scelte eversive o antistatali?5

1 C. MARCHESELLI-CASALE, «La celebrazione di Gesù Cristo Signore in Fil 2,6-11», in Ephemerides Carmeliticae 29(1978), 3-42; ID., «Cristo Gesù Signore Servo di IAHVE o giusto abbassato-esaltato? (Con- siderazioni esegetiche su Fil 2,6-11 e Is 52,13–53,13)», in Asprenas 25(1978), 361-379.

2 Sulla teologia politica paolina a partire da Rm 13,1-7 cf. A. PITTA, «Rm 13,1-7: per un’etica politi- ca cristiana», in A. RODRIGUEZ LUÑO – E. COLOM (edd.), Teologia ed etica politica, PUC, Città del Vaticano 2005, 11-29; R. PENNA, «La dimensione politica dell’ethos cristiano secondo Rm 13,1-7», in Paolo e la Chie- sa di Roma (bcr 67), Paideia, Brescia 2009, 146-177.

3 Gli altri termini del vocabolario politico sono rari nell’epistolario paolino e presentano una scar- sa incidenza politica: cf. po,lij in 2Cor 11,26.32; Rm 16,23; Col 4,13; Tt 1,5; politei,an in Ef 2,12. Circa la rile- vanza politica di Filippesi cf. P. PERKINS, «Philippians. Theology for the Heavenly Politeuma», in J.M. BASSLER (ed.), Pauline Theology, 1: Thessalonians, Philippians, Galatians, Philemon, Fortress Press, Minneapolis 1994, 89-104; e nello stesso volume cf. S.K. STOWERS, «Friends and Enemies in the Politics of Heaven: Rea- ding Theology in Philippians», 105-122.

4 Ef 5,23; Lc 2,11; 2Pt 1,1.11; 2,20; 3,2.

5 Cf. R.A. HORSLEY, Paul and Empire: Religion and Power in Roman Imperial Society, Trinity Press International, Harrisburg, PA 1997; J. TAUBES, La teologia politica di s. Paolo, Adelphi, Milano 1997, 42.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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1.ASSOCIAZIONI CULTUALI E AUTORITÀ POLITICHE

La Lettera ai Filippesi, scritta probabilmente a cavallo tra la fine degli anni 50 e gli inizi degli anni 60 d.C., da Roma, è inviata a una evkklhsi,a (cf. Fil 4,15) di piccole dimensioni e caratterizzata dalla natura domestica o familiare.6 Il sostan- tivo evkklhsi,a, mutuato dall’AT, soprattutto mediante le formule evkklhsi,a kuri,ou (Dt 23,2; Mi 2,5) e evkklhsi,a qeou/ (Ne 13,1),7 non designa un edificio visibile in uno spazio urbano circoscritto, bensì un’assemblea di persone radunata per fina- lità politiche, giuridiche e religiose.8 Con una buona dose di anacronismo si è ritenuto che mentre nell’AT e nella letteratura giudaico-ellenistica il termine evkklhsi,a caratterizzasse una funzione religiosa, in quella pagana assumesse trat- ti politici,9 ignorando che i confini tra ambito religioso e politico fossero quanto mai labili se non inconsistenti.10 D’altro canto già Tucidide utilizzava il sostanti- vo evkklhsi,a con accezione politica e religiosa: «Poi, quando arrivò il giorno, fece- ro rinchiudere l’assemblea (th.n evkklhsi,an) a Colono (è un recinto sacro a Posei- done fuori della città)» (Storie 67,2,2). Per le lettere paoline ci riferiamo a un periodo del principato romano e propriamente neroniano (dalla fine del 54 al 68 d.C.) che permette di cogliere una conformazione ibrida delle prime comunità cristiane.11 La domus ecclesia può assumere i tratti di una sinagoga, quando si svi- luppa dove sono presenti comunità giudaiche della diaspora, come a Roma, di una scuola filosofica come a Corinto, e di un’associazione cultuale, come a Filip- pi e a Tessalonica. Anche di fronte a questa conformazione ibrida si è caduti in una omologazione impropria che ha visto sostenitori per una delle ipotesi pro- poste. In realtà è fondamentale cercare di distinguere l’ambiente socio-religioso di una città dall’altra, poiché in dipendenza di esso, si sviluppano le prime comu- nità cristiane.

6 Sulle questioni introduttive di Filippesi, relative alla datazione, alla prigionia di Paolo e all’inte- grità letteraria cf. A. PITTA, Lettera ai Filippesi. Nuova versione, introduzione e commento (ILB NT 11), Mila- no 2010.

7 Per l’epistolario paolino cf. th.n evkklhsi,an tou/ qeou/ in 1Cor 1,2; 10,32; 15,9; 2Cor 1,1; Gal 1,13. Sulle diverse accezioni e connotazioni dell’ecclesiologia antico e neotestamentaria cf. G. CALABRESE – P. GOYRET – O.F. PIAZZA (edd.), Dizionario di ecclesiologia, Città nuova, Roma 2010 con le rispettive voci «Ecclesiologia delle lettere pastorali» (C. MARCHESELLI-CASALE, 499-515), «Ecclesiologia paolina» (A. PITTA, 542-548) «Ecclesiologia primitiva» (E. SALVATORE, 569-579), «Ecclesiologia sinottica» (C. MARUCCI, 586-594), «Eccle- siologia veterotestamentaria» (F. SERAFINI, 594-601).

8 Fra le monografie più recenti sull’ecclesiologia paolina cf. J.-N. ALETTI, Essai sur l’écclesiologie des letters de saint-Paul (ÉB NS 60), Gabalda, Pendé 2009 che, in pratica, si sofferma sulle lettere autoriali e su quelle della prima tradizione paolina di Colossesi-Efesini.

9 G. BARBAGLIO, Gesù di Nazaret e Paolo di Tarso. Confronto storico, EDB, Bologna 2006, 214.

10 Sulla valenza interculturale del termine evkklhsi,a nelle lettere paoline cf. J.S. KLOPPENBORG, «Edwin Hatch, Churches and Collegia», in B.H. MCLEAN (ed.), Origins and Method. Toward a New Understanding of Judaism and Christianity (JSNT.SS 86), Academic Press, Sheffield 1993, 212-238; A. DU TOIT, «Paulus oecumenicus: Interculturality in the Shaping of Paul’s Theology», in NTS 55(2009), 121-143.

11 Nonostante gli sviluppi successivi, sulle conformazioni delle comunità paoline della diaspora resta attuale il fondamentale contributo di W.A. MEEKS, The First Urban Christians. The Social World of the Apo- stle Paul, Yale University, New Haven-London 1983. Circa le riserve e gli approfondimenti successivi cf. i contributi raccolti in T.D. STILL – D.G. HORRELL (edd.), After the First Urban Christians. The Social Study of Pauline Christianity Twenty-Five Years Later, T & T Clark, London-New York 2009.

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Nel caso specifico è necessario precisare che nel I secolo d.C. la Colonia Iulia Augusta Philippensis è una delle poche cittadine romanizzate, in modo sostanziale, in Macedonia, a causa dell’invio di veterani e soldati romani. Dal versante urbanistico Filippi non è paragonabile a Corinto, né tanto meno a Efeso, è bensì una cittadina di circa 10.000-15.000 abitanti, se nel computo sono compresi i villaggi circostanti. E mentre a Corinto e a Roma sono sorte diverse comunità giudaiche della diaspora, su Filippi non si hanno riscontri circa la pre- senza giudaica prima del 70 dell’era cristiana.12 Su un migliaio di iscrizioni rin- venute a Filippi e nel territorio circostante emergono tracce su diversi culti loca- li (di origine greca e tracia) o importati, come il culto di Iside di origine egiziana, delle religioni misteriche e imperiale,13 ma non giudaica. I dati archeologici con- fermano la narrazione degli Atti degli apostoli, dove l’unica persona rapportata al giudaismo è Lidia, definita come sebome,nh to.n qeo,n (At 16,14) o timorata di Dio e proveniente da Tiatira in Asia Minore.14 Le diverse associazioni cultuali volontarie autoctone o importate sono tollerate nella dimensione in cui sono garantite dall’autorità civile e non entrano in collisione con il culto romano del- l’imperator.15 Nella metà del I secolo il culto incentrato sulla divinizzazione imperiale riguardava Cesare, Augusto, Livia, Drusilla e Claudio, anche se que- st’ultimo è avversato dal successore Nerone e dalla sua corte,16 per essere rein- tegrato sotto Vespasiano. A causa della romanizzazione della cittadina, partico- lare rilevanza ha il cursus honorum civile, cui potevano accedere soltanto quan- ti avevano diritto di cittadinanza (soprattutto senatori ed equestri), ma che era negato agli schiavi e ai liberti, anche se questi potevano essere ingaggiati per incombenze municipali.17

Il breve retroterra delineato è di primaria importanza per la Lettera ai Filippesi non soltanto rispetto al vocabolario politico segnalato, ma anche al cur- sus honorum e al culto imperiale. I contrasti tra la divinizzazione dell’imperato-

12 Sul contesto sociale, politico e religioso di Filippi cf. L. BORMANN, Philippi: Stadt und Christenge- meinde zur Zeit des Paulus (NTSup 78), Brill, Leiden 1995; P. OAKES, Philippians. From People to Letter (SNTS MS 110), University Press, Cambridge 2001, 1-54; P. PILHOFER, Philippi, 1: Die erste christliche Gemeinde Europas (WUNT 87), Mohr Siebeck, Tübingen 1995; C.S. DE VOS, Church and Community Con- flicts: The Relationships of the Thessalonian, Corinthian, and Philippian Churches with Their Wider Civic Communities (SBL.DS 168), Scholars Press, Atlanta, GA 1999, 233-287; R.S. ASCOUGH, Paul’s Macedonian Association: The Social Context of Philippians and 1 Thessalonians (WUNT 2.161), Mohr Siebeck, Tübin- gen 2003.

13 Il catalogo delle iscrizioni provenienti da Filippi e dal territorio circostante è stato raccolto dal fondamentalecontributodiP.PILHOFER,Philippi,2:KatalogderInschriftenvonPhilippi(WUNT119),Mohr Siebeck, Tübingen 2000.

14 Probabilmente la menzione di Lidia, che si riscontra soltanto negli Atti e non nell’epistolario pao- lino, si deve alla strategia lucana che tende a rapportare comunque la prima evangelizzazione cristiana alle diverse forme di relazione con il giudaismo della diaspora.

15 Sul culto imperiale nel periodo del principato romano cf. I. GRADEL, Emperor Worship and Roman Religion, Clarendon Press, Oxford 2002.

16 Nell’ambiente di corte imperiale circola dagli inizi del 55-56 d.C. l’Apokolokyntosis forse di Sene- ca, che denigra, in modo violento, l’apoteosi o la divinizzazione di Claudio con l’apozuccosi o l’apoteosi della zucca.

17 J.H. HELLERMAN, Reconstructing Honor in Roman Philippi. Carmen Christi as Cursus Pudorum (SNTS MS 132), University Press, Cambridge, UK 2005.

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re e la carriera pubblica e il cursus pudorum o del disonore, intrapreso volonta- riamente da Cristo Gesù, nel famoso elogium di Fil 2,6-11 (cf. ouvc a`rpagmo.n h`gh,sato to. ei=nai i;sa qew/ di Fil 2,6) e da Paolo nella sezione autobiografica di Fil 3,4-11 (cf. avlla. menou/nge kai. h`gou/mai pa,nta zhmi,an di Fil 3,8) si spiegano bene nel contesto civile-religioso di Filippi.18 Alcuni studiosi hanno cercato di motivare nello stesso background la prima menzione degli evpisko,poij kai. diako,noij (Fil 1,1b) che si riscontra nel NT, equiparandoli ai responsabili delle associazioni cul- tuali minori della cittadina.19 In realtà non ci sono pervenute iscrizioni, né tanto meno attestazioni letterarie, che permettano di sostenere l’omologazione tra i «sorveglianti e i ministri» della comunità cristiana e i funzionari civili, per cui permangono alcuni tratti d’ombra sulla conformazione della prima comunità cri- stiana insediata in Europa.20

2. LA CHIESA E LA CITTADINA DI FILIPPI

Se dalla cittadina della Macedonia non ci sono pervenute attestazioni sulla presenza di una comunità giudaica, prima del 70 d.C., le mordaci invettive di Fil 3,2 («Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi dalla circon- cisione») assumono i tratti di una strategia preventiva pronunciata contro altri predicatori cristiani, di origine giudaica, che hanno contrastato la predicazione di Paolo, come di fatto si è verificato in Galazia (cf. Gal 1,6-10; 3,1-4; 5,2-12).21 Per inverso se prescindiamo dagli accenni di Fil 3,2-4, nell’ordito della lettera risalta il contrasto tra i cristiani di Filippi e gli altri cittadini:

Soltanto comportatevi da cittadini in modo degno del vangelo di Cristo [...] e senza lasciarvi spaventare in nulla dagli avversari, che è per loro dimostrazione di perdizio- ne, per voi invece di salvezza; e questo viene da Dio, perché a voi è stata data la gra- zia non soltanto di credere in Cristo, ma anche di soffrire per lui (Fil 1,27-29).

Il conflitto con l’ambiente civile-religioso torna in Fil 2,14-16a: «Fate tutto senza mormorazioni e controversie, affinché siate irreprensibili e integerrimi, figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione distorta e perversa, in cui

18 J.H. HELLERMAN, «The Humiliation of Christ in the Social World of Roman Philippi. Part 2», in Bibliotheca sacra 160(2003), 421-433.

19 Così P. PILHOFER, Philippi, I, 146-147, che assimila l’episkopos al procurator di alcune iscrizioni. L’analogia ci sembra forzata per la funzione vicaria affidata al procurator e non all’episkopos in Fil 1,1 e perché, negli anni 50 d.C., non abbiamo testimonianze di convertiti al cristianesimo provenienti dalle classi sociali più elevate di Filippi.

20 Circa gli sviluppi dell’episkopos in Fil 1,1 e nella tradizione paolina successiva cf. R. PENNA, «La funzione ecclesiale dell’episkopos nel Nuovo Testamento (lettere pastorali)», in Paolo e la Chiesa di Roma, 240-251.

21 M. NANOS, «Paul’s Reversal of Jews Calling Gentile “Dogs” (Philippians 3:2): 1600 Years of an Ideological Tale Wagging an Exegetical Dogs?», in BibInt 17(2009), 475-481, per contrastare l’interpreta- zione antigiudaica di Fil 3,2 propone l’ipotesi che si tratti di avversari di origine gentile. In realtà riteniamo che non si tratti di giudei, né di gentili, bensì di cristiani di origine giudaica. Per gli approfondimenti cf. A. PITTA, Paolo, la Scrittura e la Legge (SB 57), EDB, Bologna 2008, 72-78.

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risplendete come stelle nel cosmo, tenendo ferma la parola di vita...». Per affron- tare le avversità economiche ed etiche in cui versano i destinatari, Paolo li esor- ta a consolidare l’unità ecclesiale (cf. Fil 2,1-4) e ad attestare una gioia condivisa per la crescita dell’evangelo. L’ultimo accenno agli avversari si ripresenta in Fil 3,18-19, dove Paolo li definisce come nemici della croce di Cristo: «Molti infatti si comportano, come spesso vi ho detto, ora però dico anche piangendo, da nemi- ci della croce di Cristo; la loro fine (è) la perdizione, giacché il loro dio (è) il ven- tre e la gloria nella vergogna, essi che pensano alle cose terrene». Per esortare i filippesi a seguire il suo esempio (Fil 3,17) e di quanti, come Timoteo ed Epafro- dito, non curano i propri interessi, ma hanno rischiato la vita sino a rasentare la morte (cf. Fil 2,19-30),22 Paolo indugia nuovamente su coloro che hanno per «dio il loro ventre», cadendo in forme d’idolatria.

I tre paragrafi menzionati orientano verso l’identità gentile e civile degli avversari in Filippesi: forse si tratta di cittadini che ostacolano le piccole comu- nità domestiche, sorte in seguito all’evangelizzazione di Paolo, per la loro assur- da e originale fede nella croce di Cristo, vista come servile supplicium e pena capitale del disonore totale.23 Per questo probabilmente si deve alla mano di Paolo l’aggiunta dell’espressione qana,tou de. staurou/, inserita al momento culmi- nante dell’itinerario kenotico di Cristo (Fil 2,8c) nell’elogium di origine prepao- lina.24 Pertanto la fede nel Messia crocifisso rende nemici (evcqrou,j in Fil 3,18) gli amici di un tempo e crea un conflitto insanabile tra la minoranza cristiana, equi- parata a un’associazione cultuale illecita, e la maggioranza civile-religiosa di Filippi.

3. UN PROCLAMA ANTIPOLITICO?

Come abbiamo accennato nell’introduzione, le asserzioni polemiche di Filippesi hanno indotto alcuni studiosi a sostenere che la visione politica di Paolo sia di tipo eversivo o anti-imperiale.25 Non c’è dubbio che se la cittadinanza cui appartengono i credenti non è soltanto escatologica, ma è attuale (Fil 3,20: h`mw/n ga.r to. poli,teuma evn ouvranoi/j u`pa,rcei), se i loro nomi sono scritti nel libro della

22 Per la centralità della mimesi umana in Filippesi cf. A. PITTA, «Mimesi delle differenze nella Let- tera ai Filippesi», in RivB 57(2009), 347-370.

23 HELLERMAN, «The Humiliation of Christ in the Social World of Roman Philippi. Part 2», 428.

24 Si deve a E. LOHMEYER, Kyrios Jesus. Eine Untersuchung zu Phil 2,5-11, Wissenschaftliche Buch- gesellschaft, Darmstadt 1961 [Heidelberg 1928], 51-96 il merito di aver aperto la ricerca verso l’origine pre- paolina di Fil 2,6-11. In seguito cf. J. HERIBAN, Retto fronei/n e ke,nwsij. Studio esegetico su Fil 2,1-5.6-11 (BSR 51), LAS, Roma 1983, 72; R.P. MARTIN, Carmen Christi. Philippians ii.5-11 in Recent Interpretation and in the Setting of Early Christian Worship (SNTS MS 4), University Press, Cambridge, UK 1967, 42-62; R. PENNA, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria, 2: Gli sviluppi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1999, 122; E. TESTA, «Un inno prepaolino della catechesi primitiva (Fil 2,6-11)», in SBFLA 47(1997), 97-116; T.H. TOBIN, «The World of Thought in the Philippians Hymn (Philippians 2:6-11)», in J. FOTOPOULOS (ed.), The New Testament and Early Christian Literature in Greco-Roman Context. Studies in Honor of David E. Aune (NTSup 122), Brill, Leiden-Boston 2006, 91.

25 HORSLEY, Paul and Empire.

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vita e non nel registro municipale della città (Fil 4,3: w-n ta. ovno,mata evn bi,blw| zwh/j) e se si trovano a operare in una «generazione distorta e perversa» (cf. Fil 2,15), il linguaggio con cui Paolo stigmatizza gli avversari di Filippi è tutt’altro che diplomatico. Se il ku,rioj (cf. nuovamente nell’inno prepaolino di Fil 2,9-11) e il swth,r adorato dai credenti non sono Asclepio/Esculapio, né l’imperator, da cui dipende l’incolumità fisica e morale dei cittadini, bensì Cristo Gesù, inevita- bile è il contrasto con il culto imperale romano della cittadina.

Tuttavia non è fortuito che tali conflitti siano declinati con un comporta- mento integerrimo e irreprensibile, per cui la fede nel Messia crocifisso non implica un comportamento antistatale che assuma i tratti dell’anarchismo.26 Così Paolo raccomanda ai filippesi nella parte conclusiva della lettera:

La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini, il Signore è vicino. Non preoccupatevi di nulla, ma in tutto con preghiera, supplica e con ringraziamenti le vostre richieste siano fatte conoscere presso Dio. E la pace di Dio che eccede ogni intelligenza custo- dirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù. Per il resto, fratelli, quanto è vero, quanto degno, quanto giusto, quanto onesto, quanto amabile, quanto onorevole, se c’è qualche virtù, se c’è qualche lode, questo considerate (Fil 4,5-8).27

Nonostante le avversità economiche e morali, i credenti in Cristo sono esortati ad assumere i valori più positivi dell’etica condivisa nella città, altrimen- ti rischiano di proporre un’etica alternativa che, presentandosi come tale, li dele- gittima dal loro impegno civile sino a minacciare la loro sopravvivenza. Di fatto la piccola comunità cristiana di Filippi non è relegata in un ghetto, ma continua a operare, tenendo alta la «parola di vita» (cf. Fil 2,16) nel contesto persecutorio civile e religioso di Filippi. Ed è in questo paradosso tra attestazione contro i nemici della croce di Cristo e affabilità nota a tutti gli uomini che si decide la loro sopravvivenza e la loro testimonianza per il vangelo di Cristo (cf. Fil 1,27). Qual è dunque il criterio decisivo che permette di testimoniare il vangelo senza dimenticare quanto di virtuoso e lodevole si trova nella città terrena cui, comun- que, si appartiene?

4. LA RICERCA PER QUANTO FA LA DIFFERENZA

Le tre macrounità letterarie che si susseguono in Filippesi (cf. Fil 1,12-30; 2,1–3,1a; 3,1b–4,1) sono scandite dall’unica realtà che conta, sino a diventare cri- terio unificante per discernere quanto crea la differenza (cf. Fil 1,10: eivj to. doki- ma,zein u`ma/j ta. diafe,ronta), senza cedere a forme di disimpegno civile o politico.28

26 Analoghe critiche all’ipotesi di HORSLEY, Paul and Empire, sono state avanzate da E. ADAMS, «First-Century Model for Paul’s Churches: Selected Scholarly Developments since Meeks», in STILL – HOR- RELL (edd.), After the First Urban Christians, 74-76.

27 M. BOCKMUEHL, Jewish Law in Gentile Churches. Halakah and the Beginning of Christian Public Ethics, T & T Clark, Edinburgh 2000, 139 evidenzia bene il paradosso fra le antitesi precedenti di Fil 1,27- 30; 2,15.21; 3,2-14.18-21 e Fil 4,8, in cui sono assunti i valori più naturali della polis.

28 Per approfondimenti cf. PITTA, «Mimesi delle differenze», 360-368.

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Nella sezione di Fil 1,12-30 l’unica realtà che conta per Paolo è segnalata in Fil 1,18b: «Che importa? Purché in ogni modo sia annunciato Cristo, sia con finzio- ne sia con verità; e in questo gioisco». A prima vista la priorità dell’annuncio di Cristo, a prescindere dalle intenzioni umane, potrebbe evocare una strategia camaleontica o machiavellica, per cui il fine giustificherebbe i mezzi. In realtà, la proposizione intende evidenziare che l’annuncio di Cristo, con la parola e con la vita, sino a comportare uno stato di carcerazione, relativizza le intenzioni umane e punta l’attenzione sul progresso dell’evangelo (cf. Fil 1,12). Dunque non è il fine a giustificare i mezzi, leciti o illeciti, bensì il fine relativizza i mezzi e le situa- zioni favorevoli e avverse, sino a diventare l’unica ragione del proprio vivere (cf. Fil 1,20). Di conseguenza quando il fine è sottovalutato o relativizzato dai mezzi, Cristo non è più annunciato e non si verifica il progresso del vangelo fra i cre- denti (cf. Fil 1,25) e coloro che assistono alla loro testimonianza nel pretorio (cf. Fil 1,13) o in qualsiasi contesto civile o forense.

Se l’affermazione di Fil 1,18 è posta a confronto con quelle mordaci con- tro gli altri predicatori del vangelo (cf. 2Cor 11,1-5), si comprende come Paolo ha dovuto imparare, con il tempo, a non conferire eccessiva importanza alle inten- zioni umane, ma a essere iniziato a tutto perché soltanto Cristo è colui che lo rafforza (cf. Fil 4,12-13). Tuttavia quando gli avversari pongono in discussione la predicazione di Cristo crocifisso, come unico criterio soteriologico, come in Galazia (cf. Gal 1,6-10; 3,1-5; 5,2-12), anche in Fil 3,2-3 Paolo non esita a denun- ciare strategie di compromesso propagandate da coloro che qe,lousin euvpro- swph/sai evn sarki,( ou-toi avnagka,zousin u`ma/j perite,mnesqai( mo,non i[na tw/| staurw/| tou/ Cristou/ mh. diw,kwntai (Gal 6,12).

L’unica realtà o, in definitiva, la sola persona che conta è ripresa all’inizio della seconda sezione di Filippesi (Fil 2,1–4,1a):

Se dunque (c’è) incoraggiamento in Cristo, se conforto dell’amore, se comunione dello Spirito, se viscere di misericordia, completate la mia gioia, affinché valutiate allo stesso modo, avendo lo stesso amore, unanimi, valutando l’unica cosa, nulla per riva- lità, né per vanagloria, ma stimandovi vicendevolmente con umiltà superiori a se stes- si (Fil 2,1-3).

L’esortazione per l’unica realtà (il to. e]n) è rapportata al verbo fronou/ntej in Fil 2,2, che è difficile da tradurre, ma che svolge un ruolo centrale nella Lette- ra ai Filippesi.29 Per la sua definizione è importante segnalare quanto precisa Cicerone nel De officiis 1,43 a proposito della fro,nhsij: «... i greci chiamano fro,nhsij e che io definirei la conoscenza di ciò che si deve cercare o fuggire». Così il to. e]n fronou/ntej che Paolo addita per i filippesi non è semplicemente que- stione di sentimenti o di pensiero, bensì di valutare con discernimento ciò che si deve perseguire e quanto, al contrario, bisogna evitare. Risaltano così le virtù del- l’amore vicendevole (Fil 2,2), dell’umiltà (Fil 2,3) e dell’obbedienza (Fil 2,12) che riscontrano in Cristo l’esemplarità inimitabile (Fil 2,6-8), ma per questo causale

29 Cf. l’uso di fronei/n in Fil 1,7; 2,2.5; 3,15.15.19; 4,2.10.10.

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o sorgiva. A una visione ecclesiale in cui si tende a considerarsi superiori agli altri (il cursus honorum richiamato sopra), curando i propri interessi, se ne oppone una che nell’umiltà di Cristo (il cursus podorum) riscontra la ragione ultima del proprio modo di rapportarsi ai fratelli e alle sorelle della stessa comunità. Per- tanto in questione non è la volontà, né il sentimento, bensì il modo di valutare e di pensare con discernimento quanto più conta e crea la differenza rispetto alla propria carriera politica o ecclesiale.

Anche l’ultima sezione della lettera (Fil 3,1b–4,1) è scandita dall’unico cri- terio: «Fratelli io non ritengo rispetto a me stesso di aver conquistato; una cosa però (conta): da una parte dimenticando ciò che sta dietro e dall’altra proten- dendomi verso ciò che sta davanti, corro verso la mèta, per il premio della chia- mata superiore di Dio in Cristo Gesù» (Fil 3,13-14). Ci troviamo nel contesto della metafora sportivo-agonistica (Fil 3,13–4,1) che Paolo mutua dall’ambiente atletico delle città imperiali,30 ma che non è stata approfondita per la sua rile- vanza politica. Al riguardo è illuminante quanto Dione di Prusa o Crisostomo (verso la fine del I secolo d.C.) scrive nell’Orazione VIII o Sulla virtù 59-91:31

Un tale gli domandò [a Diogene di Sinope] se anche egli fosse venuto per osservare la gara (to.n avgw/na). «No, ma come partecipante (avgwniou,menoj)». Quello si mise a ride- re e gli chiese quali fossero i suoi antagonisti (tou.j antagwnista,j). Egli guardandolo bieco, come era solito, disse: «I più difficili e veramente invincibili e ai quali nessuno dei greci può guardare in faccia. Non sono però avversari che corrono (diatre,contaj), lottano, saltano, combattono con il pugilato, lanciano il giavellotto e il disco, ma quel- li che rendono sapienti (tou.j swfroni,zontaj)». «E quali sono?», domandò. «Sono le fatiche, rispose, le più pesanti e insuperabili dagli uomini ben sazi di cibi e gonfiati che passano tutte le loro giornate a mangiare e le loro notti a russare, ma che sono vinte da uomini sottili e magri, i cui ventri son più sottili di quelli delle vespe. O tu credi che questi grossi ventri (koili,aj) servano a qualcosa [...]. Infatti io credo che costoro abbiano meno anima dei maiali. Invece l’uomo nobile ritiene (h`gei/tai) che i suoi mag- giori antagonisti siano le fatiche e con questi desidera battersi (ma,cesqai) notte e gior- no, non per ottenere un ramo di sedano, come le capre, né un ramo di olivo silvestre o di pino per ottenere la felicità e la virtù per tutta la vita e non solo quando fanno la proclamazione [dei vincitori] gli Elei, i Corinzi o l’assemblea dei Tessali. Egli non teme alcuna delle fatiche, né si augura che tocchino a un altro, ma tutte di seguito le sfida, lottando con fame e freddo, e assoggettandosi alla sete [...]. Fame ma anche esilio, disonore, e cose simili non le considera terribili per lui, ma affatto leggere e spesso l’uomo perfetto (to.n te,leion) gioca con queste cose, come i fanciulli con gli astragali e con le palle colorate».

30 V.C. PFITZNER, Paul and the Agon Motif: Traditional Athletic Imagery in the Pauline Literature (NTSup 16), Brill, Leiden 1967; U. POPLUTZ, Athlet des Evangeliums. Eine motivgeschichtliche Studie zur Wettkampfmetaphorik bei Paulus (HBS 43), Herder, Freiburg i.B. 2004; M. BRÄNDL, Der Agon bei Paulus. Herkunft und Profil paulinischer Agonmetaphorik (WUNT 2.222), Mohr Siebeck, Tübingen 2006.

31 DIONE DI PRUSA, The Eight Discourse: Diogenes or on Virtue, in J.W. COHOON (ed.), Dio Chrysostom (LCL 257), Harvard University Press – Heinemann, Cambridge, MA – London 1971, I, 382; DIONE CRISO- STOMO, Sulla virtù (or. 8), trad. di M.C. CIOLLARO, D’Auria, Napoli 1983.

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A. PITTA – Ecclesiologia e teologia politica nella Lettera ai Filippesi

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Diverse sono le connessioni tra la sezione di Fil 3,13–4,1 e l’VIII Orazione di Dione di Prusa: significativi sono gli accenni allo stadio, al criterio di valuta- zione e al piacere del ventre contro cui si scagliano Paolo e Dione. Tuttavia è soprattutto il genere della periautologia o del vanto di sé, cui sono costretti Paolo e Dione, che accomuna il discorso sulla virtù e la pericope paolina, anche se in contesti e momenti diversi.32 Se sostituiamo il rapporto con la virtù filosofica, evidenziato da Dione di Prusa con la relazione tra Paolo e Cristo, emerge lo stes- so sistema argomentativo, con la differenza fondamentale che il criterio del discernimento per l’unica realtà che conta è per Paolo la croce di Cristo, da cui scaturisce la previa conquista compiuta dal Risorto per lui (cf. Fil 3,12) e la sua conformazione quotidiana alla sua morte in vista della futura partecipazione alla risurrezione dai morti (cf. Fil 3,10-11).

5. CONCLUSIONE

I tre orizzonti che abbiamo rilevato sul criterio di quanto crea la differen- za impongono un’importante correzione rispetto alla tipologia dell’adiaphoralo- gia o dell’indifferenza, diffusa nella filosofia ellenistica del I secolo d.C., e assun- ta da Paolo.33 Nel suo caso si dovrebbe parlare non di adiaphoralogia, bensì di diaphoralogia, poiché è quanto o chi crea la differenza che relativizza il resto sia in senso negativo, sia positivo.34 Non a caso è soltanto colui che lo rafforza (Cri- sto), che gli permette di affrontare le situazioni faste e nefaste dell’esistenza (cf. Fil 4,12-13), diventando ancora una volta esempio per i filippesi nell’ideale del- l’autarchia o dell’autosufficienza. L’impatto sulla teologia politica di Paolo è notevole: la croce di Cristo, quale criterio ultimo per qualsiasi situazione politi- ca, impone ai credenti di discernere il rapporto tra il relativo e l’assoluto; e quan- to ciò che è relativo rischia di offuscare l’assoluto crea uno spartiacque inevita- bile tra amici e nemici nello stesso ambiente politico-religioso, pena l’estinzione di una minoranza religiosa come quella della comunità cristiana di Filippi.

In definitiva la situazione politico-religiosa della comunità cristiana di Filippi non è molto diversa da quella che, agli inizi del II secolo, Plinio il Giova- ne cercherà di contrastare in Bitinia, scrivendo all’imperatore Traiano:

32 A. PITTA, «Paolo e il giudaismo farisaico», in Il paradosso della croce. Saggi di teologia paolina, Piemme, Casale Monferrato 1998, 56-58. In seguito cf. F. BIANCHINI, L’elogio di sé in Cristo. L’utilizzo della periautologia nel contesto di Fil 3,1–4,1 (AnB 164), PIB, Roma 2006; S. BITTASI, Gli esempi necessari per discernere. Il significato argomentativo della struttura della Lettera di Paolo ai Filippesi (AnB 153), PIB, Roma 2003; A. PITTA, «Il “discorso del pazzo” o periautologia immoderata? Analisi retorico-letteraria di 2Cor 11,1–12,18», in Bib 87(2006), 493-510.

33 Cf. W. DEMING, «Paul and Indifferent Things», in J.P. SAMPLEY (ed.), Paul in the Greco-Roman World. A Handbook, Trinity Press International, Harrisburg-London-New York 2003, 384-403; T. ENGBERG-PEDERSEN, «Stoicism in Philippians», in ID. (ed.), Paul in His Hellenistic Context, T & T Clark, Edinburgh 1994, 262; P.A. HOLLOWAY, Consolation in Philippians: Philosophical Sources and Rhetorical Strategy (SNTS SS 112), Uni- versity Press, Cambridge, UK 2001, 104-106; J.L. JAQUETTE, Discerning what Counts: The Formation of the Adiaphora Topos in Paul’s Letters (SBL DS 146), Scholars Press, Atlanta, GA 1995.

34 PITTA, «Mimesi delle differenze», 351.

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D’altra parte essi [i cristiani] affermano che tutta la loro colpa o il loro errore erano consistiti nell’abitudine di riunirsi in un determinato giorno, prima dell’alba, di canta- re fra loro alternativamente un inno a Cristo, come a un dio, e di obbligarsi, con giu- ramento, non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere furti o brigantaggi o adulteri, a non mancare alla parola data, né a negare, se invitati, di restituire un depo- sito. Compiuti i quali riti, avevano l’abitudine di separarsi e di riunirsi ancora per prendere il cibo, ordinario peraltro e innocente. Perfino da questa pratica avevano desistito, dopo il mio decreto, con il quale, secondo i tuoi ordini, avevo vietato le eterìe (Epistola 96,7).

Il commento più pertinente sugli sviluppi della teologia politica di Paolo si riscontra negli echi riprodotti dall’autore anonimo di A Diogneto, tra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C.:35 «Ogni terra è la loro patria e ogni patria è per loro terra straniera [...]. La terra è la loro dimora, ma la abitano da cittadini del cielo [...]. Sono combattuti dai giudei, quali uomini di un’altra razza, e persegui- tati dai greci. Ma quelli che li odiano non sanno dire il motivo della loro avver- sità» (A Diogneto 5,5-17).

35 Cf. la recente edizione di R. GISANA – A. SICHERA (edd.), A Diogneto, Medusa, Milano 2008.

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Le sofferenze di Paolo a favore della Chiesa. Una rilettura di Col 1,24 tra retorica ed esegesi

ALFIO MARCELLO BUSCEMI

La comprensione del senso di Col 1,24 non è di per sé un problema. Infat- ti, più che il contenuto del testo: la gioia di Paolo nel sopportare le sofferenze derivanti dall’annunciare la salvezza operante nel vangelo, è problematico il modo in cui Paolo in Col 1,24 presenta questo suo «gioire». Egli non solo non tiene conto delle sue sofferenze, ma sente pienamente realizzata la sua missione apostolica nel vedere il vangelo diffondersi e tenere salda la Chiesa in generale e la comunità di Colosse in particolare. In altre parole, il problema non sta nel «gioisco nelle sofferenze a vostro favore»,1 espressione brachilogica facilmente comprensibile in chiave filologica, ma in quel «completo nella mia carne ciò che manca ai patimenti di Cristo a vantaggio del suo corpo, che è la Chiesa», che indi- ca il modo in cui Paolo attua la sua missione. Ed è proprio su questo punto che intendo svolgere la mia breve ricerca su Col 1,24, facendo prima dei rilievi sul come è stato compreso negli studi precedenti2 e poi come l’hanno potuto com- prendere i colossesi nell’ascoltare le parole di Paolo. Nella seconda parte, cer- cherò di porre in rilievo non solo il senso esegetico di Col 1,24, ma anche il modo retorico di esprimersi di Paolo.

1 J.L. SUMNEY, «“I Fill Up what Its Lacking in the Afflictions of Christ”: Paul’s Vicarious Suffering in Colossians», in CBQ 68(2006), 664-680 crede che sia questo il punto centrale di Col 1,24–2,5 e, in base a ciò e facendo leva sulla letteratura greca degli «eroi» e su quella ellenistico-giudaica dei «martiri», ritiene che tutto il brano sia un invito a imitare Paolo nel soffrire per la comunità ecclesiale. Non credo che questo sia il problema di Col 1,24 e, in ogni caso, ciò potrebbe spiegare solo Col 1,24a. D’altra parte, il tentativo di smi- nuire il problema di avntanaplhro,w si scontra con l’interesse che i padri greci (Crisostomo, Teodoro di Mopsuestia e Fozio) hanno attribuito a esso: qui sta la vera crux dell’interpretazione di Col 1,24 e non nel senso dell’uvpe.r u`mw/n di Col 1,24a.

2 Oltre ai commentari e al lavoro già citato di Sumney, cf. J. KREMER, «Was an den Leiden Christi noch mangelt». Eine interpretationsgeshichtliche und exegetische untersuchung zu Kol 1,24b (Bonner Bibli- sche Beiträge 12), Bonn 1956; G. LE GRELLE, «La plénitude de la parole dans la pauvreté de la chaire d’a- près Col. I,24», in NRTh 81(1959), 232-250; C. MERRILL PROUDFOOT, «Imitation or Realistic Participation? A Study of Paul’s Concept of “Suffering with Christ”», in Interpretation 17(1963), 140-160; P. DACQUINO, «Il valore della sofferenza cristiana, Col 1,24», in BibeOr 8(1966), 242; C.A. DA COSTA E SILVA, «Sofrimento no Apostolado e Apostolado pelo Sofrimento (Um Estudo de Colossenses 1,24)», in RevCuBi 22(1979), 155- 181.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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1.TENTATIVI DI SOLUZIONE

Non è mia intenzione tracciare una storia dell’esegesi di Col 1,24, ma sol- tanto mettere in evidenza alcune traiettorie significative dell’esegesi patristica e moderna, che influiscono ancora sull’esegesi attuale di questo testo paolino. Ma soprattutto confrontare tali traiettorie con la comprensione dei colosessi nell’a- scoltare l’affermazione di Paolo.

1.1. La comprensione di Col 1,24 nella Chiesa antica

J.B. Lightfoot, un ottimo conoscitore della letteratura patristica, pur rite- nendo il commento di Agostino al Sal 152,3: Patitur, inquit, adhuc Christus pres- suram, non in carne sua in qua ascendit in caelum, sed in carne mea quae adhuc laborat in terra, «(the) very favourite explanation, and has much to recommend it», sostiene che tale interpretazione non può essere seguita, in quanto «it is open to the fatal objection that it empties the first preposition in avntanaplhrw/ of any force».3 A causa di ciò, egli preferisce l’interpretazione di Fozio, Ad Amphilio- chium 121 (PG 101,709): «Non dice, infatti, VAnaplhrw/, ma VAntanaplhrw/, cioè, al posto del Signore e maestro (avnti. despo,tou kai. didaska,lou), subentrando io servo e discepolo, compio in sua vece (avntanaplhrw/) ciò che manca alle tribolazioni di Cristo». È evidente che il Lightfoot si trovi un po’ in difficoltà nel dover sceglie- re tra un’interpretazione ritenuta «paolina» (tanto da citare Gal 2,20) e un’in- terpretazione a suo parere più «filologica» del testo. La scelta, poi, del testo di Fozio mi sembra alquanto strana: forse è stato scelto per la sua concisione, che dà una certa forza retorica a ciò che l’autore voleva affermare.4 In verità, i padri hanno offerto diverse interpretazioni di Col 1,24, che, secondo me, non sono in contrasto tra di loro, ma si completano a vicenda per mostrare la ricchezza teo- logica di questa affermazione paolina. A tal proposito, mi sembra bene prende- re in esame i testi patristici di Giovanni Crisostomo, di Teodoro di Mopsuestia, di Fozio e di Agostino.5

Giovanni Crisostomo, fedele alla sua appartenenza alla «scuola antioche- na», ci ha lasciato nelle sue omelie sulla Lettera ai Colossesi6 una lunga e pre-

3 J.B. LIGHTFOOT, Saint Paul’s Epistles to the Colossians and to Philemon, London 1927, 163-164.

4 In verità, il testo citato fa parte della Quaestio CXXI: Quae fuerunt illa, quae Christo deerant, quoe- que Paulus complevit? (PG 101,706-712), dove Fozio si sofferma a delucidare proprio il senso di Col 1,24. La sua argomentazione, per quanto interessante, non mi sembra molto originale ed è sotto influsso dell’in- terpretazione del Crisostomo, specialmente sul senso di avntanaplhrw/Ç a] ga.r evkei/non e;dei paqei/nà evgw. pa,-scw avntV auvtou/; inoltre, si rifà alla figura dell’ambasciatore di 2Cor 5,20.

5 Una buona rassegna delle varie interpretazioni patristiche, medievali e moderne si trova in KRE- MER, «Was an den Leiden Christi noch mangelt», 5-72.

6 Queste omelie probabilmente furono tenute dal Crisostomo verso l’anno 398 d.C. in Costantino- poli (cf. KREMER, «Was an den Leiden Christi noch mangelt», 10; GIOVANNI CRISOSTOMO, Le omelie di s. Paolo ai Colossesi, a cura di C. PIAZZINO, Torino 1939, VII).

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ziosa interpretazione di Col 1,24,7 basata su diversi rilievi filologici ed esegetici,8 e con un preciso scopo pastorale di formare la propria comunità alla luce degli insegnamenti di Cristo e del servizio ministeriale di Paolo («diacono dell’evan- gelo»). In primo luogo, l’interpretazione viene contestualizzata, in quanto Col 1,24 viene strettamente connesso con il termine dia,konoj di Col 1,23: «E dice: “ministro”, invece di dire: “nulla apportando di mio, ma annunciando le cose di un altro”. E così credo che anche soffro per lui (pa,scw u`pe.r auvtou/). E non solo soffro, ma anche gioisco di soffrire, considerando la speranza futura». Con que- ste parole, il Crisostomo precisa il senso di «ministro», che in Col 1,23 aveva pre- sentato come un ufficio «degno di fede» (kai. tou/to eivj to. avxio,piston suntelei/), «una grande dignità» (me,ga to. avxi,wma), ma nella realtà apostolica esso è grande solo se «annuncia le cose di Cristo» (ta. e`te,rou katagge,llwn), anzi soffre per lui (u`pe.r auvtou/), dimostrando in tal modo «un grande amore per Cristo» (... pollh/j filostorgi,aj th/j peri. to.n Cristo,n). E tale amore a Cristo non è per un vantag- gio personale dell’apostolo, ma la sofferenza che egli accetta per amore di Cristo è a vantaggio dei credenti di Colosse (kai. pa,scw ouvc u`pe.r evmautou/Ã avllV u`pe.r u`mw/n). L’apostolo, soffrendo per amore di Cristo, agisce «a favore di tutti i cre- denti in Cristo».

Affrontando poi l’espressione: kai. avntanaplhrw/ ta. u`sterh,mata tw/n qli,yewn tou/ Cristou/, il Crisostomo l’interpreta alla luce del principio annunciato: Paolo «annuncia/compie le cose di un altro».

Non vuole, infatti, che siano suoi, ma i patimenti sono di lui. [...] E quello che io sof- fro, lo soffro per lui (diV evkei/non pa,scw), cosicché non dovete riconoscenza a me, ma a lui. È lui, infatti, che soffre queste cose (auvto.j ga.r pa,scei tau/ta). [...] Non siete con- dotti da noi (diV h`mw/n), ma da lui (diV auvtou/), anche se siamo noi a fare queste cose. Infatti, non ci siamo assunti un’opera personale (oivkei/on e;rgon), ma quella di lui (avlla. to. evkei,nou). [...] Quelle cose, infatti, che era necessario che egli soffrisse, le soffro io a posto suo (a] ga.r evkei/non e;dei paqei/nà evgw. pa,scw avntV auvtou/).

Tale principio, poi, il Crisostomo lo esemplifica attraverso l’immagine del- l’ambasciatore di 2Cor 5,20: «Noi fungiamo da ambasciatori in luogo di Cristo, come se Dio vi esortasse mediante noi». Da qui la conclusione molto chiara del Crisostomo: «Osserva come ci ha uniti intimamente a lui: [...] Io sono diacono, e con ciò dimostra che egli non ha fatto nulla, se realmente è diacono (Ei=ta dei,knusin o[ti ouvde.n auvto.j evpoi,hsenà ei; ge dia,kono,j evstin)».

7 È chiaro che tale interpretazione viene condotta dal Crisostomo secondo i criteri della retorica del suo tempo. Le sue omelie, pertanto, venivano sviluppate secondo due finalità ben precise: docere et move- re, e presentate all’assemblea con un discorso fluente o secondo le tecniche della dilectatio per rendere l’u- ditorio attento, docile e benevolo nel seguire i suoi insegnamenti. Di sicuro, essendo un «discorso epiditti- co», tendeva soprattutto al docere, servendosi di tutti quei mezzi filologici di cui egli disponeva e che egli metteva in atto per far scoprire meglio ai suoi uditori la propria identità cristiana. Ma il docere non era fine a se stesso, in quanto voleva spronare, movere l’assemblea cristiana a conformare la propria vita a Cristo e ai suoi insegnamenti. Per questo, mi sembra che il Crisostomo abbia di mira non solo di presentare con chia- rezza il senso del testo paolino, ma soprattutto di spingere il suo uditorio ad assumere lo stesso atteggia- mento di Paolo: servire la Parola e soffrire per essa.

8 GIOVANNI CRISOSTOMO, In Epistolam ad Colossenses Commentarius, Hom. IV, 2: PG 62,326-328.

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Nell’esegesi del Crisostomo manca un reale approfondimento del termine ta. u`sterh,mata e del suo rapporto con i due genitivi seguenti tw/n qli,yewn tou/ Cri- stou/. Per lui le sofferenze, quelle passate e quelle che rimangono da soffrire (ta. u`sterh,mata),9 sono le sofferenze che Paolo soffre a motivo di Cristo (diV evkei/non pa,scw), per amore di Cristo (u`pe.r auvtouà peri. to.n Cristo,n) e al posto di Cristo (avntV auvtou/)10 in favore della Chiesa (u`pe.r u`mw/n). Anzi, proprio perché egli agisce «come diacono», quindi «come rappresentante di Cristo», le sue sofferenze non sono sue, ma sono le sofferenze di Cristo stesso a favore della sua Chiesa.

Teodoro di Mopsuestia, amico e condiscepolo del Crisostomo, ha scritto un commentario alla Lettera ai Colossesi,11 ma di esso abbiamo solo dei frammen- ti. Uno di questi riguarda proprio Col 1,24:

Sicché, dico, gioisco anche di soffrire per voi. E, poiché un tempo Cristo patì a vostro beneficio, per farvi diventare suo corpo in virtù della risurrezione, io adempio per voi le cose che mancano alle sue sofferenze (ta. proslei,ponta tai/j qli,yesin auvtou/ tai/j u`pe.r u`mw/n avnaplhrw/). Ma che cosa era ciò che mancava? Il fatto che voi, dopo avere appre- so quanto realizzato per voi, ne raccogliate da lui l’annunzio (to. maqo,ntaj u`ma/j ti,na evsti. ta. u`pe.r uvmw/n katorqwqe,nta parV auvtou/ de,xasqai th.n peri. auvtw/n evpaggeli,an). Ciò, però, non poteva avvenire senza fatiche e tribolazioni. Proprio per queste cose soffro, andando in giro a predicare a tutti le cose che sono state realizzate, cosicché voi pos- siate mostrare con la buona disposizione dell’animo familiarità verso di lui. Di queste cose, infatti, io sono (mi sono posto come) diacono.12

9 In verità, il modo di esprimersi del Crisostomo non è molto chiaro, in quanto da una parte scrive: «Soffro per lui, per attirarli; cioè, se colui che vi era debitore partì, io però vi rendo ciò che vi è dovuto», attribuendo le sofferenze a Paolo, ma dall’altra afferma: «“Quello che rimane”, per dimostrare che egli crede di non aver sofferto tutto. Per voi, dice, soffre anche dopo la morte, se pure è rimasto ancora qualco- sa [...]. Non gli bastò solamente la morte, ma anche dopo ciò fa infinite cose», parlando di Cristo. In ogni caso, «queste infinite cose» vengono realizzate da Paolo e dagli altri apostoli «al posto di Cristo» (cf. E. NOWAK, Le chrétien devant la souffrance. Étude sur la pensée de Jean Chrysostome [Théologie historique 19], Paris 1972, 204-205). A causa di ciò, non mi sembra totalmente vero che il genitivo tou/ Cristou/, in questa omelia, abbia solo il senso di un «genitivo soggettivo» (cf. KREMER, «Was an den Leiden Christi noch man- gelt», 18: «Denn Genitiv tou/ Cristou/ versteht Chrysostomus ganz eindeutig als genitivus subjectivus»), ma oscilla tra un «genitivo soggettivo» e un «genitivo oggettivo indiretto» di causa motiva o di relazione favo- revole o di sostituzione.

10 L’espressione preposizionale avntV auvtou/ anche se filologicamente non ricopre l’ambito del verbo avntanaplhrw/ di sicuro fa riferimento al preverbio avnti- di questo verbo, checché ne pensi KREMER, «Was an den Leiden Christi noch mangelt», 16. D’altra parte, egli stesso, riferendosi a J.C. Wolf, un autore che ha scrit- to nel 1738 un’opera filologica sulle lettere paoline, deve ammettere che tale ipotesi è possibile formularla.

11 Mi sembra che bisogna distinguere il «commentario» dal «commento omiletico», anche se entrambi avevano come scopo di illustrare il testo biblico per la comunità cristiana. Il «commentario», a dif- ferenza del «commento omiletico» di stampo più pastorale, sorge «nella scuola» e «per la scuola». L’inizia- tore, probabilmente, è Origene, dato che non possediamo commenti da parte dei suoi maestri: Clemente Alessandrino e Panteno. Origene, con i suoi studi biblici, diede un impulso vitale a questo genere letterario all’interno della letteratura cristiana e anche una caratteristica particolare: era un commentario basato sul- l’allegoria. A tale prospettiva ben presto subentrò un altro modo di scrivere un «commentario biblico»: quello letterale-storico della scuola antiochena, a cui appartenevano sia il Crisostomo che Teodoro di Mopsuestia. Ma, mentre il Crisostomo ci ha lasciato per lo più «commenti omiletici», Teodoro ha steso dei veri «commentari esegetici», basati sull’interpretazione grammaticale del testo e sulla sua aderenza al con- testo.

12 Traduzione mia del testo greco di TEODORO DI MOPSUESTIA, In Epistolam Pauli ad Colossenses Commentarii fragmenta I, 24.25: PG 66,929.

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Teodoro, ancor più che il Crisostomo, tiene conto del contesto di Col 1,24, tanto da presentarne il contenuto alla luce del ministero di predicazione di Paolo («andando in giro a predicare a tutti le cose che sono state realizzate»). Egli è «diacono» per annunciare ai colossesi «quanto il Cristo ha realizzato per loro» e «accogliere da lui (Cristo)» l’annunzio della salvezza. Proprio tale «annunzio» è ciò che mancava nell’azione salvifica di Cristo, e ciò «non poteva avvenire senza fatiche e tribolazioni». Interessante, in questa interpretazione, è il fatto che Teo- doro non si serve del termine paolino ta. u`sterh,mata, che, in quanto derivato da uvstere,w mediante l’aggettivo u[steroj, «mancante»,13 sembra suggerire piuttosto «un’insufficienza» che deve «essere colmata o portata a compimento», mentre il sinonimo ta. proslei,ponta suggerisce qualcosa che è stata «tralasciata», perché non è giunto il momento giusto per essere completata;14 tale «carenza» va col- mata con la predicazione.15 Inoltre, nell’esposizione di Teodoro, il genitivo auvtou/ è certamente da riferire a Cristo ed è un genitivo di autore. Forse, un po’ incerto rimane il parV auvtou/ seguente, ma, dato che chi ha «realizzato il tutto» è Cristo, è evidente che bisogna ricevere anche da Cristo «l’annuncio» della salvezza. Paolo è divenuto proprio «diacono» di tale «annuncio» e per esso soffre, gira il mondo intero e si affatica perché anche i colossesi possano divenire «familiari a Cristo».

Fozio di Costantinopoli, nella sua opera Ad Amphilochium, una raccolta di circa 300 quaestiones dirette ad Amfilochio metropolita di Cizico, tratta della seguente questione: Quae fuerunt illa, quae Christo deerant, quoeque Paulus complevit?16 Fedele allo schema della quaestio,17 in primo luogo rigetta diverse opinioni degli esegeti, che egli ritiene come soluzioni parziali o fuorvianti. Passa, poi, a definire il senso del termine ta. u`sterh,mata e, facendo una piccola ricerca nei testi dell’AT e del NT, egli conclude: «Così, osserviamo che, in base all’uso della Scrittura, to. uvste,rhma ha il senso di mancanza di qualcosa di cui si è parla- to» (Ou[tw kaqorw.men tw/| e;qei th/j Grafh/j to. u`ste,rhma th.n crei,an pareco,menon tou/ shmainome,nou). Precisato il senso del termine u`sterh,mata, Fozio va subito al cuore del problema:

In qual modo Paolo supplirà (avntanaplhrw,sei) nel suo corpo le tribolazioni di Cristo? Ciò esamina brevemente con me. Guardati dal (ouvmenou/n) sostenere che tutto ciò che

13 J.H. MOULTON – W.F. HOWARD, A Grammar of New Testament Greek, 2: Accidence and Word-For- mation, Edinburgh 1976, 354.

14 Cf. l’espressione di ARISTOTELE, Politica 1337a,2: to. proslei/pon th/j fu,sewj («le carenze naturali» o «ciò che per natura fa difetto»; cf. F. MONTANARI, Vocabolario della lingua greca, Torino 2003, ad vocem proslei,pw). Comunque, in IGR 4,845 (un’iscrizione del I secolo d.C. trovata a Laodicea ad Lycum) si ha ta. proslei,yonta tou/ e;rgou («le cose che tralasciarono riguardo all’opera»; cf. H.G. LIDDELL – R. SCOTT – H.S. JONES, A Greek-English Lexicon, Oxford 1985, ad vocem proslei,pw).

15 MONTANARI, Vocabolario, ad vocem «proslei,pw».

16 FOZIO, Ad Amphilochium I, VErw,thsij RKA,Ç Ti,na h;n ta. u`sterh,mata tou/ Cristou/Ã a[per o` Pau/loj evplh,rwsen (Quaestio CXXI: Quae fuerunt illa, quae Christo deerant, quoeque Paulus complevit): PG 101,706-712.

17 La quaestio era una trattazione particolare, che attraverso l’approfondimento filologico ed ese- getico cercava di risolvere dei punti particolari del testo biblico. Essa, quindi, differiva sia dal «commento» che dalle «omelie», in quanto aveva una funzione limitata di approfondimento di certi punti oscuri o pro- blematici del testo biblico.

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Cristo doveva soffrire, non l’abbia sofferto. Infatti, non manca per niente di nessuna cosa, ma anzi sovrabbondò la sua grazia a favore nostro. Dunque, quali cose mancan- ti [Paolo] supplisce? (Poi/a ou=n u`sterh,mata avntanaplhroi/...). Tutte quelle cose che, se il Salvatore fosse stato ancora in questa vita umana quando Paolo annunciava il vange- lo, avrebbe sofferto insegnando e prendendosi ancora cura mediante la sua presenza della creatura, quelle cose che mancano alle tribolazioni di Cristo Paolo supplisce ora soffrendo. Ciò è molto appropriato ed espresso con l’enfasi della parola.18 Infatti, non dice semplicemente: avnaplhro,w, ma avntanaplhro,w, cioè, al posto del Signore e Maestro (avnti. Despo,tou kai. didaska,lou) io servo e discepolo, sostenendo quel ministero (diako- ni,an), supplisco anche ciò che manca alle sue tribolazioni.

Fozio, per dimostrare tale «compito suppletivo», cita i due testi di 2Cor 5,18: «Tutte le cose infatti, dice, sono da Dio che ci ha riconciliati con sé median- te Gesù Cristo e ci ha dato il ministero della riconciliazione», e di 5,20: «Per Cri- sto noi fungiamo da ambasciatori, come se Dio parlasse per mezzo nostro, per- ché noi esortiamo per Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio». Così, dato che i discepoli sono stati scelti a motivo della parola della riconciliazione e dato che hanno la funzione di ambasciatore per Cristo, essi debbono portare a compi- mento (evkplhrw/n) quelle cose che egli doveva soffrire, e compierle a posto suo (avntanaplhrou/sin) nel loro corpo in maniera conveniente. Tutto ciò è avvenuto particolarmente nel caso di Paolo.

La trattazione di Fozio è certamente la più completa: uno status quaestionis che ci offre alcune opinioni comuni al tempo di Fozio e su cui l’autore nutre dei dubbi, l’interpretazione di alcuni termini principali del testo: to. u`ste,rhma ha il senso di mancanza di qualcosa, il genitivo tou/ Cristou/ è un genitivo di autore, mentre avntanaplhro,w non è equivalente a avnaplhro,w, ma ha il senso di «compie- re qualcosa al posto di qualcuno», quindi «supplire», infine l’esegesi del testo di Col 1,24, che a mio parere cerca di coniugare insieme l’interpretazione sostituti- va del Crisostomo (cf. il ricorso a 2Cor 5,18-20) con quella più contestualizzata di Teodoro di Mopsuestia: nell’azione di Paolo agisce Cristo e Paolo pone in atto quelle sofferenze che Cristo avrebbe patito se fosse stato in vita durante la sua azione di predicatore.

Agostino di Ippona, nella Enarratio in Psalmum 86, 5,19 ha esposto con chiarezza e maestria retorica il suo pensiero su Col 1,24:

Praecessit enim in capite; sequitur se in corpore. Videte quid dixit Apostolus quia in ipso Christus patiebatur: Ut adimpleam, inquit, quae desunt pressurarum Christi in carne sua. Ut adimpleam: Quid? Quae desunt. Cui desunt? Pressurarum Christi. Et ubi

18 Questo riferimento al modo di esprimersi retorico è molto interessante, in quanto Fozio è coscien- te che nell’espressione paolina gioca un ruolo non indifferente anche la retorica: «l’enfasi della parola». Su ciò cf. anche SUMNEY, «“I Fill Up what Its Lacking in the Afflictions of Christ”», 666, che attribuisce un ruolo abbastanza consistente alla «retorica» nell’interpretazione di Col 1,24, anche se lo fa coincidere con «the construction of a persuasive ethos». Ma non mi sembra che il nostro testo sia interessato a ciò, ma piutto- sto a «formare l’eivko,j dei credenti di Colosse».

19 Le Enarrationes sono un po’ come le Homeliae, cioè non dei veri commentari, ma delle trattazio- ni retoriche che conservano i caratteri originari della predica improvvisata, messa per iscritto da qualche tachigrafo e poi, magari, sommariamente rivista dall’autore.

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desunt? In carne mea. Numquid aliquid pressurarum deerat in illo homine, quod fac- tum est Verbum Dei, nato de Maria virgine? Passus enim est quidquid pati deberet ex sua voluntate, non ex peccati necessitate; et videtur quia omnia; in cruce enim positus accepit acetum ultimum, et ait: Perfectum est; et inclinato capite emisit spiritum. Quid est: Perfectum est? Iam de mensura passionum nihil mihi deest; omnia quae de me praedicta sunt, completa sunt; tamquam ideo expectaret ut complerentur. [...] Ergo impletae erant omnes passiones, sed in capite: restabant adhuc Christi passiones in corpore. Vos autem estis corpus Christi et membra. In his ergo membris cum esset Apostolus, dixit: Ut adimpleam quae desunt pressurarum Christi in carne mea.

L’interpretazione di Agostino è buona, anche se non tiene molto conto del contesto di diaconia, in cui Paolo ha inserito la sua affermazione di Col 1,24.20 In ogni caso, Agostino stabilisce una netta differenza tra le sofferenze che Cristo ha subito «nella sua carne» e quella che Paolo dice di aver subito in carne mea. Quin- di, Agostino distingue bene tra le sofferenze di Cristo (genitivo di autore) e quel- le di Paolo.21 Solo che, secondo Agostino, ci sono una «simbiosi»22 e una «sinergia» tra le sofferenze di Paolo e quelle di Cristo. In altre parole, Paolo pensa che le sue sofferenze non siano staccate da quelle di Cristo, perché Cristo vive in lui. Così, le sofferenze dell’apostolo, unite a quelle di Cristo, portano a compimento «nella carne di Paolo» ciò che manca alle sofferenze di Cristo, ma non nel senso che il sacrificio salvifico di Cristo manchi di qualche cosa, ma nel senso che i credenti, in unione a Cristo, partecipano «nella loro carne», cioè nella loro esistenza umana, alle tribolazioni di Cristo a favore della Chiesa. Non è questione di meriti, ma di reale partecipazione alla «sofferenza di Cristo».

1.2. La comprensione di Col 1,24 negli autori moderni

Molti hanno commentato lungo i secoli il testo di Col 1,24, ma le soluzioni proposte dai suddetti padri rimangono un punto fermo dell’esegesi di ogni tempo. Vi è chi, come Erasmo di Rotterdam, ha posto l’accento sull’interpreta- zione filologica:

VAntanaplhrw/ ta. u`sterh,mata tw/n qli,yewn tou/ Cristou/ commodius vertere poterat: Et suppleo quod deest afflictionibus Christi. [...] Porro verbum avntanaplhrw/ compositum ex tribus: ex avnti, quod significat «vicem», cum quis alterius loco facit aliquid, et avna, quod apud latinos aliquoties valet «re-», et plhrw/, quasi redimpleo vice Christi, quod in illius afflictionibus est diminutum. Ambrosius videtur voluisse sensum explicare

20 L’accenno che fa alla fine: In his ergo membris cum esset Apostolus, dixit, è ben poca cosa rispet- to all’interpretazione del Crisostomo e di Teodoro di Mopsuestia.

21 Nonostante ciò, il LIGHTFOOT, Saint Paul’s Epistles to the Colossians, 163-164, citando un altro testo di AGOSTINO, Enarratio in Psalmum 142, 3 (cf. il testo all’inizio del contributo), ritiene che tale interpreta- zione non possa essere seguita, in quanto «it empties the first preposition in avntanaplhrw/ of any force». Tale giudizio mi sembra strano, in quanto Agostino ha fatto una bella differenza tra le sofferenze che Cristo ha subito «nella sua carne» e quella che Paolo dice di aver subito nella propria carne (in carne mea).

22 Fozio, alcuni secoli dopo Agostino, ha accennato a ciò quando ha scritto: «... se il Salvatore fosse stato ancora in questa vita umana quando Paolo annunciava il vangelo (ei;tV e;ti tw|/ avnqrw,pou bi,w| evpedh,mei o` Swth.r kaqV o]n kairo.n o` Pau/loj evkh,russen...)».

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Pauli cum ait reliquias, ut accipiamus passionem Christi non fuisse diminutam ad salu- tem hominum, sed unam esse passionem Christi et martyrum, hoc est capitis et mem- brorum. [...] Similia Chrysostomus annotans quod apostolus, modestiae gratia, suas afflictiones, quas pro ecclesia perpetiatur, Christi afflictiones appellat.

Qualche altro, come Bernardino a Piconio, coniuga l’interpretazione filo- logica con quella apostolica: «Videtur sensus omnium naturalissimus esse is qui seguitur: Ego Paulus factus sum evangelii minister: administer fidelis qui gaudeo in malis quae pro vobis patior: quia Christi vice, Christique loco, patior in carne mea, quae mihi sui loco reliquit toleranda pro suo corpore mystico, quod est ecclesia». Mentre Cornelio a Lapide propende e segue quella di Agostino:

Passio enim Christi in se fuit plena et sufficiens, illique quoad ad valorem et pretii suf- ficientiam nihil defuit. Christus enim sua passione comparavit pretium sufficiens toti mundo redimendo, immo mille mundis redimendis; eidem tamen passioni aliquid defuit et deest in nobis, nimirum communicatio et participatio passionis meritorum Christi ut scl. Christus non tantum in se, sed etiam in suis membris, i.e. Apostolis alii- sque fidelibus, similia patiatur, hacque passione propagetur et perficiatur corpus eius, quod est Ecclesia. Aeterno enim suo decreto statuit Deus, ut Christus non tantum in se, sed etiam in suo corpore et membris, puta in Ecclesia et fidelibus, pateretur et pas- sione eorundem consummaretur ac perficeretur, dum nimirum fideles quique patien- do participes fiunt et similes Christi patientis et crucifixi.

Entrambi i termini communicatio e propagetur sono molto importanti e in qualche modo rispecchiano l’interpretazione di Teodoro di Mopsuestia:

Christus quidem in se satis abunde passus est [...]; si illud nobis applicetur: verum ut hoc lytrum et haec Christi passio hominibus praesertim infidelibus applicetur, multa adhuc desunt: nimirum oportet nos apostolos peregrinari per totum mundum, docere omnes Gentes, monere, hortari, arguere ut eas convertamus; ideoque multa nobis dura et acerba patienda sunt uti iam ego vincula haec patior in carne, ut ea quae desunt pas- sionibus Christi in Gentium conversione procuranda, ego adimpleam, multaque patiar pro corpore Christi quod est Ecclesia, ut nimirum inter Gentes Ecclesia propagetur, crescat et perficiatur, passionisque Christi plane fiat particeps.

L’influsso dell’esegesi patristica si fa sentire fortemente anche sull’esegesi contemporanea: gli autori sviluppano o l’esegesi del Crisostomo o quella di Ago- stino. La stessa opera di J. Kremer,23 lo studio storico-esegetico più completo su Col 1,24,24 manifesta la sua preferenza per l’interpretazione del Crisostomo.25

23 KREMER, «Was an den Leiden Christi noch mangelt». 24 Su di esso cf. le valutazioni critiche di M. Zerwick; BENOIT, in RB 64(1957), 619-620. 25 KREMER, «Was an den Leiden Christi noch mangelt», 202, lo dice espressamente alla fine della sua

opera: «Was diese Exegese im Anschluß an die Ausführungen des hl. Johannes Chrysostomus, [...] beson- ders empfielt». Nonostante la sua completezza, quest’opera logicamente mostra già i segni del tempo in cui fu scritta. Di sicuro, è molto interessante tutto l’excursus storico sulle varie interpretazioni dei padri, degli esegeti medioevali e anche di quelli del «tempo moderno» e contemporaneo. Ma già per questi ultimi si richiederebbe non solo una forte integrazione, ma anche una più attenta valutazione. Inoltre, anche la distinzione tra «esegesi cattolica» ed «esegesi protestante» forse era ancora valida per gli anni ’50, ma gli esegeti hanno lavorato e lavorano insieme per approfondire la parola di Dio, che supera i vari «confessio-

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Così, il preverbio avnti- di avntanaplhrw/ va preso nel suo senso pieno e quindi il verbo non significa «completare», ma «portare a compimento qualcosa al posto di un altro», «supplire». In altre parole, Paolo completa non la misura delle sue tribolazioni, ma quelle «di Cristo». Il genitivo, pertanto, non va preso né come un «oggettivo di causa»: «a motivo di Cristo», né come un «genitivo di qualità»: «le sofferenze sofferte a somiglianza di Cristo», né come un genitivo soggettivo rife- rito al «Cristo mistico»: essendo Paolo unito a Cristo, le sue sofferenze appar- tengono a lui (interpretazione attribuita ad Agostino). Il genitivo tou/ Cristou/ è un vero genitivo soggettivo e si riferisce al «Cristo storico». A causa di ciò, il ter- mine u`sterh,mata non indica necessariamente che qualcosa manchi alle tribola- zioni di Cristo, ma che per motivi contingenti alla sua natura umana qualcosa è «rimasto» da completare: Paolo porta a compimento «nel suo corpo» tale «resto di sofferenze» compiendo il suo servizio al vangelo. Non si tratta, dunque, di un’insufficienza nell’opera della salvezza operata da Cristo, che è e rimane pie- namente completa, ma di un’insufficienza inevitabile che non gli ha permesso, durante la sua vita terrena, di continuare a soffrire per la diffusione del vangelo. Ciò ha permesso a Paolo, e paradigmaticamente anche a tutti gli altri apostoli, di portare a compimento nella loro carne e al posto di Cristo tali sofferenze. Essi sono i suoi rappresentanti che, come lui, annunciano il vangelo e soffrono per instaurare ovunque il regno di Dio.

Degno di nota, tra gli studi che sono stati dedicati a Col 1,24, è l’articolo di sintesi di C.A. Da Costa e Silva,26 Sofrimento no Apostolado e Apostolado pelo Sofrimento, che non solo tiene conto dell’opera di Kremer, ma anche di molti altri contributi esegetici. Da Costa e Silva ha diviso il suo articolo in tre parti: 1. O texto e seu significado: in esso analizza termine per termine il testo di Col 1,24, soffermandosi soprattutto su avntanaplhrw/ e su u`sterh,mata tw/n qli,yewn; la sua interpretazione valuta le diverse proposte, per poi accettare definitivamente quella «sostitutiva» del Crisostomo e del Kremer. 2. Pressupostas para uma explicação, in cui l’autore, a differenza del Kremer, prende in attento esame il contesto di Col 1,24, precisamente la pericope di Col 1,24-29, e rilegge Col 1,24 alla luce di tale contesto; inoltre, si sforza di presentare il background culturale dell’affermazione paolina di Col 1,24: il concetto di personalità corporativa nel background biblico. 3. Significação de Col 1,24: data l’unione del cristiano con Cristo a motivo del battesimo e della fede che ci fa agire mediante la carità, «as tribolaçoes de Paulo podem e devem ser ditas tribolaçoes de Cristo, porque provêm da própria caridade de Cristo comunicada aos apóstolos (e a cada cri- stão), como é afirmado em 2Cor 5,14: “Caritas Christi urget (= synéchei) nos”». Inoltre, il Cristo ha sofferto per tutti noi, così anche «para Paulo, em razão da nossa união com Cristo, podemos participar dessas tribolaçoes de Cristo e refa-

nalismi». Una breve presentazione e valutazione dei lavori più recenti si trova in SUMNEY, «“I Fill Up what Its Lacking in the Afflictions of Christ”», 664-666.

26 DA COSTA E SILVA, «Sofrimento no Apostolado», 156.

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zer o caminho que Ele fez. Caminho de anúncio da palavra, mas também se necessário de morte (Rm 8,17)».

A missão do apóstolo consiste precisamente no encorajar esta resposta hamana, em provocá-la; ela se chama «o ministerio da reconciliação» e sua pregação é «a palavra da reconciliação» (2Cor 5,19). [...] A aplicação aos homens do efeito da Redenção Objetiva realizada exclusivamente por Cristo, será possível só com uma adesão do homem, que dá lugar a subjetivação da Redenção. Realmente diante da Reconciliação o homem tem um papel ativo enquanto a diakonía tês katalagês dá-lhe o direito e a capacidade de reconciliar-se com Deus.27

1.3. La comprensione di Col 1,24 da parte dei colossesi

Tutte queste interpretazioni, quelle dei padri come quelle degli autori moderni, sono molto interessanti. Ma i colossesi, che non hanno incontrato mai Paolo (Col 2,1) e ciò che conoscevano del suo pensiero lo avevano appreso dalla bocca di Epafra (Col 1,7), come potevano interpretare il pensiero espresso da Paolo in Col 1,24? Credo che i colossesi avessero alcuni punti di riferimento chia- ri per decifrare e comprendere il pensiero che l’apostolo aveva loro indirizzato. In primo luogo, Epafra, in quanto era il «mediatore culturale-religioso» tra loro e l’apostolo,28 poi la lettera in se stessa, in quanto era il contesto immediato di Col 1,24, e infine l’autorità dell’apostolo nell’ambiente delle comunità dell’Asia pro- consolare (Col 2,1-5). In quanto a Epafra, stando a Col 4,12, nel momento in cui i colossesi hanno ricevuto la lettera, si trovava a Roma: «Vi saluta Epafra, servo di Cristo Gesù, che è dei vostri». Ma Paolo aggiunge: «Egli non cessa di lottare per voi nelle sue preghiere, perché siate saldi, perfetti e aderenti a tutti i voleri di Dio. Gli rendo testimonianza che si impegna a fondo per voi, come per quelli di Laodicea e di Gerapoli». Ora, l’impegno di Epafra è stato quello di rendere chia- ro il pensiero di Paolo ai credenti di Colosse. Egli riceveva gli insegnamenti di Paolo e cercava di trasmetterli fedelmente ai colossesi e anche alle altre comu- nità dell’Asia proconsolare. È vero che poteva circolare già qualcuna delle lette- re di Paolo, ma il suo pensiero a Colosse era trasmesso e interpretato da Epafra. Ed egli certamente doveva conoscere abbastanza bene il pensiero dell’apostolo, dato che era o` sunaicmal, wtoj, mou env Cristw|/ VIhsou/ (Fm 23: «Il mio compagno di prigione nel Cristo Gesù»). Ma, purtroppo, noi sappiamo solo che Epafra aveva annunciato per primo il vangelo a Colosse e che si impegnava a rendere saldi e perfetti i colossesi. Non sappiamo neppure se e quando Epafra sia ritornato da

27 DA COSTA E SILVA, «Sofrimento no Apostolado», 169 e 174.

28 Tale mediazione culturale-religiosa non deve essere per nulla sottovalutata, dato che Paolo, giu- deo della Diaspora, aveva sì delle conoscenze del mondo culturale e religioso dell’ambiente dell’Asia pro- consolare, ma la sua cultura di base rimaneva sempre quella giudaica. I colossesi, invece, venivano dal paga- nesimo e la loro cultura di base era la filosofia greca, mentre dal punto di vista religioso erano pagani e affa- scinati dalle religioni misteriche, come sembra risultare da Col 2,6-8.16-23.

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Roma, ma il suo insegnamento era per i credenti di Colosse un punto di riferi- meno chiaro per comprendere il pensiero che Paolo aveva indirizzato a essi.

A causa di ciò, il punto di riferimento più chiaro per i colossesi, nel tenta- tivo di comprendere il pensiero di Paolo, rimaneva la lettera che Paolo aveva loro inviato e che presenta, come tutte le lettere paoline, la struttura di un «discorso epidittico».29 Così, fondamentalmente la lettera risulta composta da un exordium (Col 1,1-8), che racchiude il praescriptum di Col 1,1-2 e il ringrazia- mento di Col 1,3-8. Esso doveva disporre benevolmente l’animo dell’uditore (uditorem benevolum parare), renderlo disposto verso l’argomentazione che si sta per svolgere (uditorem docilem parare), informarlo sui punti chiave della pro- pria argomentazione (uditorem attentum parare).30 In questo exordium, poi, Paolo fa leva su due elementi essenziali: sull’ethos31 e sulla captatio benevolen- tiae.32 Infatti, nella superscriptio di Col 1,1a Paolo fa leva sull’ethos del suo udi- torio, ricorrendo al locus ab nostra persona33 che, oltre alla tipica autopresenta- zione: Pau/loj, presenta anche la sua funzione specifica di apostolo di Gesù Cri- sto (avpo,stoloj Cristou/ VIhsou/), che dinanzi al suo auditorium christianum lo qua- lifica come testimone autorizzato (dia. qelh,matoj qeou/) a presentare un insegna- mento che non viene dall’uomo e che non è parola di uomo (Gal 1,1; 1Ts 2,13), ma parola e insegnamento affidatogli da Dio a favore di quanti l’ascoltano e lo ricevono con fede. Inoltre, bisogna rilevare che l’apposizione avpo,stoloj Cristou/ VIhsou/ dia. qelh,matoj qeou/ va anche nel senso dell’uditorem docilem parare. L’auctoritas dell’apostolo è una garanzia per l’auditorium christianum,34 che pro- prio per questo ascolta volentieri la sua parola e il suo insegnamento,35 in quan- to lo ritiene un valido interprete tou/ lo,gou th/j avlhqei,aj tou/ euvaggeli,ou (Col 1,5b). D’altra parte, nell’adscriptio di Col 1,2a: toi/j evn Kolossai/j a`gi,oij kai. pistoi/j avdelfoi/j evn Cristw/|, Paolo si serve del locus ab auditorum persona,36 concretiz- zandolo in una captatio benevolentiae breve e pertinente: i colossesi sono avdelfoi. evn Cristw/|, quindi partecipi della comunità cristiana, stabilita per opera di Cristo e che vive nel Cristo, sono a[gioi, perché partecipi della santità di Dio; sono pistoi,, in quanto sono th/| pi,stei teqemeliwme,noi kai. e`drai/oi (Col 1,23), evrrizwme,- noi kai. evpoikodomou,menoi evn auvtw/| kai. bebaiou,menoi th/| pi,stei (Col 2,7). In tal senso, la captatio benevolentiae, nell’intenzione di Paolo, è un motivo per mettere in evi- denza l’eivko,j dei colossesi,37 la loro identità cristiana. Un tale avnagnwrismo,j, infat-

29 Su questo punto cf. A.M. BUSCEMI, «La struttura retorica della Lettera ai Colossesi», in LA 58(2008), 99-141.

30 H. LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric. A Foundation for Literary Study, Leiden-Boston- Köln 1998, §§ 266-279.

31 LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, § 257,2a; QUINTILIANUS, Institutio oratoria VI, 2.18: Ethos omne bonum et comem virum poscit.

32 LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, § 277a. 33 LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, §§ 274-275. 34 LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, §§ 258, 327 e soprattutto 1057-1058. 35 Cf. Rhetorica ad Herennium I, 7: Nam docilis est qui attente vult audire, e anche QUINTILIANUS, Insti-

tutio oratoria IV, 1.34: Docilem sine dubio et haec ipsa praestat attentio. 36 LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, §§ 277 e 277a. 37 LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, §§ 369 e 1213-1214.

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ti, non deriva solo da una tecnica retorica per uditorem benevolum parare, ma proviene da una certezza di fede, comune a Paolo e ai colossesi credenti, e quin- di crea un reciproco riconoscimento38 e sostiene sia l’ethos dell’apostolo che quello dei colossesi. Anche nel ringraziamento Paolo fa uso ancora sia del locus ab nostra persona39 sia di quello ab auditorum persona.40 Nel primo caso, met- tendo in rilievo attraverso l’espressione euvcaristou/men proseuco,menoi il suo impe- gno e interessamento per i credenti di Colosse;41 nel secondo caso, ponendo l’ac- cento sul motivo che spinge l’apostolo a ringraziare Dio, coniugando il locus ab auditorum persona con il locus a causa: Paolo ringrazia Dio perché ha sentito parlare della «fede in Cristo» dei colossesi (Col 1,4a): essi hanno creduto evn tw/| lo,gw| th/j avlhqei,aj tou/ euvaggeli,ou (Col 1,5b), della loro «carità verso tutti i santi» (Col 1,4b) e perché compiono tutto ciò «a motivo della speranza che è stata riser- vata per loro nei cieli» (Col 1,5a).

Anche la propositio di Col 1,9-11 va in questo senso ed è svolta in tre momenti: 1) la parte introduttiva o transitus (1,9a), che mediante una formula di petizione intende movere l’affectus dell’uditorio,42 cioè far leva sui sentimenti dei colossesi. Essi non solo possono contare sull’autorità dell’apostolo, ma anche sulla sua costante intercessione presso Dio e sulla sua attiva e viva partecipazio- ne alla crescita della loro comunità. A essi l’apostolo si rivolge proponendo un ulteriore approfondimento della loro fede e del loro cammino vissuto alla luce di tale esperienza di comunione con Cristo. 2) La propositio (Col 1,9b), che intende porre in evidenza «la dimensione gnoseologica della fede in Cristo». I colossesi devono «lasciarsi riempire della conoscenza profonda e piena (th.n evpi,gnwsin) della volontà di Dio con ogni sapienza e intelligenza spirituale (evn pa,sh| sofi,a| kai. sune,sei pneumatikh/|)». Per un auditorium christianum, tale propo- sitio ha la sua base nell’opinio communis43 derivata dalla fede e quindi risulta verosimilis e credibilis, perché basata su elementi fondanti il vivere cristiano e presentata dall’auctoritas di Paolo, quale inviato di Dio. Tali elementi essenziali della propositio, pertanto, hanno una relazione con l’aptum o pre,pon, cioè con il docere: Paolo presenta al suo uditorio non solo ciò che è essenziale al vivere cri- stiano, ma anche ciò che aiuta a metterlo in pratica. Tale funzione di insegna- mento apostolico, presentato come invito a migliorare il proprio eivko,j, non si limita solo al docere, ma intende anche movere il lettore/ascoltatore credente: non basta «conoscere», ma bisogna «con sapienza e intelligenza» porsi alla scuo-

38 LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, § 1214,3. 39 LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, §§ 274-275. 40 LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, §§ 277 e 277a. 41 È invalso l’uso di chiamare la città dei colossesi con il nome di «Colossi», ma veramente la lettu-

ra itacista di Kolossai, e la traduzione latina Colossae ci fa propendere per «Colosse», come giustamente tra- ducono MONTANARI, Vocabolario, ad vocem «Kolossai,», e R. ROMIZI, Greco antico. Vocabolario greco-italia- no etimologico e ragionato, Bologna 2007, ad vocem «Kolossai,»,; cf. anche T. BALLARINI, «Colossesi», in Epi- stole della prigionia (Introduzione alla Bibbia V/2), Casale Monferrato 1964, 41-42.

42 LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, § 258,3c.

43 Sulla opinio communis come base per la verosimiglianza della propositio cf. LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, §§ 326-327.

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la dello Spirito di Dio. 3) La partitio (Col 1,10-11), che ha anch’essa la funzione di favorire l’aptum o pre,pon, cioè il docere,44 in quanto da una parte aiuta l’udi- torio a comprendere meglio la propositio e dall’altra prepara lo svolgimento ordinato dell’argumentatio. Così, la proposizione infinitiva finale: peripath/sai avxi,wj tou/ kuri,ou eivj pa/san avreskei,an45 ha la funzione di aggancio tra la proposi- tio e la partitio, in quanto traduce in termini pratico-esistenziali «la dimensione gnoseologica della fede in Cristo» espressa nella propositio di Col 1,9b. Il «lasciarsi riempire della conoscenza della volontà di Dio» diviene un «cammina- re in maniera degna del Signore in vista di piacere in ogni cosa». Ma la vera par- titio viene espressa attraverso i tre participi seguenti: la prima participiale evn panti, e;rgw| avgaqw/| karpoforou/ntej e la terza evn pa,sh| duna,mei dunamou,menoi sono due modi diversi di presentare la parte operativa della condotta di vita, cioè la parte parenetica o morale della lettera: i credenti di Colosse debbono portare ogni frutto di «ogni opera buona» ed essere molto determinati nel compiere ciò. La seconda participiale: auvxano,menoi th/| evpignw,sei tou/ qeou/ riprende il tema prin- cipale della lettera: «il crescere nella conoscenza di Dio» e del suo disegno salvi- fico. Tenuto conto di ciò, mi sembra che la partitio o enumeratio46 della Lettera ai Colossesi abbia due parti principali: una parte dogmatica, centrata sul tema «della conoscenza di Dio e della volontà di Dio» (Col 1,12–2,23) e una parte parenetica, basata soprattutto sul morire e vivere con Cristo (Col 3,1–4,6). Per quanto distinte, queste due parti nel pensiero di Paolo formano un solo discorso epidittico, che intende docere il vero eivko,j o identità del credente in Cristo e movere a compiere in unione a Cristo ciò che tale identità comporta.

In concreto, l’argumentatio della lettera viene svolta in Col 1,12–4,6 e ha due momenti importanti: una dogmatica in Col 1,12–2,23 e una parenetica in Col 3,5–4,1; tra le due parti è stata inserita una subpropositio o meglio un’ananéo- sis,47 che propone in forma nuova la tesi iniziale e l’adatta alla nuova argumen- tatio. Tenuto conto di ciò, la divisione della lettera si presenta in questo modo:

Col 1,12–2,23: parte dogmatica – 1a probatio: Col 1,12-20: Dio e Cristo all’origine della nostra salvezza; – 2a probatio: Col 1,21–2,5: Paolo, diacono del mistero di Dio; – 3a probatio: Col 2,6-15: camminate nel Cristo Gesù; – 4a probatio: Col 2,16-23: guardarsi da certi falsi maestri di ascesi. Col 3,4: subpropositio o ananéosis

44 LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, §§ 257, 272 e 347.

45 J. VITEAU, Étude sur le grec du Nouveau Testament, 1: Le Verbe: Syntaxe des Propositions, Paris 1893, 267; M. ZERWICK, Graecitas biblica Novi Testamenti exemplis illustratur, Romae 1966, 352; ID., Analysis philologica Novi Testamenti graeci, Romae 1960, 447; F. BLASS – A. DEBRUNNER – F. REHKOPF, Grammatica del Nuovo Testamento, ed. it. a cura di G. PISI, Brescia 1982, 391,4 (citato come BDR, Grammatica); cf. anche H.W. SMYTH, Greek Grammar, revised by G.M. MESSING, Cambridge, MA 1984, 2008-2010.

46 LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, §§ 347 e 671. 47 LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, §§ 287-288 e 343-345.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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– 1o locus ab effectis: Col 3,5-17: spogliarsi dell’uomo vecchio – rivestirsi dell’uomo nuovo;

– 2o locus ab effectis: Col 3,18–4,1: il codice familiare.

In ogni modo, tutta l’argumentatio aveva un solo scopo: stabilire l’eivko,j dei credenti di Colosse e aiutarli a vivere nel Cristo tale loro identità cristiana.

La lettera, infine, si chiude con la peroratio (Col 4,2-18), che aveva due fun- zioni importanti: quella della recapitulatio o avnakefalai,wsij, che attraverso l’avna,mnhsij ripresenta i punti salienti del discorso che Paolo ha rivolto ai colos- sesi, e quella della conquestio,48 per attirarsi la simpatia dell’uditorio cristiano di Colosse e coinvolgerlo nella realizzazione del proprio eivko,j cristiano. Se si tiene conto di tutto ciò, bisogna dire che Paolo, rivolgendosi ai colossesi, non solo fa leva su motivi di credibilità, ma anche su motivi pratici e psicologici molto forti, per aiutarli a vivere la propria fede nel Cristo Gesù e cercare solo in lui «la cono- scenza profonda e piena della volontà di Dio (th.n evpi,gnwsin tou/ qelh,matoj auvtou/)».

2. UNA RILETTURA ESEGETICO-RETORICA DEL TESTO

Come già hanno fatto i padri e anche qualche autore moderno, in primo luogo rileggerò Col 1,24 alla luce del suo contesto immediato, cioè quello della seconda probatio di Col 1,21–2,5, che presenta Paolo quale diacono del mistero di Dio, per poi passare a una breve sintesi esegetico-teologica di questo testo tanto affascinante quanto difficile.

2.1. Col 1,24 e il suo contesto

Dal punto di vista letterario-strutturale, la seconda probatio ha inizio in Col 1,21, dato che Col 1,16 e 1,20 sono in inclusione letteraria tra loro. Inoltre, il kai, consecutivo,49 la prolessi del complemento oggetto u`ma/j50 rispetto al suo verbo

48 LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, § 439.

49 A.M. BUSCEMI, Gli inni di Paolo. Una sinfonia a Cristo Signore (SBF Analecta 48), Jerusalem 2000, 38. Per il kai, consecutivo cf. SMYTH, Greek Grammar, 2874; BDR, Grammatica, 442,2b; ZERWICK, Graecitas, 455bg.

50 Qualche autore lo ritiene un anacoluto (ZERWICK, Analysis, 448; G.B. WINER – W.F. MOULTON, A Trea- tise on the Grammar of New Testament, Edinburgh 1882, 714), ma in verità si tratta di un’anticipazione o pro- lessi (cf. anche ZERWICK, Analysis, 448, nonostante che ammetta l’anacoluto; per la prolessi cf. SMYTH, Greek Grammar, 3045; BDR, Grammatica, 476; A.M. BUSCEMI, «La prolessi nel Nuovo Testamento», in LA 35[1985], 48-49), per enfasi retorica, dell’oggetto di avpokath,llaxen in 5,22, che forma anche un forte hyperbaton (cf. SMYTH, Greek Grammar, 3028b; BDR, Grammatica, 477,1; LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, §§ 716- 718) tra l’oggetto e il suo verbo reggente. In ogni modo, u`ma/j si trova in prolessi sia rispetto al verbo della proposizione reggente (apodosi di una frase correlativo-concessiva antitetica: nuni. de. avpokath,llaxen) sia in rapporto alla protasi costituita da una participiale congiunta concessiva (pote o;ntaj avphllotriwme,nouj kai. evcqrou.j th/| dianoi,a| evn toi/j e;rgoij toij ponhroi/j) (cf. anche WINER – MOULTON, A Treatise, 553).

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reggente avpokath,llaxen,51 che enfaticamente collega questo inizio di pericope con ciò che segue, e ancora in base alla correlazione antitetica temporale pote, – nuni,, che stabilisce uno stretto rapporto tra Col 1,21 e Col 1,22-23. D’altra parte, l’av- verbio temporale nuni, stabilisce un rapporto molto stretto con il nu/n di Col 1,24, continuato poi dalla 1a persona singolare evgw, di Col 1,23c e dal termine dia,konoj, che stabiliscono una correlazione tra Col 1,21-23 e Col 1,24-29. Il permanere, poi, della 1a persona singolare (qe,lw – e;cw – le,gw – a;peimi – eivmi,) in Col 2,1-5, stretta- mente correlato ai pronomi u`ma/j – u`mw/n, sono elementi decisivi per unire anche questi versetti a ciò che precede come una terza parte della pericope di Col 1,21–2,5. Solo con 2,6 si ha un passaggio letterario significativo: il passaggio dalla 1a persona singolare, quale soggetto agente di Col 1,21–2,5, alla 2a persona plu- rale parela,bete, quale nuovo soggetto agente di una nuova fase o pericope del discorso. La pericope, così, può essere divisa in tre parti:

– Col 1,21-23: la situazione dei colossesi in rapporto al vangelo; – Col 1,24-29: l’azione ministeriale di Paolo a favore della Chiesa; – Col 2,1-5: l’azione ministeriale di Paolo a favore della comunità di Colosse. In tale ricostruzione, Col 1,24 viene a trovarsi nella parte centrale della

pericope di Col 1,21–2,5 e segna come un vertice dell’azione ministeriale di Paolo a favore della Chiesa e soprattutto della comunità credente di Colosse. L’azione ministeriale di Paolo, infatti, non solo ha contribuito nel passato, mediante l’annuncio del vangelo, a cambiare l’esistenza dei colossesi da pagani a credenti, ma continua ancora nell’avgonizo,menoj dell’apostolo contro le falsifica- zioni della verità, cercando di rendere stabili i credenti nella loro fede in Cristo.

Ma è soprattutto il punto di vista retorico che conferma e dà senso all’a- zione ministeriale di Paolo. Infatti, la seconda probatio di Col 1,21–2,5 inizia con un’avnagnw,risij dia. th/j mnh,mhj,52 che pone in evidenza la metabolh, dell’eivko,j dei colossesi e si serve dell’avnti,qeton temporale pote, – nuni,.53 Il ricordo (mnh,mh) è un mezzo per aiutare i colossesi a riconoscere con più facilità il rapporto che inter- corre tra l’atto salvifico di Dio, comunicato dall’apostolo mediante l’annuncio del vangelo (Col 1,23), e la loro situazione concreta nel passato (kai. u`ma/j pote o;ntaj avphllotriwme,nouj kai. evcqrou.j th/| dianoi,a| evn toi/j e;rgoij toij ponhroi/j) e nel presente (nuni. de. avpokath,llaxen evn tw/| sw,mati th/j sarko.j auvtou/ dia. tou/ qana,tou). Così l’avnti,qeton, mediante la mnh,mh, aiuta i colossesi a riconoscere la loro situa- zione passata di estraneità, la loro inimicizia che si manifestava in una mentalità avversa a Dio e nel compiere opere malvagie. Il ricordo del loro passato li porta

La traduzione è la seguente: «E così voi, sebbene una volta eravate stranieri e nemici, nel modo di pensare, con le opere cattive, tuttavia ora (vi) riconciliò nel suo corpo di carne mediante la morte, per presentarvi santi e immacolati e irreprensibili al suo cospetto». La ripetizione di «vi-voi» è un’esigenza della lingua ita- liana, non del greco. Inoltre, non deve meravigliare che la prolessi sia portata fuori della proposizione prin- cipale, cosa che accade spesso in questo fenomeno letterario (cf. BUSCEMI, «La prolessi», 37-68).

51 Per i problemi di critica textus cf. BUSCEMI, «La struttura retorica», 119, nota 130.

52 LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, §§ 1213-1215. L’avnagnw,risij non è esclusiva della com- media o della tragedia, ma fa parte anche della vita normale e quotidiana (ivi, § 215).

53 LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, §§ 787-788 e 790-791.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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a riconoscere (avnagnw,risij) di avere avuto un eivko,j, un’identità totalmente nega- tiva e opposta al vangelo. Rispetto al presente, poi, la mnh,mh li sprona a ricono- scere che la metabolh, è avvenuta per un atto di amore di Cristo, che li ha riconci- liati con Dio e li ha resi capaci di divenire «santi e immacolati e irreprensibili al suo cospetto» (Col 1,22). Ma ciò non basta, l’avnagnw,risij dia. th/j mnh,mhj ha anche lo scopo epidittico di auditorium movere: la riconciliazione, voluta da Dio e com- piuta mediante il sacrificio di Cristo, rimane operante solo se54 i colossesi per- mangono55 per mezzo della fede ben fondati e stabili e senza che si lascino smuo- vere56 dalla speranza del vangelo, che hanno udito (Col 1,23). In tal modo, l’avna- gnw,risij, mediante il riferimento al vangelo che hanno ascoltato (1,5.9b.23), cioè al piano di Dio in Cristo, diviene un significativo auditorium docere, in quanto lo aiuta a riflettere sia sul qe,lhma tou/ Qeou/ sia sull’impegno di «camminare in manie- ra degna del Signore con ogni desiderio di piacere (a lui)» della propositio di Col 1,9b-11. Ma non basta: li invita anche a «crescere nella conoscenza di Dio» (Col 1,10) permanendo ben fondati e saldi nella fede e senza tentennamenti in vista del conseguimento della speranza che il vangelo promette. Ora, Paolo può esercitare tale funzione di docere, nei confronti dei colossesi, proprio perché egli «è divenuto diacono di quel vangelo che è predicato a ogni creatura che si trova sotto il cielo» (Col 1,23). Egli ha l’auctoritas docendi et movendi, che si concretizza mediante l’avnagnw,risij dia. th/j mnh,mhj e che punta a rendere stabile la meta-bolh, del nuovo eivko,j dei colossesi: nella fede e nella speranza essi cono- sceranno più perfettamente e porteranno a compimento il qe,lhma tou/ Qeou/ eivj pa/san avreskei,an.

In Col 1,24–2,5, cioè nel contesto immediato a Col 1,24, l’avnagnw,risij dia. th/j mnh,mhj si trasforma in locus a propria persona57 e ha lo scopo di fornire moti- vi di autenticità all’auctoritas docendi et movendi di Paolo, sia in rapporto alla Chiesaingenerale(1,24-29)siainrapportoallacomunitàdiColosse(2,1-5).Tale auctoritas si basa su tre signa indubitata o a;luta shmei/a:58 le sofferenze che l’apo- stolo sopporta per la Chiesa (Col 1,24), il ministero ricevuto da Dio (Col 1,25), la lotta continua che egli deve affrontare per la Chiesa e per le comunità dell’A-

54 La particella pospositiva enclitica ge, ha qui senso rafforzativo ed esprime un concetto già presente nella stessa ipotetica della realtà: «se realmente», «solo se» (SMYTH, Greek Grammar, 2821, 2291,1, 2298 e 2298a; VITEAU, Étude, I, 184-186; BDR, Grammatica, 372,1 e 439,1-2; N. TURNER, A Grammar of New Testa- ment Greek, 3: Syntax, Edinburgh 1963, 115; ZERWICK, Graecitas, 303-306).

55 Questo mi sembra il senso del verbo evpime,nw: «rimanere fermi in qualcosa», «permanere», «per- severare» (L. ROCCI, Vocabolario, ad vocem evpime,nw c; W. BAUER – W.F. ARNDT – F.W. GINGRICH – W. DANKER, A Greek-English Lexicon of the New Testament and Other Early Christian Literature, Chicago-London 2000, ad vocem evpime,nw 2 [citato come BAGD, Lexicon]; J. THAYER, A Greek-English Lexicon of the New Testament, Grand Rapids 1978, ad vocem evpime,nw b).

56 Il participio metakinou,menoi, come teqemeliwme,noi e l’aggettivo e`drai/oi, è un predicativo del sogget- to e sottolinea un aspetto intensivo del permanere in uno stato (SMYTH, Greek Grammar, 2097; BDR, Gram- matica, 414,1,4; TURNER, Syntax, 159), tanto da assumere il valore di un aggettivo: «Non smossi/senza che vi lasciate smuovere» (J. MATEOS, El aspecto verbal en el Nuevo Testamento, Madrid 1977, 277) o con il senso del passivo permissivo: «Senza permettere che alcuno vi smuova» (SMYTH, Greek Grammar, 1736; L. CIGNEL- LI – G.C. BOTTINI, «Le diatesi del verbo nel greco biblico [I]», in LA 43[1993], 136-137).

57 LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, §§ 275, 326 e 377. 58 LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, § 361.

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sia proconsolare: Colosse, Laodicea e Gerapoli (Col 1,29). Il primo signum indu- bitatum, perché inscritto e visibile evn th/| sarki, mou (= di Paolo), è costituito dai paqh,mata e dalle qli,yeij, sofferti con gioia (cai,rw), in unione alle sofferenze di Cristo59 e «in favore del corpo di Cristo, cioè in favore della Chiesa». Il secondo signum indubitatum, almeno per un credente:60 Paolo è «ministro della Chiesa» kata. th.n oivkonomi,an tou/ qeou/ (Col 1,25): l’auctoritas di Paolo proviene da una disposizione divina,61 gli è stata concessa a favore dei credenti (eivj u`ma/j), per por- tare a compimento la parola di Dio (plhrw/sai to.n lo,gon tou/ qeou/) e far cono- scere to. plou/toj th/j do,xhj tou/ musthri,ou tou,tou. È evidente che per Paolo non si tratta di una «conoscenza intellettuale», ma di una «conoscenza superiore e per- sonale»: il mistero è Cristo e «conoscere Cristo» è entrare in comunione con lui che alimenta sin d’ora la nostra speranza di gloria di credenti e porta a compie- re l’evpivgnwsij tou/ qelh,matoj auvtou/ di Col 1,9 e la crescita th/| evpignw,sei tou/ qeou/ di Col 1,9b-11, cioè la realizzazione piena del proprio eivko,j cristiano. L’ultimo signum indubitatum dell’auctoritas di Paolo, connesso strettamente sia con la «diaconia» alla Chiesa sia al ministero di «portare a compimento la parola di Dio», è il suo «affaticarsi apostolico» (Col 1,29) «per presentare ogni uomo per- fetto in Cristo». Paolo lo esplica avgwnizo,menoj: «ponendosi in lotta con tutte le sue forze»,62 mettendo così in evidenza tutto l’impegno paolino nell’annunciare la Parola, nell’ammonire e nell’istruire con ogni sapienza, per presentare ogni uomo perfetto in Cristo. Il suo impegno, però, non proviene dalle sue capacità umane, ma piuttosto da quell’energia interiore che Dio gli ha comunicato nella sua oivkonomi,a e che agisce potentemente in lui e per mezzo di lui per far progre- dire l’annnuncio del vangelo.

Per questo, il tema della «lotta apostolica di Paolo» continua a essere pre- sente in Col 2,1-5 attraverso un altro locus a propria persona, che attraverso l’avnagnw,risij dia. th/j mnh,mhj ricorda ai credenti di Colosse e dell’Asia proconso- lare «quale grande lotta» Paolo sostiene per essi. L’anafora avgw/na e;cw u`pe.r u`mw/n,63 che riprende avgwnizo,menoj, è un’attualizzazione di ciò che Paolo, diacono della Parola e del mistero di Dio, continua a compiere a favore di tutti i creden- ti (cf. anche 2,5). Tale richiamo serve in primo luogo a Paolo per rendersi bene-

59 Il genitivo tou/ Cristou/, nel sintagma tw/n qli,yewn tou/ Cristou/, è un genitivo soggettivo: «le sof- ferenze che Cristo ha sperimentato», sofferenze che l’apostolo condivide con Cristo a favore della Chiesa.

60 Su questo punto cf. LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, §§ 326 e 356.

61 Di per sé kata, con accusativo indica il complemento di corrispondenza o conformità, ma anche il fondamento su cui qualcosa è basata: «secondo l’ufficio/la disposizione» (SMYTH, Greek Grammar, 1690,1c; BDR, Grammatica, 224,1; MONTANARI, Vocabolario, ad vocem «kata,» IIBf; BAGD, Lexicon, ad vocem «kata,» II,5a; THAYER, A Greek-English Lexicon, ad vocem «kata,» II,3ca). Il genitivo tou/ qeou/ può essere interpreta- to o come genitivo soggettivo o di autore: «che Dio mi ha concesso», o come genitivo di qualità: «l’ufficio divino o la disposizione divina».

62 Di per sé il verbo avgwni,zomai: «gareggiare», «lottare» è un medio deponente (THAYER, A Greek- English Lexicon, ad vocem «avgwni,zomai»; WINER – MOULTON, A Treatise, 260 [244]), ma in certi casi esso man- tiene tutta la sua sfumatura di medio dinamico diretto: «mi pongo in lotta con tutte le mie forze» (SMYTH, Greek Grammar, 1728 e 1730-1731; L. CIGNELLI – G.C. BOTTINI, «Le diatesi del verbo nel greco biblico [II]», in LA 44[1994], 238-239).

63 LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, §§ 629-630.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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volum l’auditorium di Colosse:64 il suo impegno e la sua lotta rendono più salda la sua auctoritas nel sostenere il cuore dei credenti e nell’annunciare il «mistero di Dio» che si realizza nel «mistero di Cristo». Ma lo scopo principale dell’a- nafora di Col 2,2 e della captatio benevolentiae di 2,565 non è quello di rafforza- re la sua auctoritas, quanto di rendere docilem il suo uditorio,66 in maniera che egli possa istruire senza problemi i colossesi (auditorium docere)67 sul contenuto centrale del suo messaggio: «la conoscenza del mistero di Dio, cioè Cristo»,68 in cui «sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza» (2,2-5)69 e in cui «abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (2,9).

2.2. Il senso esegetico-teologico di Col 1,24

L’avverbio di tempo nu/n sottolinea la realtà presente: «ora, nel tempo pre- sente»70 e, in qualche modo, è in connessione con il nuni, di 1,22, cioè il tempo pre- sente inaugurato dall’azione redentiva e riconciliatrice di Cristo, e in cui noi siamo stati riconciliati con Dio e liberati dal potere delle tenebre.71 È il tempo della grazia, che si manifesta attraverso il vangelo e nell’azione evangelizzatrice di Paolo.72 Proprio a motivo di questa «grazia»,73 Paolo gioisce persino nelle sue sofferenze. Egli si è fatto afferrare da quella «grazia» e ora ne condivide il pro- getto fino a soffrire per la sua realizzazione. VEn toi/j paqh,masin può indicare il complemento di stato in luogo figurato indicando uno stato di essere,74 special-

64 LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, § 273.

65 LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, §§ 257,2a, 274 e 277a. In verità, si potrebbe parlare anche di dei,nwsij, in quanto Col 2,5 sembra essere una breve amplificatio che vuole impressionare i suoi uditori (ivi, § 257,3).

66 LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, § 272. 67 LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, §§ 272 e 326-329. 68 Il docere di Paolo, infatti, è rivolto «a mantenere uniti nella carità» (sumbibasqe,ntej evn avga,ph|) i

colossesi, ma soprattutto è orientato eivj pa/n plou/toj th/j plhrofori,aj th/j sune,sewjà eivj evpi,gnwsin tou/ musth- ri,ou tou/ qeou/ÃCristou/ (Col 2,2).

69 Probabilmente si tratta di un’endiadi (cf. SMYTH, Greek Grammar, 1143 e 3025; BDR, Grammati- ca, 276,1 e 442,9b; LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, § 673).

70 SMYTH, Greek Grammar, 2924; ROCCI, Vocabolario, ad vocem «nu/n» 1a; BAGD, Lexicon, ad vocem «nu/n» 1aa; THAYER, A Greek-English Lexicon, ad vocem «nu/n» 1a.

71 Cf. anche LIGHTFOOT, Saint Paul’s Epistles to the Colossians, 162, che dà molto rilievo al valore teo- logico e soteriologico dell’avverbio nu/n nel contesto di quanto detto precedentemente in Col 1.

72 DA COSTA E SILVA, «Sofrimento no Apostolado», 156, ritiene che il nu/n faccia riferimento alla pri- gionia di Paolo, vista come un’occasione di evangelizzazione. Il contesto immediato non mi sembra che fac- cia riferimento a una situazione di prigionia, ma di un apostolato, carico sì di sofferenza, ma anche di gioia per la diffusione del vangelo nel mondo. D’altra parte, lo stesso autore si accorge di ciò scrivendo: «Os sof- frimentos são fruto de uma atividad apostolica de Paulo» (p. 158).

73 Si noti che il termine cai,rw è composto dalla radice allungata car-, proveniente da cara,: «gioia» e imparentato con ca,rij: «grazia» (cf. ROCCI, Vocabolario, ad vocem «cai,rw»; THAYER, A Greek-English Lexi- con, ad vocem «cai,rw»).

74 BAGD, Lexicon, ad vocem «evn» 1, ammette sia il senso locale che quello causale; THAYER, A Greek-English Lexicon, ad vocem «evn» 6e; ZORELL, Lexicon, ad vocem «cai,rw» 1: inter afflictiones. Così anche DA COSTA E SILVA, «Sofrimento no Apostolado», 156.

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mente se lo si riferisce strettamente a cai,rw: «gioisco sempre nelle sofferenze»,75 cioè, l’apostolo è talmente preso dalla sua missione di annunciare il vangelo che non solo non tiene conto delle sue sofferenze, ma gioisce nel vedere che esso si diffonde e tiene salda la Chiesa; ma, se consideriamo la stretta unione con l’u`pe.r u`mw/n seguente, può indicare la causa motiva: «Gioisco a motivo delle sofferenze che sopporto per voi».76 Ma nell’uno o nell’altro caso, la gioia di Paolo è quella dell’apostolo che sa di annunciare la salvezza operante nel vangelo e di comuni- carla anche ai credenti di Colosse. È chiaro che l’espressione evn toi/j paqh,masin u`pe.r u`mw/n è brachilogica e u`pe.r u`mw/n dipende dal concetto verbale incluso nel termine paqh,masin. Infatti, il sostantivo deverbativo to. pa,qhma è composto dalla radice paq-, derivata da pa,scw, mediante pa,qoj:77 «sopportare» + il suffisso in -ma dei sostantivi neutri di risultato o effetto di un’azione:78 «ciò che si sopporta», «sofferenza». Pertanto, Paolo gioisce per tutte le cose che sopporta a favore dei colossesi e u`pe.r u`mw/n esprime il complemento di relazione e di vantaggio: «per/per tutto ciò che riguarda voi».79

Kai. avntanaplhrw/: con questa espressione ha inizio una vera crux interpre- tum, non tanto per il suo senso, ma per il contrasto teologico che il passo potreb- be comportare con la dottrina paolina dell’unicità e completezza del «sacrificio redentore di Cristo».80 Kai, ha qui una sfumatura consecutiva: «e così», «e per questo»,81 mettendo in stretta relazione i due concetti: quello del «gioire di Paolo nelle sofferenze» a favore dei colossesi e quello del suo impegno «a completare nella sua carne le tribolazioni di Cristo».82 Il verbo avntanaplhrw/ è composto dal prefisso avnti- con senso di reciprocità83 + avna- con forza perfettiva + plhro,w: «compiere pienamente qualcosa l’uno per l’altro», «compiere al posto di un

75 Il presente esprime azione duratura continua abituale: «gioisco sempre» (MATEOS, El aspecto, 115). DA COSTA E SILVA, «Sofrimento no Apostolado», 156 lo ritiene come duraturo e iterativo, ma a me sem- bra uno stato d’animo duraturo continuo abituale. Tutta la vita di Paolo, sia nella gioia che nella sofferen- za, rimane sempre costantemente un servizio al vangelo.

76 MONTANARI, Vocabolario, ad vocem «evn» IIAa; Cb, relazione: «per ciò che riguarda le tribolazioni»; BAGD, Lexicon, ad vocem «evn» 2ab; THAYER, A Greek-English Lexicon, ad vocem «evn» 8cd; e ad vocem «cai,rw» 1a; BDR, Grammatica, 219,3.

77 ROMIZI, Greco antico, ad vocem «pa,qhma»; MOULTON – HOWARD, A Grammar of New Testament Greek, II, 354; THAYER, A Greek-English Lexicon, ad vocem «pa,qhma».

78 SMYTH, Greek Grammar, 841,2; MOULTON – HOWARD, A Grammar of New Testament Greek, II, 354; ROMIZI, Greco antico, ad vocem «pa,qhma».

79 MONTANARI, Vocabolario, ad vocem «u`pe,r» IIBa; BAGD, Lexicon, ad vocem «u`pe,r» A1ab; THAYER, A Greek-English Lexicon, ad vocem «u`pe,r» I,2; BDR, Grammatica, 231,1.

80 Cf. l’analisi dettagliata di LIGHTFOOT, Saint Paul’s Epistles to the Colossians, 163-164, che cerca, sia in chiave filologica che teologica, di chiarire il senso della frase; infine, anche di valutare con moderazione sia la posizione protestante che «cattolica» («Romanist commentators»).

81 SMYTH, Greek Grammar, 2874; BDR, Grammatica, 442,2b; ZERWICK, Graecitas, 455bg; BAGD, Lexi- con, ad vocem «kai,» 1bz; THAYER, A Greek-English Lexicon, ad vocem «kai,» 2d-e.

82 Molto bene Teodoro di Mopsuestia: «{Wste h;domai kai. pa,scwn u`pe,r u`mw/n (Sicché mi rallegro di patire per voi)».

83 SMYTH, Greek Grammar, 1683,2; MOULTON – HOWARD, A Grammar of New Testament Greek, II, 297; ROMIZI, Greco antico, ad vocem «antanaplhro,w».

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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altro» o «compiere a mia volta»,84 «supplire».85 In base a quest’analisi, mi sem- bra che l’apostolo affermi che Cristo ha già sofferto le sue sofferenze in favore della Chiesa e ora anche Paolo «a sua volta porta a compimento» nella sua carne le sofferenze che Cristo ha subito. Anzi, avntanaplhrw/ è da prendersi come un pre- sente di conato: «a mia volta voglio/mi sforzo di portare a pieno compimento ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne».86 Unito a Cristo, l’aposto- lo completa nel suo corpo87 «ciò che manca»88 alle sofferenze di Cristo a favore della Chiesa. Il termine u`sterh,mata è ben determinato dall’articolo individuante89 e dal genitivo di separazione dipendente da un termine indicante mancanza di qualcosa.90 Allo stesso modo, anche il genitivo tw/n qli,yewn è precisato dall’arti- colo determinativo individuante e dal genitivo tou/ Cristou/, che oscilla tra il geni- tivo possessivo: «le sofferenze proprie del Cristo»91 e il genitivo soggettivo: «le sofferenze che il Cristo ha esperimentato».92 Tutta questa insistenza sulla deter-

84 È il senso preferito da LIGHTFOOT, Saint Paul’s Epistles to the Colossians, 163; ZERWICK, Analysis, 449: «vicissim, ex mea parte suppleo»; DACQUINO, «Il valore della sofferenza cristiana, Col 1,24», 242. LE GRELLE, «La plénitude de la parole dans la pauvreté de la chaire», 242-243, gli dà il senso di «controbilan- ciare, compensare», facendo leva sul testo di DEMOSTENE, Sur les Symmories 17. Ma sia il grammatico Apol- lonio Discolo (II sec. d.C.) sia i padri hanno insistito sul senso etimologico del vocabolo e l’hanno inteso proprio nel senso di «compiere al posto di un altro», «supplire».

85 BAGD, Lexicon, ad vocem «avntanaplhro,w»; THAYER, A Greek-English Lexicon, ad vocem «avnta- naplhro,w»; MOULTON – HOWARD, A Grammar of New Testament Greek, II, 296-297; G. DELLING, «avntanaplh- ro,w», in GLNT X, 699-700. Tale interpretazione è divenuta comune tra gli autori, ma essa risale già al Cri- sostomo e in maniera esplicita a FOZIO, Ad Amphilochium I: PG 101,709.

86 MATEOS, El aspecto, 336. DA COSTA E SILVA, «Sofrimento no Apostolado», 159 lo ritiene un «pre- sente incoativo», ma mi sembra che abbia poco senso in Col 1,24.

87 Secondo LE GRELLE, «La plénitude de la parole dans la pauvreté de la chaire», 233, e ALETTI, Colossiens, 1,15-20, Roma 1981, 135, il sintagma preposizionale evn th/| sarki, mou va unito non al suo verbo reggente avntanaplhrw/ come è normale nella sintassi greca (SMYTH, Greek Grammar, 1639; L. CIGNELLI, «La grecità biblica», in LA 35[1985], 211; L. TUSA MASSARO, Sintassi del greco antico e tradizione grammaticale, Palermo 1995, 95: «Il verbo è chiave della frase» e «nodo di relazioni»), ma al sostantivo ta. u`sterh,mata: «Ce qui manque aux tribulations du Christ en ma chair». Capisco il loro tentativo di semplificare il senso della frase, ma tutta la tradizione dei padri, greci e latini, sembra unire i due sintagmi preposizionali evn th/| sarki, mou e u`pe.r tou/ sw,matoj auvtou/ con avntanaplhrw/. Per il resto, la spiegazione di Aletti non differisce da quella degli altri esegeti; mentre gli esempi addotti da Le Grelle, Rm 15,30 ed Ef 2,15 non mi sembrano molto pro- banti: Rm 15,30 è un parlare brachilogico che sottintende qualche verbo: «lottate con me nelle preghiere (che elevate) a Dio per me»; di Ef 2,15 dubita persino l’autore, perché di fatto, senza alcuna contraddizio- ne, il complemento «con i suoi precetti» va unito proprio al participio «sopprimendo».

88 Il sostantivo denominativo verbale to. u`ste,rhma è composto dalla radice u`ster- (da u`stere,w median- te l’aggettivo u`steroj: «mancante»; cf. MOULTON – HOWARD, A Grammar of New Testament Greek, II, 354) + il suffisso in -ma dei nomi neutri indicanti effetto (SMYTH, Greek Grammar, 841,2; MOULTON – HOWARD, A Grammar of New Testament Greek, II, 354; ROMIZI, Greco antico, ad vocem «u`ste,rhma»): «ciò che manca», «mancanza», «bisogno». Nel senso di «bisogno» lo prende LE GRELLE, «La plénitude de la parole dans la pauvreté de la chaire», 238-240, anche se l’autore stesso deve precisare il suo pensiero, in quanto «il bisogno di tribolazioni» in francese, come anche in italiano, significa tutt’altra cosa: il desiderio di essere angosciato. Ma altrettanto ambigua mi sembra «la pauvreté des angoisses du Christ»; in ogni caso, non mi sembra che ta. u`sterh,mata tw/n qli,yewn tou/ Cristou/ possa rendersi con «la pauvreté angoissée du Christ» (cf. p. 241).

89 SMYTH, Greek Grammar, 1119; L. CIGNELLI – G.C. BOTTINI, «L’articolo nel greco biblico», in LA 41(1991), 161-162, § 3.

vus rei.

90 SMYTH, Greek Grammar, 1396; BDR, Grammatica, 180,5,6. ZERWICK, Analysis, 449, parla di geniti-

91 SMYTH, Greek Grammar, 1297; BDR, Grammatica, 162,7. 92 SMYTH, Greek Grammar, 1328 e 1330; BDR, Grammatica, 163.

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A.M. BUSCEMI – Le sofferenze di Paolo a favore della Chiesa

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minazione dei vari elementi fa dell’espressione ta. u`sterh,mata tw/n qli,yewn tou/ Cristou/ un concetto unico e compatto, tanto che tutti i sintagmi preposizionali che vengono dopo vanno tutti riferiti al verbo avntanaplhrw/. Ma che cosa manca alle tribolazioni del Cristo? Da un punto di vista storico-salvifico, non manca nulla, come risulta da quanto Paolo afferma in Rm 5,15-19:

Se infatti per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondan- za su tutti gli uomini. [...] Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita.

A mio parere, il problema è più psicologico che reale, in quanto sembra scattare nella mente di qualsiasi esegeta, del passato e del presente, l’applicazio- ne automatica della sineddoche ex parte totum: «le tribolazioni di Cristo» equi- valgono al suo «sacrificio salvifico redentore». La cosa è possibile, ma di fatto Paolo non sembra qui usare tale figura retorica, anche perché, come si è visto, andrebbe contro le sue convinzioni. Se, invece, l’espressione «le tribolazioni di Cristo» mantiene il suo senso letterale, allora non c’è problema, in quanto il Cri- sto nella sua passione non ha sofferto tutte le tribolazioni che gli uomini posso- no soffrire. Così, Paolo può realmente affermare che nella sua vita apostolica e missionaria ha sofferto molte tribolazioni, che, unite a quelle di Cristo, sono dive- nute un vantaggio per tutta la Chiesa in generale e per la comunità dei credenti di Colosse. In altre parole, Paolo non insiste tanto su «ciò che manca alle tribo- lazioni di Cristo», ma sulla sua reale e decisa partecipazione «alle tribolazioni di Cristo [cf. Gal 2,19-20; Rm 8,17] in favore del suo corpo, che è la Chiesa», tribo- lazioni che egli sopporta proprio annunciando a tutto il mondo la salvezza ope- rata da Cristo.93 VEn th/| sarki, mou esprime il complemento di stato in luogo: «nella mia carne»;94 e il termine «carne» assume qui il senso di: «nella mia esistenza umana/nella mia dimensione umana», e per sineddoche ex parte totum: «in me stesso».95 ~Upe.r tou/ sw,matoj è un complemento di vantaggio: «per, nell’interesse di, a vantaggio del corpo».96 Il termine sw/ma, a motivo dell’epesegesi seguente e del genitivo possessivo auvtou/,97 non è preso in senso proprio, ma in senso metafo-

93 In tal senso, mi sembra che si esprima TEODORO DI MOPSUESTIA, In Epistolam Pauli ad Colossenses I, 24-25: PG 66,929: ~Upe.r dh. tou,twn pa,scwà periiw.n kai. khru,ttwn a;pasi ta. katorqwqe,ntaà w[ste u`ma/j pisteu,santa th/| diaqe,sei th/j yuch/j th.n pro.j auvto.n oivkei,wsin de,xasqai tou,twn ga.r evgw. kate,sthn dia,konoj («Pro- prio per queste cose io soffro, viaggiando e predicando a tutti le cose che sono state realizzate, perché voi, dopo aver creduto, riceviate con buona disposizione d’animo la familiarità con lui. Di queste cose, infatti, io sono/mi sono posto come diacono»).

94 SMYTH, Greek Grammar, 1687a; BAGD, Lexicon, ad vocem «evn» I,1; THAYER, A Greek-English Lexicon, ad vocem «evn» I,1.

95 LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, §§ 572-573,1. A causa di ciò, mi sembra difficile che si possa parlare di un’antitesi tra «la carne di Paolo» e «il corpo di Cristo», come fa LIGHTFOOT, Saint Paul’s Epistles to the Colossians, 165.

96 SMYTH, Greek Grammar, 1697,1b; BDR, Grammatica, 207,3,5; MONTANARI, Vocabolario, ad vocem «u`pe,r» IIBa; BAGD, Lexicon, ad vocem «u`pe,r» 1a; THAYER, A Greek-English Lexicon, ad vocem «u`pe,r» I, 2.

97 SMYTH, Greek Grammar, 1297; BDR, Grammatica, 162,7.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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rico-collettivo indicante «un gruppo» sociale o religioso:98 «a favore del suo corpo, che è la Chiesa». Il termine h` evkklhsi,a, in Col 1,24, non indica solo la comunità di Colosse, ma la comunità di tutti i credenti in Cristo; quindi la Chie- sa universale.99

3. CONCLUSIONI

La conclusione esegetica più ovvia di Col 1,24 mi sembra quella elaborata da Teodoro di Mopsuestia in base al contesto, tutto centrato sulla funzione mini- steriale di Paolo, il suo essere «diacono del vangelo» a favore della Chiesa. Il con- testo, soprattutto quello immediato di Col 1,24-29, vi insiste molto e anzi, in chia- ve retorica, concepisce «le sofferenze» che Paolo sopporta a favore della Chiesa come uno dei signa indubitata o a;luta shmei/a del suo essere «apostolo di Cristo». Tali sofferenze sono inerenti alla missione che gli è stata affidata da Dio: «annun- ciare il vangelo», cioè Gesù Cristo. Proprio per questo, egli porta sul suo corpo i segni della passione del suo Signore, «le stigmate di Gesù» (Gal 6,17). Forse, nel suo contesto, questa espressione può avere anche il senso di «le stigmate che porto nel mio corpo a motivo della predicazione di Gesù». Ma Paolo ha anche una visione ben più profonda della sua «missione apostolica»:

Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non dispe- rati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manife- sti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale (2Cor 4,8-11).

In questo testo, il «morire a causa di Gesù» si coniuga perfettamente con il «portare nel nostro corpo la morte di Gesù». È il valore misto del preverbio avnti-, che a mio parere non bisogna leggere solo con il senso di «sostituzione», ma anche e soprattutto con quello di «reciprocità» tra l’azione apostolica di Paolo a favore della Chiesa e l’azione sempre continua di Cristo all’interno della Chiesa. È Cristo che continua a operare per mezzo dei suoi apostoli e missionari, e la sua sofferenza continua a operare in essi.

D’altra parte, tale soluzione esegetica non si oppone affatto a quella «sosti- tutiva» del Crisostomo e di Fozio: gli apostoli per Paolo sono realmente «gli ambasciatori di Cristo» e portano in suo nome, per il mondo intero, «la parola della riconciliazione». Essi rappresentano Cristo e rendono visibile la sua azione continua nella Chiesa. Cristo, nella persona dei suoi ministri, continua ad ammaestrare, a guidare e a soffrire per la sua Chiesa. Ma ciò avviene soprattut- to a motivo di un’altra grande intuizione di Paolo, messa bene in rilievo da Ago- stino citando il testo di Gal 2,19b-20: «Mi lascio crocifiggere insieme con Cristo.

98 BAGD, Lexicon, ad vocem «sw/ma» 5; THAYER, A Greek-English Lexicon, ad vocem «sw/ma» 3. 99 Cf. anche ALETTI, Colossiens, 136-137.

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A.M. BUSCEMI – Le sofferenze di Paolo a favore della Chiesa

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E non vivo più io, ma vive in me Cristo. Ciò che, poi, vivo ora nella carne, (lo) vivo nella fede, quella del Figlio di Dio, che mi ha amato e che ha consegnato se stesso per me».100 La morte di Cristo, sperimentata dal cristiano nel battesimo, continua a operare nella vita del cristiano e di ciascun apostolo in particolare, in modo da essere sempre sorgente di nuova vita. «Non vivo più io, vive in me Cri- sto»: l’enfasi cade su Cristo, sulla sua presenza nella vita intima del cristiano. Cri- sto è il nuovo soggetto agente dell’essere del cristiano, del suo agire, del suo vive- re e del suo soffrire (cf. anche Fil 1,21). Come dice bene Giovanni Crisostomo: il cristiano «non fa più nulla che non lo vuole Cristo, perché egli appartiene a Cri- sto, si è rivestito di Cristo e divenuto “uno in Cristo”».101 Tale immedesimazione non annulla l’esistenza del cristiano, ma l’immerge in una dimensione più profonda dell’essere e del vivere. L’amore non abolisce la distinzione delle per- sone, ma le stabilisce in una unità profonda e misteriosa. Per questo, l’apostolo può ancora affermare: «L’amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti [...]. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro» (2Cor 5,14-15).

100 Per questa traduzione di Gal 2,19b-20 cf. A.M. BUSCEMI, La Lettera ai Galati. Commentario ese- getico (SBF Analecta 63), Jerusalem 2004, 221-222.

101 GIOVANNI CRISOSTOMO, In Epistolam ad Galatas Commentarius: PG 61,645.

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L’uso del Salmo 109(110) nella Lettera agli Ebrei

ALBERT VANHOYE

Nella Lettera agli Ebrei, l’uso del Sal 109(110) è di somma importanza, specialmente l’uso del secondo oracolo, contenuto nel v. 4:

Signore giurò1 e non si pentirà: Tu sei sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedek.

Su questo oracolo è fondata la cristologia sacerdotale dell’autore. Il primo oracolo, però, contenuto nel primo versetto del salmo, non manca d’importanza; anzi, esso serve di base all’applicazione del secondo oracolo alla persona di Cri- sto. Recita:

Disse il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché io non abbia messo i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi.

Vale quindi la pena di studiare i rapporti, nella Lettera agli Ebrei, tra l’uso di questi due oracoli. Sono lieto di offrire questo studio in omaggio al chiarissi- mo prof. Cesare Casale Marcheselli, al quale, tanti anni fa, ho insegnato l’esege- si della Lettera agli Ebrei.

Se si esamina l’uso del Sal 109(110) nel Nuovo Testamento, si osserva una grande differenza tra l’uso del primo oracolo e quello del secondo. Il primo ora- colo viene citato in parecchi scritti: vangeli sinottici, Atti degli apostoli, Prima ai Corinzi, Lettera agli Ebrei; inoltre, ci sono accenni a questo oracolo in altri brani dei sinottici e della Lettera agli Ebrei, nonché nelle Lettere ai Romani, agli Efe- sini e ai Colossesi.2 Il secondo oracolo, invece, viene citato o accennato unica- mente nella Lettera agli Ebrei, ma con grande insistenza.3

Queste costatazioni inducono a pensare che l’autore della Lettera agli Ebrei abbia fatto una scoperta, che nessuno aveva fatto prima di lui: ha scoper- to, cioè, che il Sal 109(110) conteneva un secondo oracolo, il quale era più solen- ne del primo, giacché era appoggiato da un giuramento divino. Questo secondo oracolo andava evidentemente applicato allo stesso personaggio del primo.

1 «Signore» senza articolo, usato quale nome proprio per tradurre il tetragramma sacro YHWH.

2 Citazioni: Mt 22,44; Mc 12,36; Lc 20,42-43; At 2,34-35; 1Cor 15,15; Eb 1,13. Accenni: Mt 26,64; Mc 14,62; 16,19; Lc 22,69; Rm 8,34; Ef 1,20; Col 3,1; Eb 1,3; 10,12-13; 12,2.

3 Citazioni: Eb 5,6; 7,17.21. Accenni: Eb 5,10; 6,20; 7,11.15.24.28.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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Nel loro contesto primitivo, questi due oracoli si applicavano al re del popolo eletto. Sono oracoli d’intronizzazione reale. Il primo oracolo corrisponde a quanto dice Davide nel suo ultimo discorso a proposito di Salomone: «Il Signo- re [...] ha scelto il mio figlio Salomone per farlo sedere sul trono del regno del Signore su Israele» (1Cr 28,5). I re successori di Davide sedevano dunque alla destra di Dio, nel senso che erano i detentori sulla terra del potere regale di Dio. D’altra parte detenevano ugualmente una specie di dignità sacerdotale, per il fatto che il tempio di Gerusalemme non era stato costruito dal successore di Aronne, ma dal successore di Davide. Il re Davide aveva «offerto olocausti e sacrifici di comunione davanti al Signore» e aveva «benedetto il popolo nel nome del Signore» (2Sam 6,17-18). Similmente, il giorno della dedicazione del tempio, Salomone aveva «immolato al Signore in sacrificio di comunione» un gran numero di animali (1Re 8,63) e aveva «benedetto tutta l’assemblea di Israe- le» (1Re 8,14). Il secondo oracolo del Sal 109(110) rende conto di queste attività sacerdotali che il successore di Davide poteva svolgere senza appartenere alla tribù sacerdotale. Ne rende conto per mezzo di un richiamo a un sacerdozio non levitico, quello del re Melchisedek, ricordato in un’antichissima tradizione (Gen 14,18-20).

Dopo l’esilio, quando scomparve la dinastia di Davide, un’interpretazione messianica del Sal 109(110) s’impose. Veniva ormai aspettato il figlio di Davide per eccellenza, il Messia, il Cristo.

La catechesi della Chiesa primitiva fissò la sua attenzione sul primo ora- colo del salmo e ne riconobbe l’adempimento perfetto nel mistero pasquale di Gesù, un adempimento che superava completamente l’interpretazione ordina- ria, giacché non si trattava più di una sessione terrestre, ma di una sessione cele- ste alla destra di Dio.

La base di questa convinzione si trova nella tradizione evangelica, più pre- cisamente nelle parole dello stesso Gesù. Infatti, è stato Gesù stesso ad attirare l’attenzione sull’interpretazione messianica dell’oracolo, quando domandò ai farisei: «Cosa vi sembra del messia? Di chi è figlio?». Gli dicono: «Di Davide». Ed egli a loro: «Come mai allora Davide, sotto ispirazione, lo chiama Signore?». Gesù cita allora tutto il primo versetto del salmo (Mt 22,42-45 e par.).

In un’altra circostanza, Gesù non citò l’oracolo, ma vi fece chiaramente accenno. Le sue parole hanno un’importanza estrema di rivelazione trascenden- te (cf. Mt 26,63-66 e par.). Durante il processo di Gesù davanti al sinedrio, il sommo sacerdote si rivolse a lui con questa domanda quanto mai solenne: «Ti scongiuro per il Dio vivente perché ci dica se tu sei il Messia, il Figlio di Dio». La risposta di Gesù mise insieme due accenni a testi biblici: un accenno al primo oracolo del Sal 109(110) sulla sessione del re alla destra di Dio e un accenno alla visione di Daniele di un Figlio d’uomo che viene sulle nubi del cielo (Dn 7,13). La fusione di questi due testi trasforma radicalmente l’interpretazione del salmo, perché dimostra che la sessione alla destra di Dio non si situa più al livello ter- restre, ma al livello propriamente divino e rivela quindi la divinità di Cristo, Figlio di Dio in un senso trascendente. La reazione del sommo sacerdote con-

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A. VANHOYE – L’uso del Salmo 109(110) nella Lettera agli Ebrei

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ferma questa interpretazione: «Il sommo sacerdote si stracciò le vesti dicendo: Ha bestemmiato». Il verdetto che segue: «È reo di morte» (Mt 26,65-66) costi- tuisce un’altra conferma, decisiva.

La risurrezione di Gesù e la sua ascensione al cielo portarono a compi- mento la sua predizione. Ne risultò che l’apostolo Pietro poté citare il primo ora- colo del salmo, applicandolo a Gesù, nel suo discorso del giorno di Pentecoste (At 2,35-36). L’affermazione della sessione di Gesù alla destra di Dio nel cielo diventò poi un elemento tradizionale della catechesi cristiana, il quale fu intro- dotto nei simboli di fede, tanto il simbolo degli apostoli quanto quello di Nicea- Costantinopoli.

Il secondo oracolo, invece, non tratteneva l’attenzione. Accade spesso nel Nuovo Testamento che una frase dell’Antico Testamento sia applicata isolata- mente al mistero di Cristo. Ad esempio, viene applicato a Cristo il v. 8 del Sal 44(45) che dice: «Hai amato la giustizia e odiato l’iniquità» (cf. Eb 1,9), ma non gli vengono mai applicati i vv. 4-6 dello stesso salmo, i quali invitano il re a pren- dere la spada e a colpire i nemici. Non vanno d’accordo, infatti, con la parola di Gesù a Pietro, quando questi lo voleva difendere con la spada: «Rimetti la tua spada nel fodero, perché tutti quelli che avranno preso la spada, di spada peri- ranno» (Mt 26,52). A prima vista, il secondo oracolo del Sal 109(110), il quale dice: «Tu sei sacerdote», non si applicava a Gesù, giacché tutti sapevano che egli non era sacerdote e non aveva mai preteso di esserlo. L’autore della Lettera agli Ebrei, però, non si lasciò fermare da questa prima impressione ma, esaminando le cose più da vicino, osservò che l’oracolo non parlava del sacerdozio levitico, parlava invece di un’altra specie di sacerdozio, «secondo l’ordine di Melchisedek [...] e non secondo l’ordine di Aronne» (Eb 7,11). Era quindi il caso di ricono- scere che questo oracolo quanto mai solenne si applicava al mistero di Cristo.

Avendo fatto questa scoperta, l’autore procedette con grande abilità per far accettare dai suoi uditori una cristologia sacerdotale. Egli si appoggiò accu- ratamente sulla loro convinzione dell’applicazione a Cristo del primo oracolo del salmo (Sal 109[110],1).

Sin dall’esordio della sua omelia, l’autore fece quindi accenno a quell’ora- colo, dicendo che il «Figlio» «sedette alla destra della maestà in alto» (Eb 1,3). Questa affermazione corrisponde al contenuto della risposta di Gesù al sommo sacerdote, perché precisa che la sessione alla destra di Dio non ebbe luogo sulla terra, ma «in alto». Più avanti, l’autore sarà più esplicito e dirà: «nei cieli» (8,1; cf. 9,24).

D’altra parte, l’autore mette questa sessione celeste in relazione con un’o- pera precedente di «purificazione dei peccati»; egli stabilisce così un primo lega- me tra la sessione di Cristo alla destra di Dio e il tema del sacerdozio. La puri- ficazione dei peccati, infatti, è un compito sacerdotale. Lo dimostra in partico- lare la conclusione della grande espiazione annuale, che era effettuata dal sommo sacerdote. Recita: «In quel giorno si compirà il rito espiatorio per voi, al fine di purificarvi da tutti i vostri peccati. Sarete purificati davanti al Signore» (Lv 16,30).

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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Le ultime parole dell’esordio (Eb 1,4) annunciano che la prima parte del- l’omelia (1,5–2,18) sarà un’esposizione sul «nome» che il Figlio «ha ereditato» in virtù del suo mistero pasquale. In altri termini, questa parte sarà un’esposizione di cristologia tradizionale. Effettivamente, l’autore vi adopera testi dell’Antico Testamento per spiegare che Cristo è stato glorificato come Figlio di Dio e Signore (1,5-14), dopo aver sofferto la passione come «figlio d’uomo» e fratello degli uomini (2,5-18). Per la spiegazione della glorificazione di Cristo, l’ultimo testo adoperato dall’autore non è altro che l’oracolo iniziale del Sal 109(110):

Disse il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché io non abbia messo i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi (1,13).

La sua posizione finale mette questo testo in particolare rilievo.

Nella spiegazione invece della passione di Cristo, un’espressione prepara discretamente il tema del sacerdozio. In una frase solenne, l’autore dichiara che «conveniva» a Dio «rendere perfetto per mezzo di patimenti l’iniziatore della salvezza» (2,10). Per i lettori della LXX, il verbo teleioun, «rendere perfetto», aveva una chiara connotazione sacerdotale, perché nel Pentateuco greco serviva esclusivamente a designare la consacrazione sacerdotale del sommo sacerdote.4

In realtà non è soltanto questo dettaglio, ma è tutta la prima parte dell’o- melia a essere orientata verso l’affermazione del sacerdozio di Cristo. Essa dimo- stra, infatti, che Cristo è nel contempo il Figlio di Dio, intimamente unito al Padre nella gloria (1,5-14), e il fratello degli uomini, intimamente unito a essi per mezzo delle sue sofferenze (2,5-16). Cristo si trova quindi in una perfetta situa- zione di mediatore tra Dio e gli uomini, la quale è una situazione sacerdotale. L’autore, infatti, concepisce chiaramente il sacerdozio come l’esercizio di una mediazione tra Dio e gli uomini (cf. 5,1-4). Egli darà tre volte a Cristo il titolo di «mediatore» (8,6; 9,15; 12,24). In questo egli si differenzia dalla prospettiva del- l’Antico Testamento, che vedeva anzitutto nel sacerdote l’uomo del culto reso a Dio (cf. Es 28,1; 30,30) e non gli applicava mai il titolo di «mediatore».

Costatiamo quindi che il modo in cui l’autore ha presentato la cristologia tradizionale preparava egregiamente l’esposizione della cristologia sacerdotale. Nella conclusione di questa prima parte dell’omelia, non c’è dunque da stupirsi che il titolo di «sommo sacerdote» faccia la sua comparsa e sia applicato a Cri- sto (2,17). Questo titolo annunzia la seconda parte dell’omelia, la quale spie- gherà le due qualità fondamentali del sacerdote, indispensabili per l’esercizio della mediazione: essere «degno di fede per la relazione con Dio» e «misericor- dioso» nella relazione con la miseria umana (2,17).

Nella prima sezione (3,1–4,14) di questa seconda parte (3,1–5,10) non tro- viamo nessun accenno al Sal 109(110). Nella seconda sezione, invece (4,15–5,10), viene citato esplicitamente l’oracolo sacerdotale (5,6). Esso vi svolge una fun-

4 Cf. Es 29,9.29.33.35; Lv 4,5; 8,33; 16,32; 21,10; Nm 3,3. Nella Lettera agli Ebrei questa connotazio- ne diventa sempre più chiara (cf. 5,9; 7,28).

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A. VANHOYE – L’uso del Salmo 109(110) nella Lettera agli Ebrei

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zione fondamentale, la quale, però, non viene facilmente riconosciuta, perché l’o- racolo è introdotto in un modo non tanto chiaro.

Il punto di partenza è un’affermazione dell’autore riguardo a «ogni sommo sacerdote», sulla necessità dell’umiltà. Il sacerdozio non può essere preso da un uomo per mettersi al di sopra degli altri. Tale era stato l’atteggiamento di Core e dei suoi complici nell’episodio lungamente raccontato nel libro dei Numeri (Nm 16). Dio era intervenuto e aveva sterminato gli ambiziosi (Nm 16,32.35). Il sacer- dozio, invece, è un dono che dipende completamente dall’iniziativa di Dio e che va, quindi, ricevuto con umiltà. L’autore della Lettera agli Ebrei dichiara dunque che «uno non prende per se stesso quest’onore, ma viene nominato da Dio, come lo fu Aronne». L’autore poi prosegue: «Così anche Cristo non glorificò se stesso per diventare sommo sacerdote, ma colui che gli disse: “Figlio mio sei tu; io oggi ti ho generato”», come in un altro passo dice: «Tu, sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedek». Si vede subito che questa lunga frase non è completa: è ellittica; nella seconda proposizione, quella che comincia con un «ma» di con- trapposizione, manca il verbo principale. Lo si supplisce talvolta in modo sba- gliato. Così nella prima edizione della traduzione approvata dalla Conferenza episcopale italiana leggiamo: «Cristo non si attribuì la gloria del sommo sacer- dote, ma gliela conferì colui che gli disse: Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato». Completata così, la frase dà l’impressione che Dio abbia conferito il sacerdozio a Cristo per mezzo dell’oracolo del Sal 2; la citazione dell’oracolo del Sal 109(110) appare allora superflua o almeno secondaria.

Ne risultano commenti gravemente erronei, che non corrispondono affat- to all’insegnamento della Lettera agli Ebrei. J. Bonsirven, ad esempio, afferma: «Il testo che porta il peso principale della dimostrazione è il primo» (cioè Sal 2,7); «svela la radice metafisica del sacerdozio di Cristo, il suo fondamento eter- no [...]. La persona unica di Cristo sente costantemente la parola eterna della generazione divina: tu sei mio Figlio. Questo decreto divino lo costituisce nel contempo mediatore tra Dio e gli uomini».5

Queste riflessioni metafisiche si trovano in contraddizione con la dottrina della Lettera agli Ebrei, secondo la quale non è vero che a Cristo bastasse l’es- sere Figlio di Dio per essere mediatore tra Dio e gli uomini; era inoltre necessa- rio l’essere «reso perfetto per mezzo di sofferenze» (2,10). Nella sua eternità, il Figlio di Dio non era sommo sacerdote degli uomini.

Un altro esegeta, C. Spicq, commentatore autorevole della Lettera agli Ebrei, prende una posizione più sfumata, ma non ancora soddisfacente. Non attribuisce, come J. Bonsirven, il sacerdozio al Figlio di Dio nella sua eternità, ma glielo attribuisce in virtù dell’incarnazione: «Per mezzo della sua unione alla natura umana, il Figlio è quindi costituito Sommo Sacerdote, mediatore perfetto

5 J. BONSIRVEN, Épître aux Hébreux (Verbum salutis XII), Beauchesne, Paris 1943, 267. Nello stesso senso si pronuncia N. Casalini: «La prima [citazione] presa da LXX Sal 2,7 serve a indicare che Dio è colui che ha conferito al Cristo il sommo sacerdozio» (N. CASALINI, Agli Ebrei, Franciscan Printing Press, Jerusa- lem 1992, 166).

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tra Dio e gli uomini [...]. È il momento dell’incarnazione quello in cui il Padre ha fatto questa duplice dichiarazione al suo Figlio sacerdote».6

In realtà, non è esatto che, secondo la Lettera agli Ebrei, Cristo sia stato mediatore e sacerdote sin dal primo momento dell’incarnazione. Lo è divenuto, invece, faticosamente, per mezzo del suo sacrificio, che è stato per lui un sacrifi- cio di consacrazione sacerdotale. Il sommo sacerdote che abbiamo non è sempli- cemente il Figlio incarnato, ma il «Figlio reso perfetto» (7,28), il che vuol dire il Figlio consacrato sacerdote per mezzo del suo sacrificio.

Un’analisi precisa di Eb 5,5-6 rivela che «a portare il peso principale della dimostrazione» del sacerdozio di Cristo non è «il primo testo» (cioè Sal 2,7), ma il testo del Sal 109(110). Infatti, grammaticalmente, le due citazioni non svolgo- no la stessa funzione. La prima serve a designare il soggetto della frase, che è «colui che disse» a Cristo queste parole: «Figlio mio sei tu». La seconda citazio- ne, invece, quella di Sal 109(110),4, viene introdotta dalla congiunzione kathōs, la quale non ha qui semplicemente un senso comparativo, come viene spesso inter- pretato, ma un senso dimostrativo; introduce, cioè, una prova di Scrittura.7

Una prova di che cosa? Essendo ellittico, il testo non lo dice esplicitamen- te, ma lo suggerisce soltanto. È possibile completarlo in diversi modi. Un modo consiste nel prendere come base il parallelismo tra Cristo (5,5-6) e Aronne (5,4). Allora si supplirà il verbo «nominare» (in 5,4 infatti non si tratta di «vocazione» ma di «nomina»). Si dirà quindi che Dio nominò Cristo sacerdote secondo l’ora- colo di Sal 109(110),4. Un altro modo di completare il testo prende come base l’antitesi di 5,5: «Cristo non glorificò se stesso, ma [Dio lo glorificò]».

La cosa importante nei due casi è tener conto della differenza di funzione grammaticale delle due citazioni. Se ne tiene conto, se si mette il verbo supplito non prima della citazione di Sal 2,7, ma prima di quella di Sal 109(110),4. La prima edizione della Bibbia italiana CEI, che ho citato più sopra, metteva il verbo supplito prima del testo di Sal 2,7, il che suggeriva una interpretazione sba- gliata; la seconda edizione ha corretto l’errore. Recita:

Nello stesso modo, Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse:

Figlio mio sei tu, io oggi ti ho generato, [gliela conferì] come è detto in un altro passo: Tu [sei] sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisek.

Questa posizione del verbo supplito ha come effetto importante quello di dare alla congiunzione kathōs, «come», il suo pieno valore, che è quello d’intro- durre una prova di Scrittura. Nell’altra posizione invece questa congiunzione sembra introdurre una comparativa, che mette semplicemente la seconda cita-

6 C. SPICQ, L’Épître aux Hébreux (Coll. Études bibliques), Gabalda, Paris 1953, II, 111.

7 Questa osservazione è fatta da H.W. ATTRIDGE, Hebrews (Hermeneia), Fortress Press, Philadelphia 1989, 145-146.

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zione in rapporto con la prima e suggerisce una specie di sinonimia tra «tu sei sacerdote» e «Figlio mio sei tu». In realtà, le due affermazioni hanno contenuti nettamente differenti. Secondo E. Grässer, la citazione di Sal 2,7 «dimostra la gloria reale di Gesù», mentre quella di Sal 109,4 dimostra «la sua gloria sacerdo- tale».8 Conviene precisare che secondo Eb 1,5-14 la gloria reale di Cristo è una gloria divina.

Il contesto successivo conferma l’importanza prioritaria della citazione di Sal 109(110),4. Infatti, la conclusione del passo non riprende Sal 2,7, ma ripren- de solennemente Sal 109(110),4 dicendo che Cristo è stato «proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek» (5,10).

D’altra parte, bisogna notare che questa conclusione della seconda parte dell’omelia (3,1–5,10) funge nel contempo da annuncio dei temi della terza parte (5,11–10,39). Tre temi vengono annunciati: per mezzo della sua passione, Cristo è stato

(1) reso perfetto, (2) divenne causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono, (3) essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchise- dek.

Come di solito, l’autore tratterà per primo il tema che ha annunziato per ultimo. Egli riprende questo terzo annunzio alla fine di un preambolo esortativo (5,11–6,20), dicendo che Gesù è «diventato sommo sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedek» (6,20). Così viene introdotta la prima sezione dottrina- le della terza parte. Questa sezione (7,1-28) dimostra in modo abbagliante l’im- portanza fondamentale che l’autore attribuisce all’oracolo sacerdotale del Sal 109(110).

Prima però di esaminarla, conviene analizzare brevemente i rapporti sug- geriti dall’autore tra l’oracolo di Sal 109(110),4 e quello di Sal 2,7. Abbiamo escluso un rapporto stretto di sinonimia, ma altri rapporti sono possibili, anzi evi- denti. Si nota in primo luogo un rapporto di grande somiglianza. I due oracoli appartengono l’uno e l’altro a due salmi di intronizzazione reale, capiti poi come messianici. Nell’uno e nell’altro, 1) chi parla è: «Signore», cioè YHWH; 2) «Signore» si rivolge al re-messia con il pronome «tu» e 3) gli attribuisce un tito- lo: «Figlio» o «sacerdote». La posizione delle parole non è identica nei due casi: nel caso di Sal 2,7 la prima parola è il titolo («Figlio»), mentre nel caso di Sal 109(110),4 la prima parola è il pronome («tu»). Questo produce una disposizio- ne chiastica: «Figlio, tu – tu, sacerdote», la quale rinforza il nesso tra i due testi. Il significato immediato del brano viene espresso bene da F.F. Bruce: «Lo stesso Dio che ha acclamato Gesù come suo Figlio l’ha anche acclamato come perpe- tuo Sommo Sacerdote».9

8 E. GRÄSSER, An die Hebräer (Hebr 1–6) (EKK XVII/1), Benziger Verlag, Zürich 1990, 288, nota 163.

9 F.F. BRUCE, The Epistle to the Hebrews (The New London Commentary on the NT), Marshall, Mor- gan and Scott, London 1964, 94.

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Se si vuole poi precisare i rapporti tra il titolo di «Figlio» e quello di «sacer- dote», bisogna ricorrere alla prima parte dell’omelia, dove sono chiaramente espressi. Il titolo di «sacerdote» risulta dall’unione stretta in Cristo dei due aspet- ti del suo «nome» (1,4), che sono «Figlio di Dio» (1,5) e «fratello degli uomini» (2,11-12). Cristo è Dio con Dio, uomo con gli uomini; egli è quindi perfetto mediatore, perfetto sommo sacerdote. Il suo sacerdozio non ha come base la sola filiazione divina, ma l’unione stretta, nella sua persona, della filiazione divina con la fratellanza umana. Infatti, per poter esercitare la mediazione sacerdotale, non basta avere un’ottima relazione con Dio; ci vuole nel contempo un’ottima rela- zione con l’altra parte, cioè con gli uomini.

Detto ciò, occorre riconoscere che la filiazione divina di Cristo conferisce al suo sacerdozio una perfezione insuperabile: «Quale mediatore potrà mai esse- re più gradito a Dio del suo proprio Figlio?».10 Notiamo però, in proposito, che prima del mistero pasquale la natura umana del Figlio non era ancora piena- mente filiale. Era, infatti, «una forma di schiavo» (Fil 2,7), non di Figlio, «una somiglianza di carne di peccato» (Rm 8,3). Aveva bisogno di una trasformazione radicale. Lo scopo dell’incarnazione era proprio questo. Secondo il contesto di Eb 1,5 il momento in cui Dio dice a Cristo: «Figlio mio sei tu» non è quello della sua nascita a Betlemme, ma quello della sua glorificazione pasquale. Come per- sona, certamente, Gesù a Betlemme era il Figlio di Dio e aveva diritto all’adora- zione (cf. Mt 2,2.11), ma la sua natura umana non era ancora in grado di sedere in cielo alla destra di Dio. Lo fu grazie al mistero pasquale. Perciò, in un discor- so degli Atti degli apostoli, Paolo situa alla risurrezione l’adempimento dell’ora- colo di Sal 2,7: «Figlio mio sei tu; io oggi ti ho generato» (At 13,33).

Ne consegue una somiglianza ancora più stretta tra l’oracolo di Sal 2,7 e quello di Sal 109(110),4: per la natura umana di Cristo i due oracoli si sono tro- vati pienamente adempiuti allo stesso tempo, cioè nella glorificazione di Cristo.

Torniamo adesso all’importante capitolo 7, prima sezione dottrinale della parte centrale dell’omelia. Il tema della filiazione divina di Cristo vi è presente, ma soltanto all’inizio (7,3) e alla fine (7,28). All’inizio, l’autore osserva che la descrizione di Melchisedek in Gen 14,17-20 rende questo personaggio «simile al Figlio di Dio» e ne fa quindi una prefigurazione di Cristo. Alla fine, l’autore fa notare che «la parola del giuramento», cioè l’oracolo di Sal 109(110),4, «[costi- tuisce sommo sacerdote] un Figlio reso perfetto in eterno» (7,28). Questa affer- mazione, lo si vede, unisce all’oracolo di Sal 109(110),4 un accenno all’oracolo di Sal 2,7 e ha cura di precisare che per essere costituito sommo sacerdote il Figlio ha dovuto essere «reso perfetto»; non bastava essere Figlio.

Secondo 2,10 e 5,8-9 il Figlio è stato reso perfetto «per mezzo di sofferenze».

In tutto il capitolo, l’oracolo che richiama l’attenzione è quello di Sal 109(110),4 sul sacerdozio del Messia. L’autore ne fa un commento metodico. In tutto il Nuovo Testamento non esiste un altro brano che offra un commento così

10 SPICQ, L’Épître aux Hébreux, 111.

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approfondito di un testo dell’Antico Testamento. Si può soltanto paragonare a esso il commento fatto da Paolo della frase di Gen 15,6 («Abramo credette a Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia») in Rm 4; Paolo, però, non si attiene a Gen 15,6 ma cita quasi subito un altro testo utile alla sua argomentazione, cioè Sal 31,3-2 LXX (Rm 4,6-8). Invece, l’autore della Lettera agli Ebrei si attiene all’o- racolo del salmo; da Eb 7,11 a Eb 7,28 non cita altri passi della Scrittura. Nei ver- setti precedenti (7,1-10) ne cita un altro, cioè Gen 14,17-20, e lo commenta, ma fa questo in stretta relazione con l’oracolo del salmo. Siccome l’oracolo definiva il sacerdozio del Messia per mezzo della sua relazione con l’ordine sacerdotale di Melchisedek, per capire l’oracolo era necessario andare a vedere che cosa la Bibbia ci rivela di questo personaggio. L’autore quindi riferisce i titoli dati a Mel- chisedek e le azioni che lo riguardano; osserva inoltre che, nel testo della Gene- si, Melchisedek appare «senza padre, senza madre, senza principio di giorni né fine di vita» (7,3). Questi dati servono poi al commento dell’oracolo.

Tutti i dettagli dell’oracolo vengono sfruttati. L’autore sfrutta anzitutto l’e- spressione «secondo l’ordine di Melchisedek» (7,11). Egli osserva che questa espressione significa: «non secondo l’ordine di Aronne», il che conviene per Gesù, giacché egli non apparteneva alla tribù sacerdotale, ma alla «tribù di Giuda» (7,14). L’autore poi fa notare che al rapporto di categoria (essere del- l’ordine sacerdotale di Melchisedek) si aggiunge, nel caso di Cristo, un rapporto di somiglianza (7,15) tra Gesù e Melchisedek. Gesù, infatti, è diventato sacerdo- te «per la potenza di una vita indistruttibile» (7,16); questo lo rende simile alla descrizione biblica di Melchisedek, la quale fa di lui un sacerdote che «rimane in perpetuo» (7,3). A conferma di questo, l’autore porta l’oracolo che dice di Cri- sto: «Tu sei sacerdote in eterno» (7,17).

Dopo di che, l’introduzione dell’oracolo, la quale afferma che Dio «ha giu- rato», viene sfruttata per dimostrare la superiorità del sacerdozio di Cristo su quello dei leviti, i quali «diventavano sacerdoti senza giuramento» (7,20).

Infine, l’autore torna all’espressione «sacerdote in eterno» da un nuovo punto di vista, quello dell’unicità del sacerdozio di Cristo, contrapposta alla mol- teplicità dei sommi sacerdoti antichi; quelli, a causa della morte, si succedevano l’un l’altro attraverso i secoli e quindi costituivano in fin dei conti una serie numerosa (7,23); nessuno di loro aveva un’efficacia duratura. L’efficacia del sacerdozio di Cristo è, invece, perpetua e perfetta (7,24-25).

Il commento dell’oracolo è così portato a termine. Non ci manca niente. Questo commento ha rivelato che l’oracolo dimostra pienamente la superiorità del sacerdozio di Cristo sul sacerdozio levitico.

L’autore conclude allora la sezione e prepara quella successiva (7,26-28). Abbiamo già notato che l’ultima frase unisce un accenno all’oracolo di Sal 109(110),4, chiamato «la parola del giuramento», e un accenno all’oracolo di Sal 2,7 in cui Dio dà al Messia il titolo di «Figlio». La frase precisa poi che, per poter essere costituito sommo sacerdote, il Figlio ha dovuto essere «reso perfetto» (7,28; cf. 5,8-9).

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Molto solenne, la frase iniziale della sezione successiva (8,1–9,28) dichiara che siamo giunti al «punto capitale» del discorso (8,1). Il modo in cui viene espresso questo «punto capitale» è particolarmente interessante per il nostro studio, perché mette insieme i due oracoli del Sal 109(110), l’oracolo sacerdota- le e quello reale. L’oracolo sacerdotale non è citato esplicitamente, ma è presen- te implicitamente nell’espressione «un tale sommo sacerdote». Dichiarando che «abbiamo un tale sommo sacerdote», l’autore si riferisce evidentemente al sommo sacerdote descritto nella frase precedente (7,28), il quale è il sommo sacerdote stabilito dalla «parola del giuramento», cioè dall’oracolo sacerdotale del salmo. Per definire ulteriormente questo sommo sacerdote, l’autore adopera poi l’oracolo reale del salmo: «Abbiamo un tale sommo sacerdote, il quale si è assiso alla destra del trono della Maestà nei cieli» (8,1).

Finora abbiamo costatato che l’autore si è appoggiato sulla recezione, nella Chiesa primitiva, del primo oracolo del salmo, applicato a Cristo, per far accet- tare l’applicazione a Cristo del secondo oracolo. Adesso vediamo che, per defi- nire il sacerdozio di Cristo, l’autore adopera anche il primo oracolo: Cristo non è un sommo sacerdote ordinario, ma un sommo sacerdote che siede alla destra di Dio nei cieli, il che vuol dire che, per mezzo del suo sacrificio, è entrato con la sua natura umana, «resa perfetta», nell’intimità celeste di Dio.

A dire il vero, già nel capitolo 5 un dettaglio dimostrava che l’autore si ser- viva del primo oracolo per completare il secondo. Questo dettaglio è la sostitu- zione del titolo «sommo sacerdote» a quello di semplice «sacerdote». L’oracolo sacerdotale del salmo dice: «Tu sei sacerdote»; l’autore lo cita fedelmente in Eb 5,6, ma quando lo riprende poco dopo non dice «sacerdote» (hiereus) ma «sommo sacerdote» (archiereus): «reso perfetto», Cristo è stato «proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek» (5,10). Colui che è «assi- so alla destra di Dio dei cieli» non è, infatti, un semplice «sacerdote», ma è un «sommo sacerdote».

L’importanza del primo oracolo per definire il sacerdozio di Cristo si mani- festa poi più volte. Cristo è sommo sacerdote celeste in virtù del suo sacrificio, che lo ha fatto passare dalla terra al cielo, dove siede alla destra di Dio. «Se egli fosse sulla terra», dice l’autore, «non sarebbe neppure semplice sacerdote» (8,4), perché non appartiene alla tribù sacerdotale. La lunga contrapposizione tra «il santuario» antico, che era «del mondo» (kosmikon: 9,1) – come anche il culto ivi celebrato – e il santuario non «fatto da mani d’uomo», cioè «il cielo stesso» dove è entrato Cristo (9,24), ha la sua base nell’oracolo della sessione del Cristo alla destra di Dio.

Nella sessione successiva (10,1-18), l’autore adopera esplicitamente l’ora- colo della sessione per un’altra contrapposizione significativa, quella tra i sacer- doti antichi, continuamente in piedi e indaffarati, e Cristo, ormai tranquillamen- te seduto «alla destra di Dio» (10,11-12), «aspettando che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi» (10,13); questo versetto, lo si vede, sfrutta anche, per la prima volta nella lettera, la seconda parte dell’oracolo della sessione cele- ste. Questa nuova contrapposizione mette abilmente in rilievo la differenza di

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efficacia tra il sacrificio di Cristo e i sacrifici antichi. La sessione di Cristo alla destra di Dio manifesta effettivamente la perfetta efficacia del suo «unico sacri- ficio», il quale non ha per niente bisogno di essere ripetuto, perché ha raggiunto una volta per sempre il suo scopo, mentre i sacrifici antichi dovevano essere con- tinuamente ripetuti, perché erano di una specie «che non può mai eliminare i peccati» (cf. 10,11).

Un ultimo accenno all’oracolo della sessione celeste completa la prospet- tiva, perché si trova in un’esortazione (12,1-2) ed esprime quindi le conseguenze di questa glorificazione di Cristo per la situazione dei cristiani. Essi trovano un potente incoraggiamento alla «sopportazione» (hypomonē: 12,1) delle prove della vita, se «fissano il loro sguardo su Gesù, il quale [...] sopportò (hypemei- nen) la croce, disprezzando la vergogna, e siede alla destra del trono di Dio» (12,2). Tra la croce e la sessione celeste, il contrasto è violento: la croce è vergo- gna, la sessione è gloria, ma nondimeno la relazione è quanto mai stretta; l’auto- re l’ha detto sin dall’inizio della sua omelia: è «per aver sofferto la morte» che Gesù è stato «coronato di gloria e onore» (2,9). A causa di questa stretta rela- zione, la contemplazione di Gesù «seduto alla destra del trono di Dio» è una sor- gente inesauribile di speranza e di coraggio nelle difficoltà. Perché la sessione celeste di Cristo non è stata ottenuta per mezzo di un atto esterno di culto, quali erano i «doni e sacrifici» antichi (9,9), ma per mezzo di un sacrificio personale ed esistenziale, un’offerta di obbedienza filiale e di solidarietà fraterna fino alla morte, per questa ragione, la sessione celeste di Cristo emana un forte invito a una vita generosa e a una coraggiosa speranza, autentico culto cristiano.

Con quest’ultima osservazione, finiamo di costatare l’importanza fonda- mentale, nella Lettera agli Ebrei, dei due oracoli messianici del Sal 109(110). Il più importante, evidentemente, è l’oracolo sacerdotale, che fornisce all’autore la base della sua dottrina sul sacerdozio di Cristo, la quale era, in quel tempo, una sorprendente innovazione. Citato in Eb 5,6 come prova di Scrittura (kathōs), quest’oracolo viene accennato di nuovo in 5,10 e 6,20 e poi dettagliatamente analizzato in 7,11-28. L’oracolo della sessione celeste di Cristo è ugualmente fon- damentale, ma in un modo diverso. A differenza dell’altro, era saldamente anco- rato nella catechesi primitiva, che l’applicava a Cristo. L’autore quindi se ne serve per far capire che anche l’oracolo sacerdotale si applica a Cristo. D’altra parte, egli l’adopera per completare l’oracolo sacerdotale. L’oracolo della sessio- ne celeste indica, infatti, quale gloria Cristo abbia ottenuto per mezzo del suo sacrificio, manifesta dunque la stupenda efficacia di questo sacrificio unico, offer- to nel passato «una volta per tutte» (7,27; 9,12), e rivela la potenza sempre pre- sente dell’intercessione sacerdotale di Cristo.

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Barak: testimone della fede? (Eb 11,32). Una riflessione

VINCENZO SCIPPA

L’autore della Lettera agli Ebrei nel capitolo 11, dopo una definizione ini- ziale apodittica della fede (v. 1: Estin de elpizomenôn ypostasis, pragmaton elen- chos ou blepomenôn), per supporto al suo argomento si dilunga con alcune esemplificazioni, adducendo dalla storia biblica diversi tipi di fede, scelti tra i personaggi maschili e anche femminili,1 chiamati comunemente «testimoni», così come egli stesso si esprime all’inizio del capitolo seguente: nefos martirôn («gran nugolo di testimoni»: 12,1).2

Nei vv. 32-34 tra i personaggi, tipi e testimoni di fede della storia biblica, sono ricordati espressamente sei, di cui quattro menzionati nel libro dei Giudici: Gedeone, Barak,3 Sansone, Iefte. Questi non sono elencati in ordine cronologi- co, come del resto gli altri due: Davide e Samuele, citati nei libri di Samuele e Re. Preso atto che «i personaggi sono cronologicamente invertiti» e che «il fatto non è casuale, visto che una cosa simile è avvenuta per la non primogenitura», e, nel tentativo di darne una spiegazione, afferma Marcheselli che «con tale inversione l’autore sembra voler indicare che essi formano una casta a sé, senza genealogia» alludendo al sacerdozio di Melchisedek e al nuovo sacerdozio di Cristo e dei cri- stiani (cf. J. Swetnam).4

I nostri quattro, secondo il libro dei Giudici, sebbene non consecutiva- mente, seguono il seguente ordine: Barak (cc. 4–5), Gedeone (cc. 6–8), Iefte (10,6–12,7), Sansone (cc. 13–16).

Di questi, con l’aggiunta di «Davide, Samuele e dei profeti», si dice che: «[33] per fede, essi conquistarono regni, esercitarono la giustizia, ottennero ciò che era stato promesso, chiusero le fauci dei leoni, [34] spensero la violenza del

1 Per la suddivisione e lo schema strutturale, e lo sviluppo di questo capitolo 11, cf. C. MARCHESELLI- CASALE, Lettera agli Ebrei, Ed. Paoline, Milano 2005, 470-545.

2 Cf. MARCHESELLI-CASALE, Lettera agli Ebrei, 475. La voce «nefos» più precisamente significa «cae- lum nubilum» e, in senso traslato, «ingens quaedam multitudo» (cf. M. ZERWICK, Analysis philologica Novi Testamenti graeci, Romae 1966, 517).

3 Sebbene la traslitterazione dall’ebraico sia «Baraq», qui adoperiamo «Barak», in conformità all’u- so liturgico corrente.

4 Cf. MARCHESELLI-CASALE, Lettera agli Ebrei, 527.

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fuoco, sfuggirono alla lama della spada, trassero vigore dalla loro debolezza, divennero forti in guerra, respinsero invasioni di stranieri».5

La fede di Gedeone, di Iefte, di Sansone, di Samuele, oltre che di Davide e dei profeti, si può, in certo qual modo, mostrare e dimostrare, trovandovi espres- samente dei cenni in rapporto a Dio6 nei racconti del libro dei Giudici e dei libri di Samuele che ne parlano. La fede di Barak, tuttavia, si fa fatica a mostrarla e dimostrarla.

In questa nota ci proponiamo di evidenziare se, e come, la sua fu vera fede da essere additato a modello e testimone dall’autore della Lettera agli Ebrei. Esaminiamo anzitutto i capitoli 4–5 di Giudici, unico luogo biblico dell’AT ove si accenna a Barak e alla sua opera. Verifichiamo poi la figura di Barak nella tra- dizione ebraica, per quanto possibile, per trarre poi una conclusione.

1. IL RACCONTO DI GDC 4–5

I capitoli 4–5 di Giudici costituiscono uno dei casi di doppia narrazione, che non sono rari nella Bibbia.7 Gdc 4 è in prosa e Gdc 5 in versi.

Il racconto (c. 4) e il canto (c. 5) della vittoria di Barak sui Cananei, nel contenuto, coincidono largamente. In entrambi i testi è una donna, Debora, che dà inizio allo scontro e in entrambi il condottiero avversario viene ucciso da una donna kenita, Giaele. Una differenza essenziale sta nel fatto che, secondo il racconto, soltanto due tribù, Neftali e Zebulon, sono coinvolte nella guerra, mentre secondo il canto hanno partecipato anche Efraim, Beniamino, Machir e Issacar.8

Iniziamo la nostra verifica a partire da Gdc 5,1-31, testo chiamato comu- nemente «cantico di Debora», che a giudizio quasi unanime degli studiosi (da J.Wellhausen fino a H.-D.Neef)9 è uno dei testi poetici più antichi nella Bibbia.10 Si suppone quindi che sia stato composto poco dopo la vittoria.11 P. Sacchi12 così

5 Così La Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 2008. Marcheselli traduce a sua volta «i quali, gra- zie alla fede, soggiogarono regni, esercitarono la giustizia, ottennero la realizzazione delle promesse, chiu- sero fauci di leoni, estinsero la violenza del fuoco, sfuggirono al taglio della spada, furono rinvigoriti dalla (loro) debolezza, divennero forti in guerra, respinsero eserciti di stranieri».

6 Cf. ad esempio: per Gedeone: Gdc 6,11-24.36-40; 7,15; per Iefte: Gdc 11,30-37; per Sansone: Gdc 13,24-25; 14,6.19; 15,14; 16,28.

7 Cf. per l’AT: Es 14 // 15; Gs 10,10-11.13b-14 // Gs 10,12b-13a.

8 Così G. HENTSCHEL, «Il libro dei Giudici», in E. ZENGER (ed.), Introduzione all’Antico Testamento, ed. it. a cura di F. DELLA VECCHIA, Queriniana, Brescia 2005, 327.

9 H.-D. NEEF, «Der Sieg Deboras und Baraks über Sisera», in ZAW 101(1989), 28-49; cf. ID., Debo- raerzählung und Deboralied. Studien zu Jdc 4,1–5,31 (BThSt 49), Neukirchen-Vluyn 2002.

10 Se ne discosta, ad esempio, R.G. KRATZ, Die Komposition der erzählenden Bücher des Alten Testaments (UTB 2157), Göttingen 2000, che non ritiene certa la priorità del canto di Debora sul racconto di Gdc 4, ove vi scorge un elemento più antico nel racconto della «battaglia di Debora» (4,4a.5a.6a.7.10a.12.13.14b.15b17.18-22).

11 Cf. J. BOTTERO, «Le plus vieux poème biblique (Gdc 5)», in TelQuel 6(1960), 81-92. Per altre cita- zioni sul cantico di Debora, cf. V. SCIPPA, «Giaele, una donna forte dell’Antico Testamento. Analisi struttu- rale di Gdc 5,23-27 e 4,17-23», in RivBiblIt 39(1991), 385-422, nota 2.

12 P. SACCHI, I Giudici (NVB), Ed. Paoline, Roma 1968, 109.

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V. SCIPPA – Barak: testimone della fede? (Eb 11,32)

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si esprime in proposito: «Chiunque sia l’autore, il canto sembra scritto sotto l’im- pressione immediata degli avvenimenti, tanta è la vivacità e la forza delle imma- gini». G. Garbini, tuttavia, con precise e puntuali motivazioni va controcorrente e dice che «l’analisi della lingua, di alcuni tratti stilistici e di alcuni elementi con- tenutistici fornisce una serie di elementi convergenti che portano a escludere nella maniera più categorica una datazione del cantico di Debora al XII sec. a.C., mentre rendono probabile una sua datazione verso il X-IX sec. a.C».13 Ma ciò non toglie, tuttavia, che il cantico sia più antico del racconto parallelo in prosa del capitolo 4.

Esaminiamo nel cantico i versetti in cui il nome Barak è citato per eviden- ziare il posto che occupa. Lo troviamo nei vv. 1.12.15.

In Gdc 5,1, versetto introduttivo e di collegamento col capitolo 4, leggiamo: E cantò Dèbora, e (con) Barak, figlio di Abinoam, in quel giorno, dicendo... (wattāšer

debôrâ ûbārāq ben-’abînō‘am bayyôm hahû’ le‘mōr...).

Da questo versetto, chiaramente redazionale, si nota la precedenza della menzione di Debora su Barak. Si potrebbe anche ipotizzare l’inserzione dello stesso nome di Barak, avvenuta in fase redazionale, dal momento che il verbo wattāšer è al singolare e al femminile, mentre allo stato attuale i soggetti sono due Debora e Barak (debôrâ ûbārāq) collegati dalla congiunzione «e» (û). Si tratta di una subordinazione tra i due personaggi che troviamo anche oltre.

In Gdc 5,12 leggiamo:

[12a] Déstati, déstati, o Debora, (‘ûrî ‘ûrî debôrâ ) *déstati, déstati, intona un canto*! (alla lett. «parla un canto»: ’ûrî ‘ûrî dabberî-šîr). [12b] Sorgi, Barak, e cattura i tuoi prigionieri (alla lett. «imprigiona il tuo prigionie- ro») (qûm bārāq ûšabeh šebyeka,) o figlio di Abinòam (ben-’abînō’am)!

Anche in questo v. 12 la precedenza e l’importanza sono date a Debora. Ella è esortata con quattro identici imperativi «Déstati, déstati... déstati, désta- ti» (‘ûrî ‘ûrî...’ûrî ‘ûrî). Barak invece in 12b è esortato con soli due: «sorgi» (qûm) e «cattura» (alla lett. «imprigiona») (ûšabeh). L’espressione del secondo emisti- chio del v. 12a «déstati, déstati, intona un canto* (alla lett. “parla un canto”)!» nella lezione dei LXX* è preceduta dall’espressione exageiron myriadas meta laou: «suscita miriadi con il popolo».14 Ciò suona ancora a vantaggio di Debora. È lei, e non Barak, che è capace di suscitare miriadi di persone tra il popolo per spronarle alla lotta e alla battaglia contro l’esercito di Iabin.

In Gdc 5,15 leggiamo:

[15a] I principi in [che sono in] Issacar mossero (alla lett.: «sono») con Debora, (wesā- ray beyissāskār ‘im-debōrâ)

13 G. GARBINI, «Il cantico di Debora», in ID., Letteratura e politica nell’Israele antico, Paideia, Brescia 2010, 45.

14 Tutto il v. 12 è così tradotto da D. DISEGNI, in Bibbia ebraica. Profeti anteriori, Giuntina, Firenze 1996, 62: «Su, su, Debora, su, su, intona un canto // sorgi, Barac, prendi i tuoi prigionieri, figli di Avinò‘am». Come si vede, si omette l’inserzione dei LXX.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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*e Issacar [il popolo di] così Barak*, nella valle si è slanciato sui suoi piedi (passi) (*weyissāskār ken bārāq*15 bā ‘emeq šullah. beraglāyw). [15b] Tra i ruscelli di Ruben grandi (sono) soluzioni di cuore.

Il v. 15a è abbastanza corrotto nel secondo emistichio. Ma anche qui è nominata Debora prima di Barak; con lei si dice «si mossero [sono] i principi di Issacar», mentre nel secondo emistichio si attesta che «Issacar [cioè la tribù, il popolo] e (così) Baraq nella valle si è lanciato sui suoi piedi (passi)».16

In questo parallelo tra Debora e Barak, primeggia ancora Debora, con cui stanno i principi (classe altolocata), mentre il popolo di Issacar è con Barak a combattere nella valle. La sudditanza e la subordinazione di Barak rispetto a Debora è evidenziata di più se si omette la seconda citazione di Issacar come fanno i LXX, la Vulgata e la nuova versione della Bibbia CEI, e cioè l’espressio- ne «e Issacar [= il popolo di] e (così) Baraq». Dicendo che «Barak si lanciò sui suoi passi nella pianura», è chiara la secondarietà della sua azione militare, rispetto a Debora e a Issacar.

Ma ciononostante la vittoria non è attribuita a loro: né a Debora né a Issa- car né a Barak, ma a Dio stesso. Difatti, leggiamo nei vv. 20-21 (alla lettera):

[20] Dal cielo combatterono le stelle, dalle loro vie (orbite) combatterono contro Sisara. [21] Il torrente Qishon li travolse, il torrente delle antichità, il torrente Qishon.17

La nuova versione della Bibbia CEI del 2008 traduce:

[20] Dal cielo le stelle diedero battaglia, dalle loro orbite combatterono contro Sìsara. [21] Il torrente Kison li travolse; torrente impetuoso fu il torrente Kison.

Qui si sottintende che la causa della vittoria furono gli eventi naturali: la pioggia e le acque impetuose del torrente Kison. Con linguaggio poetico si dice che le stelle (Dio) diedero battaglia. Dal momento che le stelle compaiono di notte, il testo fa pensare a un solenne acquazzone notturno, sicché i carri da guerra di Sisa- ra potettero impantanarsi, data anche la tracimazione del torrente Kison.

2. RACCONTO IN PROSA (GDC 4)

Venendo a esaminare Gdc 4 (racconto in prosa), evidenziamo i versetti in cui è presente la figura di Barak. Essi sono: 6-10 (Debora e Barak); 12.14-16 (Debora e Barak); 22 (Barak e Jael).

15 L’espressione tra * * manca nei LXX e nella Vulgata.

16 Così traduce DISEGNI, Bibbia ebraica il v. 15: «I principi di Issachar sono stati con Debora, // Issa- char è simile a Barac ed è andato a seguito di lui nella valle. // Fra i ruscelli di Ruben grandi decisioni nelle menti». La Bibbia CEI del 2008 traduce: «I principi di Issacar mossero con Dèbora, Barak si lanciò sui suoi passi nella pianura. Nei territori di Ruben grandi erano le esitazioni».

17 Il TM aggiunge «calpesterai, anima mia, (con) forza»: espressione evidentemente fuori luogo (glossa?!).

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V. SCIPPA – Barak: testimone della fede? (Eb 11,32)

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I vv. 6-10 raccontano l’iniziativa di Debora. Ella manda a chiamare Barak per esortarlo ad arruolare gli uomini di Neftali e di Zabulon per muovere guerra contro Sisara, comandante dell’esercito di Iabin, re cananeo che regnava in Asor.

La pericope è così strutturata:

v. 6a (narrazione): introduzione; iniziativa di Debora che manda a chiama- re Barak;

vv. 6b-7 (discorso diretto): Debora parla a Barak (esortazione); v. 8 (discorso diretto): risposta di Barak (controproposta); v. 9a (discorso diretto): risposta di Debora; v. 9b (narrazione): Debora va con Barak a Kedes;

v. 10 (narrazione): Barak esegue l’ordine di Debora, che va con lui. I vv. 12.14-16 (Debora e Barak) sono così articolati: v. 12 (narrazione): «Fu riferito a Sisara che Barak, figlio di Abinòam, era

salito sul monte Tabor». In questo v. 12 (narrativo) il lettore viene a conoscenza che il generale

nemico Sisara è avvertito della prima mossa militare strategica di Barak. Questi era salito sul monte Tabor. Sisara allora a sua volta si prepara alla battaglia, radu- nando tutti i suoi carri di ferro di guerra (ben 900) e tutta la gente che era con lui da Caroset-Goìm fino al torrente Kison.

I vv. 14-16 sono così composti:

il v. 14 comporta: una narrazione – un discorso diretto – una narrazione: v. 14a: «Dèbora disse a Barak: Alzati, perché questo è il giorno...» (narrazione + discorso diretto); v. 14b: «Barak scese dal monte Tabor...» (narrazione).

Nel v. 14a Debora esorta Barak ad alzarsi (qûm), cioè a iniziare l’azione bellica contro Sisara, assicurandolo che la vittoria è certa perché il Signore pro- prio in quel giorno ha messo Sisara, il generale nemico, alla sua mercé («nelle tue mani»: beyādekā). Infatti il Signore è già uscito in battaglia davanti a lui. Nel v. 14b Barak incoraggiato esegue l’ordine di Debora e scende dal monte Tabor seguito da diecimila uomini.

Nel v. 15 (narrazione) leggiamo che «il Signore sconfisse, davanti a Barak, Sisara...». Il Signore, e non Barak, sconfigge Sisara con tutti i suoi carri e il suo eser- cito davanti a Barak. Il testo mette bene a fuoco proprio questo. Sisara, generale nemico, preso dal terrore scende dal carro ed è costretto a fuggire da solo a piedi.

Nel v. 16 (narrazione: descrizione della sconfitta) è detto che «Barak inse- guì i carri e l’esercito...». Il versetto narra dell’inseguimento dei carri e dell’e- sercito di Sisara da parte di Barak fino a Caroset-Goìm. La vittoria fu totale, seb- bene non attribuibile a Barak, ma al Signore. Con una forte iperbole dovuta allo stile epico del racconto è detto che «tutto l’esercito di Sisara cadde a fil di spada: non ne scampò neppure uno».

Giacché la vittoria del Signore doveva essere completa e strabiliante, come del resto tutte le vittorie bibliche del Signore,18 che è Signore Dio degli eserciti (YHWH ’elōhê tsebā’ôt), restava ancora uno da annientare: il generale Sisara.

18 Cf. Es 14,28-31; 15,1.21; Gs 10,30-39.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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Egli era fuggito a piedi, e fu ucciso con uno stratagemma da una donna: Giaele (vv. 17-21). Tuttavia, poiché la vittoria totale è del Signore, anche la morte del generale nemico avviene non per mano di un soldato o dello stesso Barak, ma per mano di una donna, ritenuta un essere debole, che non poteva competere con un generale. Barak non può fare altro che costatare che la mano di una donna guidata dal Signore aveva compiuto l’opera (v. 22). Così Barak non ebbe nean- che la soddisfazione di eliminare il generale nemico.

Il v. 22 è composto dalla narrazione (22a: «Ed ecco sopraggiungere Barak che inseguiva Sisara... Giaele... gli disse»); dal discorso diretto (22b: «Vieni e ti mostrerò l’uomo che cerchi») e dalla narrazione (22c: «Egli entrò da lei ed ecco Sisara era steso morto...»).

In questo versetto la figura di Barak viene ancora una volta umiliata, davanti a una donna, che ha fatto quello che forse non avrebbe fatto lui. Ella ha usato le sue arti femminili, astuzia e coraggio, per far esaltare la potenza divina (vv. 18-21). Ha ucciso il generale nemico non con la spada o con la lancia, stru- menti bellici, ma con un picchetto da tenda, conficcandoglielo nella tempia men- tre egli dormiva profondamente nascosto sotto una coperta.

La vittoria strepitosa di Dio, al pari delle altre, specialmente quelle dell’e- sodo e della conquista per opera di Giosuè, è sintetizzata nel v. 23 ove leggiamo: «Così Dio umiliò quel giorno Iabin, re di Canaan, davanti agli Israeliti».

A conclusione parziale di quest’analisi dei versetti di Gdc 4–5 riguardanti Barak possiamo rilevare che la sua figura non eccelle per azioni belliche, né per coraggio, né per iniziativa. Se agisce è sempre per esortazione di Debora, e quasi per forza, svolgendo un ruolo più che subordinato rispetto a lei. Egli inoltre è anche umiliato, perché il suo generale nemico è eliminato tragicamente per mano e per astuzia di una donna, Giaele, moglie di Cheber il Kenita (Gdc 4,17).

Il racconto in prosa di Gdc 4 evidenzia più del cantico di Debora (Gdc 5) questi aspetti, dal momento che scende più nei dettagli narrativi, evidenziando il carattere incerto e titubante di Barak.

3. BARAK E LA SUA FEDE NELLA TRADIZIONE

Verifichiamo ora se i dati della tradizione ebraica circa il nostro personag- gio Barak rispecchiano i dati biblici.

Dice Marcheselli19 a proposito di Barak:

Con un esercito raccogliticcio Barak ha difeso Israele da potenze nemiche ben mag- giori (Gdc 4,13) ed è entrato nella memoria storica del giudaismo come uno dei salva- tori del suo popolo. Eb 11,32 lo considera testimone della fede in un futuro atteso con speranza (11,1).

19 Cf. MARCHESELLI-CASALE, Lettera agli Ebrei, 527.

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V. SCIPPA – Barak: testimone della fede? (Eb 11,32)

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Parlando della «memoria storica del giudaismo» Marcheselli rimanda all’opera di Flavio Giuseppe, le Antichità giudaiche, citando in nota 257 così: «Libro delle antichità giudaiche 30-33»20 senza aggiungere altro.

Ecco qui quanto vi leggiamo circa Barak:21

Dalle disavventure passate gli Israeliti non impararono a essere migliori, né venera- vano Dio, né osservavano le leggi. Prima che avessero un poco di respiro dopo la ser- vitù sotto i Moabiti, caddero sotto il giogo di Jabin, re dei Cananei... (par. 1). Per vent’anni restarono sotto questo giogo, incapaci di imparare dalle avversità, mentre Dio voleva domare la loro insolenza, più ancora, la loro ingratitudine verso di Lui, affinché mutassero quella condotta e passassero alla saggezza. Ma allorché impararo- no che le loro calamità erano dovute alla loro non osservanza delle leggi, si rivolsero a una certa profetessa, Debora, nome che nella lingua degli Ebrei significa «ape», affinché pregasse Dio di aver pietà di loro e non permettesse che fossero annientati dai Cananei. Dio promise loro la salvezza, e scelse come capo Barak, della tribù di Neftali: «barak» nella lingua degli Ebrei significa «fulmine» (par. 2).

Debora, dunque, chiamò Barak e lo incaricò di scegliere diecimila giovani e marciare contro il nemico; questo numero è sufficiente, lei disse, avendolo stabilito Dio e pro- messo la vittoria. Ma Barak ricusò il comando se lei non l’avesse condiviso con lui; lei indignata rispose: «Tu cedi a una donna il posto che Dio ha dato a te! Io, certo, non lo rifiuto». Radunati i diecimila, si accamparono sul monte Itabirio. Per ordine del re, andò a incontrarli Sisare e accampò il suo esercito non lontano dai nemici.

Gli Israeliti e Barak si spaventarono alla vista di quella moltitudine di nemici, e pensa- vano di ritirarsi, ma Debora li trattenne ordinando di dare battaglia quello stesso gior- no, poiché avrebbero riportato vittoria e che Dio li avrebbe aiutati (par. 3). Si attaccò dunque; e nel pieno della mischia venne una grande tempesta con torrenti di pioggia e grandine; il vento spinse la pioggia contro il viso dei Cananei oscurando la loro vista... Gli Israeliti, invece, erano meno impediti dalla tempesta, che avevano alle spalle, e incoraggiati dal pensiero che Dio li aiutava, si lanciarono in mezzo ai nemici, ne uccisero molti, altri caddero per mano degli Israeliti, altri della loro caval- leria; molti furono schiacciati dai propri carri.

Ma quando vide il suo esercito in rotta, Sisare fuggì fino a che trovò rifugio presso una donna dei Keniti di nome Iale la quale, a sua richiesta, gli concesse un nascondiglio, e quando chiese da bere gli diede del latte già forte: ne bevve a dismisura, e si addor- mentò. Iale, allora, mentre lui dormiva, prese un chiodo di ferro, l’introdusse attraver- so la bocca e la gola (sic!) e con un martello, lo spinse fino a inchiodarlo al suolo; e quando giunsero, poco dopo quelli di Barak, lei glielo mostrò inchiodato a terra. Così, come aveva predetto Debora, questa vittoria tornò a gloria di una donna.

Ma Barak, marciando contro Asor, uccise Jabin che era andato a scontrarlo e, caduto il comandante, egli spianò la città dalle fondamenta; e tenne poi il comando degli Israe- liti per quarant’anni (par. 4).

In questo racconto, che è una parafrasi più o meno fedele (?!) di Gdc 4, con aggiunte o soppressioni particolari e abbellimenti stilistici, Flavio Giuseppe secondo gli intenti della sua opera (esaltazione della storia del popolo giudai-

20 Si tratta del libro V delle Antichità giudaiche 1-4 (198-209). 21 Citiamo da L. MORALDI (ed.), G. Flavio. Antichità giudaiche, UTET, Torino 1998, I, 313-314.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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co)22 ci dà, nel paragrafo 4, notizie circa Barak. La sua figura risulta umiliata da una parte ed esaltata e riabilitata dall’altra. È umiliata ove leggiamo che «Barak ricusò il comando se lei (Giaele) non l’avesse condiviso con lui; lei indignata rispose: “Tu cedi a una donna il posto che Dio ha dato a te! Io, certo, non lo rifiu- to”». E che «gli Israeliti e Barak si spaventarono alla vista di quella moltitudine di nemici, e pensavano di ritirarsi, ma Debora li trattenne ordinando di dare bat- taglia quello stesso giorno, poiché avrebbero riportato vittoria e che Dio li avreb- be aiutati» (par. 3).

La figura di Barak in certo qual modo è riabilitata quando contrariamente al dettato biblico (Gdc 4,22) Flavio Giuseppe dice che il corpo di Sisara morto non fu mostrato a Barak, ma agli uomini di Barak. Leggiamo, infatti, che «quando giun- sero, poco dopo quelli di Barak, lei glielo mostrò inchiodato a terra. Così, come aveva predetto Debora, questa vittoria tornò a gloria di una donna» (par. 4).

La riabilitazione di Barak sta soprattutto nel finale della citazione, quando leggiamo in Giuseppe un particolare che non ha un identico riscontro nel raccon- to biblico. Giuseppe dice infatti che «Barak, marciando contro Asor, uccise Jabin che era andato a scontrarlo e, caduto il comandante, egli spianò la città dalle fon- damenta; e tenne poi il comando degli Israeliti per quarant’anni» (par. 4).

In Gdc 4,23-24 leggiamo invece che «così Dio umiliò quel giorno Iabin [...]. La mano degli Israeliti si fece sempre più pesante su Iabin [...] finché ebbe- ro stroncato Iabin re di Canaan». Qui è detto che fu la mano degli israeliti a stroncare Iabin e non Barak.

E così, a differenza del dettato biblico, sostiene che Barak, non avendo lui potuto uccidere personalmente il generale nemico Sisara, uccise addiritura lo stesso re nemico Iabin dopo aver marciato contro la sua città-stato di Asor. Giu- seppe vi aggiunge ancora che Barak comandò poi sugli israeliti per quarant’an- ni sottintendendo la sua funzione di «giudice», mentre in Gdc 5,31b leggiamo solo che «poi la terra rimase tranquilla per quarant’anni» supponendo ancora la presenza di Debora come giudice (Gdc 4,4), non essendovi notizia della sua morte, come avviene di solito per altri giudici.23

In conclusione, o che si tratti di una libera parafrasi di Gdc 4 o di un altro racconto, attinto forse da un’altra fonte, Flavio Giuseppe delinea Barak in fondo in senso positivo, sebbene non faccia buona figura nei riguardi di Debora, cui resta pur sempre subordinato. Non si evidenzia tuttavia la sua fede.

Un giudizio sulla fede vacillante di Barak e anche un tentativo per giusti- ficare il suo operato sono espressi da E. Palis24 con le seguenti parole:

22 Così si esprime in proposito T. Renach: «Come storico, in generale, attesta poco senso critico; [...] tutte le sue opere hanno, più o meno, carattere apologetico che a volte si manifesta per mezzo di esagera- zioni, a volte con soppressioni calcolate...». Per A. Puech tuttavia: «Bisogna riconoscere che le sue opere, per quanto siano tendenziose, non sono soltanto imponenti per l’estensione, ma restano per noi molto istruttive e di grande significato». Cf. MORALDI (ed.), G. Flavio. Antichità giudaiche, 32-33.

23 Così per Otniel (Gdc 3,11); Eud (Gdc 3,30-31; 4,1); Gedeone (Gdc 8,32); Tola (Gdc 10,2); Iair (10,5); Iefte (Gdc 12,7); Ibsan (Gdc 12,10); Elon (Gdc 10,12); Abdon (Gdc 12,15); Sansone (Gdc 16,30-31).

24 E. PALIS, «Barac», in Dictionnaire de la Bible, I, coll. 1443-1446, qui alla col. 1446.

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V. SCIPPA – Barak: testimone della fede? (Eb 11,32)

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Il eut le tort sans doute de se défier de la protection de Dieu, et d’exiger, pour exécu- ter ses ordres, la présence de Débora auprès de lui: ce fut, sinon une grave désobéis- sance, du moins un acte de faiblesse et un excès de prudence humaine; mais la fidélité et l’intrépide courage qu’il montra ensuite (cf. Gdc 5,15) réparèrent promptement et noblement cette faute, moins grave d’ailleurs qu’elle ne parait d’abord; car probable- ment Barac croyait nécessaire la présence de Débora, pour donner aux yeux du peu- ple de l’autorité à son entreprise, et l’assister lui-même de ses sages conseils.

Palis conclude dicendo che «quelques exemplaires des Septante mettent, en effet, dans sa bouche la phrase suivant, par laquelle il justifie son refus de mar- cher seul: “Je ne connais pas le jour que Dieu a choisir pour m’envoyer l’ange qui doit rendre ma voie prospère”».

S. Agostino recepisce la lezione dei LXX cui accenna Palis nelle Quaestio- nes in Iudices, par. 26. Essa, che è riportata sia nel codice A (Alessandrino) che in B (Vaticano), aggiunge al rifiuto di Barak (Gdc 4,8) il motivo; dice Agostino: «Quoniam nescio diem in qua prosperat angelum Dominus mecum (poiché non so il giorno in cui il Signore renderà propizio con me il suo angelo)».25 Agostino tuttavia non disquisisce sulla fede o meno di Barak, ma si pone interrogativi teo- logici. Egli infatti si domanda: «Che vuol dire ciò che Barak risponde a Debora dicendo: “... poiché non so il giorno...”, come se non avesse potuto udire il gior- no da parte della profetessa?». E aggiunge:

Nemmeno essa però gli indicò il giorno ma si avviò con lui. E che vuol dire: «Il Signo- re mi rende propizio l’angelo?». Viene forse dimostrato qui che anche le azioni degli angeli sono rese propizie, cioè sono aiutate dal Signore affinché riescano felici? Oppu- re «mi rende propizio l’angelo» è un modo di dire che significa «fa con me cose favo- revoli per mezzo dell’angelo»?26

Il Palis conclude, come abbiamo visto, anche se non del tutto convinto, sulla genuina fede di Barak, dicendo: «Du reste l’Écriture ne blâme nulle part Barac, et saint Paul exalte sa foi comme celle de tous les saints personnages qu’il nomme avant et auprès lui (cf. Eb 11,32)».27

Ma questo giudizio di Palis sulla fede di Barak e silentio, cioè dal fatto che non viene biasimato da altri passi biblici, e dall’esaltazione di Eb 11,32, che, come abbiamo visto in questo studio, non poggia su solide fondamenta dell’AT, ci lascia per lo meno perplessi.

3. CONCLUSIONE

Dopo questo breve, e senz’altro non esaustivo excursus sulla fede di Barak, ecco alcune linee di conclusione.

25 Cf. AGOSTINO, Quaestio XXVI in Judices, t. XXIV, col. 801. 26 Cf. AGOSTINO, Locuzioni e questioni sull’Ettateuco, in NBA XI/2, Città nuova, Roma 1998, 1209. 27 «Del resto la Scrittura non biasima per niente Barak, e s. Paolo esalta la sua fede come quella di

tutti i santi personaggi che egli cita prima e dopo di lui (cf. Eb 11,32)».

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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Certo non presumiamo di trovare il concetto di fede di Barak, come defi- nito e puntualizzato poi dalla Chiesa, ed espresso ultimamente dal Catechismo della Chiesa cattolica (nn. 142-184).28

La definizione della fede di Eb 11,1 come «fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede» (Bibbia CEI 2008),29 formula che nel corso dei secoli ha avuto copiosi tentativi di spiegazione, riportati in sintesi da Marchesel- li,30 non appare vissuta e testimoniata esplicitamente ed espressamente da Barak, come abbiamo potuto costatare esaminando Gdc 4–5.

Da Gdc 4–5 si ricava piuttosto che la fede di Barak è vacillante, e deve essere sostenuta da Debora. Barak non prende mai l’iniziativa, anzi sembra a volte recalcitrante agli stimoli di Debora. Afferma a proposito Hertzberg:31 «Barak appare sì come un uomo valoroso, ma piuttosto incerto sul da farsi, il quale non solo ha bisogno dell’esplicita parola di Dio che gli dà il primo impul- so (4,6), ma anche della presenza della profetessa di Dio che evidentemente incarna per lui l’assistenza del sommo mandante (4,8)». E V. Gatti32 commenta a sua volta: «Il personaggio dominante è Debora, giudice e profetessa, resa ardi- mentosa dalla propria fede in YHWH. Accanto a lei c’è Barak, figura di soldato indeciso e privo di coraggio».

Nel ricordo letterario, sia in Gdc 4 (racconto) in prosa, sia in Gdc 5 (canti- co di Debora) l’azione di Barak è sempre preceduta dall’iniziativa di Debora.

Stando al testo biblico, Barak, contrariamente all’etimologia del suo nome: «fulmine»,33 si lascia spingere da una donna per andare in battaglia, anzi non vuole andarci se non in sua compagnia (Gdc 4,8). Siamo convinti che tutto il rac- conto di Gdc 4 sia pervaso da una leggera ironia per quanto riguarda il nostro personaggio. Essa soprattutto si manifesta nel nome stesso di Barak, posseduto o attribuitogli forse dall’autore letterario biblico.34 Da quello che si legge egli davvero non fu un «fulmine» per il suo intervento militare.

Costatiamo che la stessa iniziativa della guerra inoltre è presa da Debora, profetessa e giudice, che manda a chiamare Barak (cf. Gdc 4,6-7). Per giunta Barak è umiliato nella sua azione militare da Giaele, una donna! È lei che gli fa

28 In sintesi essa è tra l’altro «un’adesione personale di tutto l’uomo a Dio che si rivela... (176; cf. 166), ... è un dono soprannaturale di Dio... (179); “credere” è un atto umano cosciente e libero, che ben si accorda con la dignità della persona umana (180)».

29 MARCHESELLI-CASALE, Lettera agli Ebrei, 471 traduce: «La fede è fondamento (esperienza) delle realtà che si sperano e prova di quelle che non si vedono».

30 MARCHESELLI-CASALE, Lettera agli Ebrei, 476-484.

31 H.W. HERTZBERG, Giosuè, Giudici, Rut, Paideia, Brescia 2001, 275 (ed. or. Die Bücher Josua, Rich- ter, Ruth, Göttingen 61985).

32 V. GATTI, «Giudici», in La Bibbia Piemme, Casale Monferrato 1995, 503.

33 Il nome proprio «Barak» ricorre solo in Gdc 4–5, ma la radice verbale bāraq (blitzen, «folgora- re») e il sostantivo bārāq (fulmine) ricorrono per lo più nei profeti e nei salmi. Tra i libri storici, oltre a Gdc 4–5, ricorrono raramente.

34 La nostra convinzione poggia anche sul fatto che il nome personale «Barak» non lo si trova altro- ve nella Bibbia. In 1Sam 12,11 c’è ancora il nome «Barak» ma solo nella versione dei LXX e nella Syr, men- tre nel TM e nella Vg leggiamo «Badan», nome sconosciuto nell’onomastica biblica, che qualcuno vorreb- be identificare col giudice «Abdon» (Gdc 12,13-15). Ma è probabile che si tratti di un errore dello scriba che avrebbe trasformato brq con bdn.

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V. SCIPPA – Barak: testimone della fede? (Eb 11,32)

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trovare il nemico ucciso, al cui inseguimento si era dato, e glielo mostra come tro- feo. Commenta Hertzberg:35 «Sembra una particolare coincidenza che non l’uo- mo, bensì la donna, non l’eroismo, bensì la debolezza, in ultima analisi non l’uo- mo, ma Dio conquisti la vittoria. Va anche osservato come sia sempre il Signore ad agire, sia nel caso di Barak... sia nel caso di Sisara... (4,7)».

Il tentativo di esaltare, o almeno riabilitare, la figura di Barak operato da Flavio Giuseppe, che gli attribuisce l’uccisione di Iabin re di Asor e la funzione di giudice d’Israele per quarant’anni, non è avvalorato dalla Bibbia, né da altra fonte a nostra conoscenza; può essere ritenuto frutto del suo stile e della finalità apologetica delle sue opere, come sopra si è sottolineato.

Ritornando alla domanda iniziale: fu vera fede quella di Barak? Fu egli un testimone di fede? Da quello che abbiamo sopra evidenziato non ce la sentiamo di rispondere con un netto ed entusiastico: «Sì».

E allora come possiamo giustificare la menzione di Barak, come testimone di fede, in Eb 11,32 (cf. 12,1)? Era a conoscenza l’autore della Lettera agli Ebrei della versione dei LXX, che in parte attutisce l’impressione negativa di Barak con la lezione più lunga che manca nel TM (Gdc 4,8)? Possiamo supporre di sì, essendo l’autore della lettera un probabile ebreo convertito di Alessandria (cf. Marcheselli), ove, tra gli ebrei della diaspora, si leggeva la Bibbia dei LXX. Avrà conosciuto l’autore della Lettera agli Ebrei il testo base di Flavio Giuseppe, o la tradizione a cui Giuseppe avrebbe attinto, che ne attutisce gli aspetti negativi del personaggio, se non si sia trattato del frutto della sua arte oratoria e della fina- lità apologetica delle sue opere, cui sopra si è accennato?

Domandiamoci: perché non citare Debora, profetessa e davvero credente e ubbidiente alla parola del Signore Dio (Yhwh ’elōhê-yisrā’el) al posto di Barak o almeno citarli insieme, dal momento che nell’azione di difesa del popolo con- tro Iabin sono stati come la mente (Debora) e il braccio (Barak)? D’altronde l’autore della Lettera agli Ebrei, tra i personaggi femminili, ha citato solo Sara (11,11) e Raab «la prostituta» (11,31) cananea, intesa da Flavio Giuseppe come «albergatrice», parlando della sua casa come un «alloggio».36

Certamente i commentatori di Eb 11,32, pur restando perplessi di fronte a Barak, come testimone di fede, giustificando la sua menzione in quanto tale, sep- pure generica e en passant in Eb 11,32, hanno provato a farlo richiamandosi a considerazioni generali. Dice ad esempio Marcheselli37 che egli, Barak, «è entra- to nella memoria storica del giudaismo come uno dei salvatori del suo popolo. Eb 11,32 lo considera testimone della fede in un futuro atteso con speranza (11,1)». Osserva A.Vanhoye38 che l’autore della Lettera agli Ebrei, in riferimen- to a Eb 11, «ai credenti antichi evita di attribuire una fede esplicitamente cristo- logica...» e inoltre «osserva tuttavia che nell’AT le attuazioni della fede rimane-

35 HERTZBERG, Giosuè, Giudici, Rut, 275. 36 MORALDI (ed.), G. Flavio. Antichità giudaiche, 279. 37 MARCHESELLI-CASALE, La terra agli Ebrei, 527. 38 A. VANHOYE, «La fede nell’Epistola agli Ebrei», in PSV 17(1988), 220-240, qui 236-236.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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vano limitate a un livello di prefigurazione (Eb 11,39). Infatti, solo dopo l’inter- vento decisivo di Cristo, la fede ha potuto raggiungere pienamente il “riposo di Dio” (cf. Eb 4,3)».

Barak così può essere giustificato, ma la sua fede, crediamo, per noi cri- stiani del XXI secolo, non va certo imitata.

Forse, in Eb 11,32, più che Barak andava menzionata Debora, al suo posto o almeno insieme con lui, come testimone di fede, lei che insieme a Giaele e ad altre eroine bibliche possono davvero meritare il titolo di «donne forti»,39 e per- ché no, anche quello di «testimoni della fede».

39 Cf. SCIPPA, «Giaele, una donna forte dell’Antico Testamento, 385-422; ID., «Due donne forti del- l’AT», in Parole di vita 5(1995), 12-16; D. SCAIOLA, Rut, Giuditta, Ester. Introduzione e commento (Dabar- Logos-Parola), Messaggero, Padova 2006, recensione in Asprenas 54(2007), 396-398. Per altri approfondi- menti, cf. A. ABELA, «Two Short Studies on Judges 5», in BiTr 53(2002), 133-137; E. ASSIS, «“The Hand of a Woman”: Deborah and Yael (Gdc 4)», in JHSer 5(2005)19; ID., «Man, Woman and God in Judg 4», in SJOT 20(2006), 110-124; P. AUFFRET, «En ce jour-là Debora et Baraq chantèrent: étude structurelle de Jg 5,2-31», in SJOT 16(2002), 113-150; S. BAKON, «Deborah: Judge, Prophetess and Poet», in JBQ 34(2006), 110-118; S.M. BAUGH, «The Cloud of Witnesses in Hebrews 11», in WThJ 68(2006), 113-132; Y.M. GRINTZ, «Barak», in Encyclopaedia judaica, IV, coll. 195-196; J. LIVER, «Deborah», in Encyclopaedia judaica, V, coll. 1429-1433; C. ROSE, Die Wolke der Zeugen: eine exegetischtraditionsgeschichtliche Untersuchung zu Hebräer 10,32–12,3 (WUNT 2/60), Tübingen 1994; V. SCIPPA, «La guerra nella Bibbia», in Asprenas 42(1995), 163-180.

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La sapienza d’Israele nella Lettera di Giacomo ANGELO PASSARO

Ernst Baasland nel suo Literarische Form, Thematik und geschichtliche Einordnung des Jakobsbrief pubblicato nella sezione II.25 della prestigiosa serie «Aufstieg und Niedergang der Römanischen Welt», curato da Wolfgang Haase, ripreso in un articolo pubblicato in Studia theologica («Der Jakobusbrief als neu- testamentliche Weisheitsschrift»),1 afferma con decisa perentorietà che la Lette- ra di Giacomo si presenta come uno «scritto sapienziale». In effetti fin dall’ini- zio la lettera propone una serie di esortazioni che si sviluppano attorno al tema della sapienza; quest’ultima è messa in relazione con Dio che la dona a chi la chiede nella preghiera perseverante e fiduciosa per vivere con gioia nel tempo del peirasmo,j (c. 1); «quella che viene dall’alto» è contrapposta a «quella terre- na» definita, in maniera sorprendente, «materiale e diabolica (yucikh, daimoniw,dhj)» (3,15).

Non manca anche un preciso lessico sapienziale che percorre l’intera let- tera, ma, come ha giustamente sottolineato Rinaldo Fabris in un suo saggio apparso nel FS in onore di Giuseppe Ghiberti,2 e dedicato allo studio del rap- porto tra tradizione sapienziale e tradizione apocalittica nella Lettera di Giaco- mo, «al di là del lessico sapienziale, l’intero discorso di Giacomo ruota attorno ai temi e alle categorie della tradizione sapienziale». In altri termini, Giacomo è chiaramente debitore alla tradizione dei sapienti di Israele. Su questo punto si registra un pressoché unanime consenso tra gli studiosi. Anche se, a partire da questa convinzione condivisa, diversi sono stati i tentativi di definirne contorni ed elementi di significatività. Éduard Cothenet in una breve conferenza pronun- ciata durante il XV congresso dell’Associazione biblica francese, tenuto a Parigi nel 1993,3 ritiene di doversi interessare a definire se la sapienza che Giacomo raccomanda sia una saggezza pratica o una sapienza teologica, cadendo così

1 E. BAASLAND, «Literarische Form, Thematik und geschichtliche Einordnung des Jakobsbrief», in ANRW II.25.5, 3646-3684; ID., «Der Jakobusbrief als neutestamentliche Weisheitsschrift», in ST 36(1982), 119-139.

2 R. FABRIS, «La Lettera di Giacomo nella tradizione sapienziale e apocalittica», in A. PASSONI DEL- L’ACQUA (ed.), «Il vostro frutto rimanga» (Gv 16,16). Miscellanea per il LXX compleanno di Giuseppe Ghi- berti (RivB Suppl. 46), Bologna 2005, 241-256, qui 241.

3 É. COTHENET, «La Sagesse dans la Lettre de Jacques», in J. TRUBLET (ed.), La Sagesse biblique. De l’Ancien au Nouveau Testament. Actes du XVe Congrès de l’ACFEB (LeDiv 160), Paris 1993, Paris 1995, 413-419.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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ancora una volta in una distinzione molto naïve e mitologicamente accademica, che suppone di poter interpretare il fenomeno sapienziale esclusivamente sulla base di automatismi tipologici di evoluzione letteraria e schemi concettuali di puro e puntuale rispecchiamento della vita concreta, misconoscendo, anche nel caso della Lettera di Giacomo, il fenomeno della generalizzazione-universalizza- zione tipicamente sapienziale.4

Su altro versante Hubert Frankemölle, nel suo commento del 1994 appar- so nella collana «Ökumenischer Taschenbuch-Kommentar zum Neuen Testa- ment», ipotizza che la Lettera di Giacomo riprenda e rilegga alcune parti del libro di Ben Sira.5

Da ultimo Richard Bauckham nel saggio «The Wisdom of James and the Wisdom of Jesus», presentato nel 52° Colloquium biblicum Lovaniense dedicato alle lettere cattoliche e diretto da Jacques Schlosser, nel contesto dello studio della ricezione della tradizione gesuana in Giacomo, rileva la presenza di un’ac- centuata tradizione sapienziale che riprenderebbe un’attitudine ermeneutica propria di Ben Sira.6 Per lo studioso inglese, infatti, l’utilizzazione che Ben Sira fa del materiale sapienziale della tradizione a lui precedente secondo un model- lo che viene definito «of tradition and creativity», cioè di fedeltà creativa, offri- rebbe una chiave di lettura per comprendere l’uso che la Lettera di Giacomo fa delle tradizioni sapienziali di Israele. In altri termini, la categoria di «allusione», essendo molto poche le citazioni letterali, non spiega i riferimenti dell’opera gia- cobea al mondo sapienziale. L’opera di Ben Sira è allora il modello dell’opera di un maestro di sapienza, quale si rivela essere l’autore della Lettera di Giacomo.

In effetti, come maestro di sapienza, Ben Sira studia intensamente la tradi- zione scritturale che lo precede, mostrando una straordinaria capacità di tema- tizzare la propria maturazione spirituale davanti a una pratica religiosa che si definisce nel momento di passaggio da un’imponente, ma ormai satura religiosità ufficiale, alla vivace e coinvolgente celebrazione del culto sinagogale incentrato sulla parola scritta tramandata. Questa trasformazione irreversibile della rela- zione personale del credente con il suo Dio non fu avvertita dalla classe sacer- dotale nei suoi effetti. Infatti, il protagonista, più o meno consapevole, di questa personalizzazione della fede cominciava a divenire proprio il sapiente che del Libro era chiamato a essere non solo il lettore abilitato e l’interprete qualificato, ma anche il mediatore unico e autorevole di una rivelazione divina che, attra- verso lo scritto, voleva ormai raggiungere il cuore di ogni fedele uditore. La figu- ra dello scriba esperto della Sapienza consegnata a Israele nel Libro dell’allean- za (24,23) fa di questo specialista religioso l’erede della funzione profetica (ma non ancora anche della funzione regale, passaggio di consegne che avverrà più

4 Cf. su questo punto G. BELLIA – A. PASSARO (edd.), Il libro dei Proverbi. Tradizione, redazione, teo- logia, Casale Monferrato 1999.

5 H. FRANKEMÖLLE, Der Brief des Jakobus (ÖTBK 17/1), Gütersloh-Würzburg 2004.

6 R. BAUCKHAM, «The Wisdom of James and the Wisdom of Jesus», in J. SCHLOSSER (ed.), The Catho- lic Epistles and the Tradition (BEThL 176), Leuven 2004, 75-92.

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tardi nel libro della Sapienza), come risulta dall’avvertenza lucida che Ioshua ben Eleazar ben Sira dimostra di avere della trasformazione in atto (24,33; 33,16- 17; 39,6). L’opera di Ben Sira è perciò il racconto consapevole di un’esperienza teologale che, al pari di altre esperienze storiche d’Israele, rende testimonianza all’agire discreto e ininterrotto della sapienza divina nel cuore di ogni credente. Lo scriba timorato diveniva l’attento testimone e il vigile interprete di un pro- cesso di reale kenosi divina, dove Dio per divenire vero partner dell’uomo non sembrava accontentarsi di manifestarsi come sapienza, era diventato libro, si era fatto scrittura. Il maestro di sapienza è ormai l’interprete più accreditato a com- prendere il mutamento storico in atto, testimone necessario di una nuova e più idonea forma di mediazione religiosa: il sapiente che sperimentava nel lavoro di custodia della Torah la continua istruzione divina nel vivere quotidiano sembra- va rispondere meglio a questa esigenza.7 Sir 51, in maniera sintetica ed esempli- ficativa, offre un grande affresco su questa nuova figura di specialista religioso e sulle forme della sua personale ricerca, ma nel contempo ordina e interpreta i filoni teologici propri del patrimonio teologico d’Israele alla luce dell’esperien- za dello scriba sapiente, colto in un atteggiamento di equilibrio pieno di pace e di armonia che ne fa un tramite di conoscenza per quanti in ogni tempo, come bene hanno inteso alcune comunità cristiane, per esempio quella matteana, ma anche quella che si riflette nella Lettera di Giacomo, hanno a cuore la sapienza.8

Dunque un «creative exponent of the tradition»,9 che interpreta, riformu- la e sviluppa in maniera nuova le idee delle sue fonti senza indulgere in «verbal resemblance»,10 nel caso di Ben Sira, in riferimento a Proverbi. Insomma è un atteggiamento proprio del saggio maestro di sapienza quello di riformulare e svi- luppare il dato della tradizione e non limitarsi a ribadirlo acriticamente in forme ripetitive, che denuncerebbero anche la sottovalutazione di quell’elemento con- testuale, il quale esige che la sapienza antica debba essere adattata a nuovi sce- nari e nuove situazioni, e che il lavoro del maestro di sapienza si articoli e si svi- luppi, come già rilevato, in una continuità creativa.

Non ho elementi né competenza per affermare con Bauckham che il «modello» Ben Sira serva a comprendere l’uso che Giacomo fa dei detti di Gesù e della sapienza che essi veicolano,11 ma credo che esso possa aiutare a definire una ermeneutica della riformulazione, si potrebbe dire una deuterosi, che non si

7 Queste considerazioni sono sviluppate in A. PASSARO – G. BELLIA, «Sirach, or the Metamorphosis of the Sage», in EID. (edd.), The Wisdom of Ben Sira. Studies on Tradition, Redaction, and Theology (DCLS 1), Berlin-New York 2008, 355-373 (Il libro del Siracide. Tradizione, redazione, teologia [Studia biblica], Roma 2012).

8 Su Sir 51 cf. S. MANFREDI, «The True Sage or the Servant of the Lord (Sir 51:13-30 Gr)», in PASSA- RO – BELLIA (edd.), The Wisdom of Ben Sira, 173-195; M. GILBERT, «Venez à mon école (Si 51,13-30)», in I. FISCHER – U. RAPP – J. SCHILLER (edd.), Auf den Spuren der schriftgelehrten Weisen. Fs. J. Marböck (BZAW 331), Berlin-New York 2003, 283-290.

9 BAUCKHAM, «The Wisdom of James and the Wisdom of Jesus», 79. 10 BAUCKHAM, «The Wisdom of James and the Wisdom of Jesus», 79. 11 Su questo punto cf. anche J.S. KLOPPENBORG, «The Reception of the Jesus Traditions in James», in

SCHLOSSER (ed.), The Catholic Epistles and the Tradition, 93-141.

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attarda solo nella citazione letterale, evidente nella Lettera di Giacomo. In altri termini, credo che l’autore della Lettera di Giacomo riprenda temi propri del- l’universo sapienziale – cari, per l’appunto, soprattutto a Ben Sira, ma anche a Proverbi e Qoelet – riformulandoli con la libertà di un maestro di sapienza che sa di dover indirizzare a quanti lo ascoltano parole antiche come parole nuove per vivere in pienezza il mandato del Signore, in un tempo di reale mutamento e forse anche di evidente instabilità sociale. Un tempo in cui è necessario riaffer- mare che il cristianesimo non è adesione a verità astratte, ma incontro con un avvenimento che ha necessariamente risvolti di natura etica. Un tempo cioè segnato da un processo di globalizzazione governato dalla supremazia romana, e perciò percorso da fenomeni di pluralismo culturale (dovuto in buona parte all’interpretazione della tradizione greca che, nelle varie fasi di quel complesso fenomeno che si definisce «ellenismo», ha assunto una strutturazione di volta in volta diversa) in cui magna pars è riconosciuta alla ricerca del successo sociale.12

La Lettera di Giacomo (seguendo un andamento tipico dunque della stes- sa cultura ellenistica) riprende moduli (l’universalizzazione, per esempio nel binomio ricco-povero) e, in maniera mirata, temi della tradizione sapienziale, quelli maggiormente rispondenti alla situazione dei credenti ai quali si indirizza.

Questo procedimento ermeneutico rende ragione anche delle citazioni dirette a cui fa ricorso Giacomo e permette di liberarsi dall’impasse a cui spesso è costretta la ricerca intertestuale, che si serve quasi esclusivamente della cate- goria dell’allusione.

A partire da queste riflessioni vorrei proporre alcuni spunti, a mo’ di appunti, che dunque non hanno alcuna pretesa di esaustività, che si riferiscono a temi tipicamente sapienziali presenti in Giacomo e che potrebbero essere assunti come piste di ricerca che attendono di essere percorse con maggiore attenzione.

1. PROVA, SAPIENZA E PREGHIERA (GC 1,2-18)

2Ritenete gioia perfetta, fratelli miei, quando subite ogni sorta di prova (peirasmo,j), 3dal momento che sapete che la vostra prova della fede produce perseveranza. 4Ma la perseveranza produce un’opera perfetta, perché siate perfetti e senza difetto, in nes- sun punto mancanti. 5Ma se qualcuno di voi manca di sapienza, la chieda a Dio, che dà a tutti senza condizioni (a`plw/j) e senza rimproveri, e gli sarà data [...]. 12Beato l’uo- mo che sostiene una prova (peirasmo,n), poiché una volta provato riceverà la corona della vita che Dio ha promesso a coloro che lo amano.

12 Cf. G. REYES, «The Wage’s Cry: A Literary and Sociological Reading of James», in Journal of Latin American Hermeneutics 2(2005), 1-12; D. WARDEN, «The Rich and Poor in James: Implications for Institu- tionalized Partiality», in JETS 43(2000), 247-257; R. CROTTY, «Identifying the Poor in the Letter of James», in Colloquium 27(1995), 11-21; J. WEBB – L. ROBERT – J.S. KLOPPENBORG (edd.), Reading James with New Eyes: Methodological Reassessments of the Letter of James (LNTS 342), New York 2007; V.K. ROBBINS, «Making Christian Culture in the Epistle of James», in Scriptura 59(1996), 341-351.

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A. PASSARO – La sapienza d’Israele nella Lettera di Giacomo

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Riprendendo uno schema tradizionale (gioia nella sofferenza/nella prova) caro alla parenesi protocristiana e agli scritti del tardo giudaismo (cf. apoc. Baruc syr. 48,50 e 52,6s; 1QS 10,17, per esempio), Giacomo pone in risalto che l’esi- stenza del credente è segnata dalla prova; il termine peirasmo,j al v. 2 e al v. 12 forma una perfetta inclusio. Nonostante ciò però egli invita alla gioia. L’accosta- mento può apparire paradossale. Ma nella logica del discorso giacobeo le prove non sono la causa della gioia, ma la loro occasione. Esse sono i rischi che i giusti devono sopportare nella diaspora del mondo. E hanno un carattere di ripetuta continuità, come si evince dall’uso di o[tan con il congiuntivo aoristo peripe,shte, e giungono perciò in gran quantità, l’uso di poiki,loij evidenziando questo caratte- re di grande molteplicità. Sono le trappole disposte da un sistema di vita antite- tico a quello della fede in cui i credenti sono attirati; l’uso di peripi,ptw indica che esse non sono cercate, ma appunto assalgono di sorpresa. Non si tratta delle prove volute da Dio per provare la fedeltà dei suoi fedeli: il v. 13 lo dice espres- samente. Pur tuttavia Dio «non libera il credente dalla situazione pericolosa in cui si trova nel mondo»,13 di fatto anzi permette le prove cosicché nella fede si acquisti l’u`pomonh,, la stabilità e la capacità di resistere attivamente nell’adesione a Dio anche nel tempo della dura oscurità, nel tempo della difficoltà, senza ras- segnarsi a un positivo soffrire che nulla avrebbe di cristiano (cf. la formulazione u`pome,nein peirasmo,n del v. 12).

Certo la perseveranza non muta i tempi in momenti di salvezza, eppure le prove sono comunque il mezzo con cui si vaglia e si valuta la fede perché porta- no alla perfezione nell’agire. Cioè l’u`pomonh, ha un risultato, un fine come indica il de. del v. 4: «Perché siate perfetti e senza difetto», te,leioj e o`lo,klhroj i termini usati. Totalità, completezza, indivisibilità, perfezione: «Nell’o`lo,klhroj non manca alcuna virtù che il cristiano debba avere, nel te,leioj nessuna virtù è ai suoi debo- li inizi, ma tutte hanno raggiunto una certa pienezza e maturità».14 La telei,wsij è dei credenti che nella loro u`pomonh, testimoniano di essere aperti al futuro di Dio e tendere a esso. Dunque una prospettiva escatologica che libera la fede da una riserva etica, cosicché la stessa u`pomonh, non sia fine a se stessa, in nome di un umanesimo etico da cui l’autore della lettera è certamente lontano, ma come luogo di perfezione per i credenti (i[na h=te...). «In definitiva la prova/tentazione è in rapporto alla perseveranza in questo atteggiamento di fede piena».15

L’impostazione del discorso giacobeo trova nel testo di Sir 2,1-6 il suo certo background, ripreso e rimodulato con libertà creativa.16 In Siracide si legge:

Figlio mio, se ti decidi di servire il Signore preparati alla prova (peirasmo,j).

13 F. MUSSNER, La Lettera di Giacomo (CTNT XIII/1), Brescia 1970, 98. 14 MUSSNER, La Lettera di Giacomo, 100. 15 W. SCHRAGE, «La Lettera di Giacomo», in H. BALZ – W. SCHRAGE, Le lettere cattoliche (Nuovo Testa-

mento 10), Brescia 1978, 37. 16 Sul testo di Sir 2 cf. l’ottimo e dettagliato studio di N. CALDUCH-BENAGES, En el crisol del la prue-

ba, Estella (Navarra) 1997, 33-94.

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Orienta il tuo cuore e sii tenace, non ti angustiare nel tempo della sventura. Aggrappati a lui e non ti allontanare affinché alla tua fine tu possa crescere. Accetta tutto quello che si abbatte su di te e nelle umiliazioni sii paziente [...]. Perché l’oro si purifica nel fuoco, e gli uomini graditi (a Dio) nel forno dell’umiliazione. Nelle malattie e nella povertà poni la tua fiducia in lui. Confida in lui ed egli ti aiuterà, raddrizza le tue vie e spera in lui.

Richiamo l’attenzione sui primi 3 versetti. La pericope comincia (v. 1a) con una protasi, introdotta dal vocativo te,knon, tipico delle istruzioni sapienziali (cf. Pr),17 nella quale si fa riferimento a quell’attitudine religiosa propria di chi ha fiducia nel Signore. Si è discusso se douleu,ein kuri,w| abbia un significato cultuale di servizio al tempio,18 ma il contesto prossimo, la ripresa del sintagma in Sir 4,14 e 24,10, e soprattutto l’evidente riferimento a Dt (6,13; 13,5; 10,20; ecc.), fanno propendere per un’interpretazione non sulla linea del servizio liturgico. Il ver- setto sottolinea invece che si tratta di una opzione fondamentale che segna la vita del giovane discepolo nel senso che la orienta verso la piena realizzazione di ciò che Dio chiede. Douleu,ein kuri,w| significa allora la relazione personale del discepolo con Dio, una relazione che ha carattere di esclusività e investe tutti i piani dell’esistenza.

Nella prima parte dell’apodosi dei vv. 1b-3 – la seconda parte trovandosi nei vv. 4-6 – il testo presenta una struttura molto interessante:

1b-2prepara orienta e sii tenace, non ti angustiare 3aAggrappati

alla prova (peirasmo,j). nel tempo della sventura.

il tuo animo il tuo cuore

Si può con facilità notare come le prime quattro indicazioni del maestro di sapienza riguardino l’interiorità del discepolo, le ultime due la sua relazione con il Signore. I due imperativi negativi sono posti in conclusione alle due parti che compongono l’apodosi, quasi a indicare una intelligente pedagogia del maestro che inizia sempre proponendo consigli positivi. Infine due elementi circostanzia-

a lui affinché alla tua fine tu possa crescere.

e non ti allontanare

17 Cf. S. PINTO, «Ascolta figlio». Autorità e antropologia dell’insegnamento in Proverbi 1–9 (Studia biblica 4), Roma 2006.

18 Cf. R. SMEND, Die Weisheit des Jesus Sirach, Berlin 1906; J. HASPECKER, Gottesfurcht bei Jesus Sira- ch: ihre religiöse Struktur und ihre literarische und Doktrinäre Bedeutung (AnBib 30), Rome 1967.

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li aprono e chiudono la prima parte dell’apodosi: fanno riferimento al momento della prova e dell’avversità.

Eivj peirasmo,n non si riferisce solo a «prepara il tuo animo/preparati», ma anche a «orienta il tuo cuore» (eu;qunon th.n kardi,an sou) e «sii tenace» (karte,rhson): nel tempo della prova bisogna rimanere saldi avendo un cuore indi- viso nella fedeltà al Signore. Una stabilità che richiede costanza e continuità, che è a ogni costo, che sa essere paziente anche quando la prova diviene kairo,j evpagwgh/j, tempo dell’avversità.

Quest’ultima espressione, introdotta da un imperativo negativo («non ti angustiare», mh. speu,sh|j) che rafforza i consigli/imperativi precedenti, indica le circostanze avverse che possono affliggere il cuore del discepolo, un tempo di inevitabile, seria difficoltà nella quale il discepolo impara a sperare con animo sereno il tempo di Dio, senza cadere nella trappola della precipitazione nel tempo dell’oscura caligine e dell’incertezza.

Nelle parole iniziali del saggio Ben Sira c’è dunque un insegnamento sul- l’inevitabilità del peirasmo,j, da cui non preserva la fede nel Signore né l’inten- zione di apprendere la sapienza, essendo essa stessa soggetto della prova: così in 4,17-18: «camminerò con lui senza farmi vedere / prima di tutto lo metterò alla prova / quando il suo cuore si sarà riempito di me / 18lo ricondurrò alla retta via / e gli rivelerò i miei segreti». Il tempo della prova è dunque tempo per impara- re la stabilità paziente e riaffermare la propria fiducia nel Signore con cuore indi- viso, per rimanere nella relazione con lui. Non è perciò un tempo di rassegna- zione passiva né di turbamento interiore. In effetti l’ultimo versetto della prima parte dell’apodosi, come quello della seconda parte (v. 6: «Confida in lui ed egli ti aiuterà, / raddrizza le tue vie e spera in lui»), richiama con un altro imperativo («aggrappati a lui», kollh,qhti auvtw/|) la necessità di rimanere nella relazione con il Signore, rimanere uniti a lui, confidando in lui e accettando con makrothymia, con pazienza e longanimità, quanto egli permette, non dicendo esplicitamente il testo che Dio è il soggetto della prova, né trovandosi nel v. 5 una conferma evi- dente di questa interpretazione.

È evidente, mi pare, come Giacomo riprenda alcuni aspetti dell’articola- zione del discorso di Ben Sira definendo inoltre esplicitamente il suo invito a gioire nel tempo della prova come «sapienza», da chiedere con fiducia se non la si possiede:

5Ma se qualcuno di voi manca di sapienza, la chieda a Dio, che dà a tutti senza condi- zioni (a`plw/j)19 e senza rimproveri, e gli sarà data. 6Chieda però con fede, senza il mini- mo dubbio. Poiché chi dubita è simile a un’onda del mare mossa dal vento e spinta su e giù. 7Infatti non creda quell’uomo di ricevere qualcosa dal Signore: 8un uomo dal- l’anima divisa, incostante in tutte le sue vie.

Il testo combina vari riferimenti alla tradizione sapienziale. Indico solo Sir 2,1-6 nel riferimento alla fiducia indivisa, atteggiamento contrario all’incostanza

19 Leggo a`plw/j unito a dido,nai e non a pa/sin. Cf. MUSSNER, La Lettera di Giacomo, 103, nota 6.

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di chi non raggiunge una condizione di chiarezza e di certezza verso Dio; Sir 18,18 e 20,15 nel riferimento al fatto che Dio dona senza secondi fini e senza riserve, non alla maniera degli uomini che calcolano e recriminano; ma soprat- tutto Sap 9: la sapienza va domandata con fede.20

L’invito pressante di Giacomo a «chiedere» la sapienza è l’indicazione ricevuta dalla santa tradizione precedente a fissare con benedetta immediatezza, davanti a ogni umana pretesa di autosufficienza, l’imprescindibile necessità della sapienza perché il destino umano si avvii alla sua compiuta realizzazione, rima- nendo esso senza il suo aiuto imperfettibile. Dalla tradizione sapienziale Giaco- mo riceve e accoglie dunque un concetto di sapienza che non va intesa come nozione teorica, ma come conoscenza della volontà di Dio, un discernimento pratico che ritorna a vantaggio dell’opera perfetta (v. 4: «E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla»). Depri- vato della sapienza che viene dall’alto, anche il credente sarebbe insignificante agli occhi di Dio, computabile come ouvde,n (cf. Sap 9,6). La lezione di Sap 9 con la sua discreta polemica contro l’antropologia stoica è passata nella prospettiva di Giacomo: l’autosufficienza che impone a Dio come all’uomo una insufficiente reciproca comunicabilità pregiudica l’umana perfezione perché rende impossibi- le che l’offerta di una relazione originaria e originante che proviene da Dio costruisca una partnership in cui non ci può essere spazio per una presuntuosa autoreferenzialità. Di qui la valenza strutturale e innovativa della dimensione orante in rapporto al modello antropologico. Se la preghiera salomonica, come quella di ogni credente che chiede con fede la sapienza, contiene in sé una poten- te carica di autotrascendimento e se essa è investimento fecondo dell’umana fini- tezza che ne ricava maggiore, più chiara e gioiosa consapevolezza nella quale tro- vare riposo e paradossale gratitudine, tutto questo avviene soltanto perché la preghiera è sempre risposta a una rivelazione previa. Come in Sap, la sapienza è offerta in termini di vita spirituale, come ermeneutica della finitezza, rendendo- si essa accessibile, prevenendo, nel dono, chiunque voglia incontrarla. Essa con- ferisce a chi l’accoglie quella risolutezza che si contrappone alla divisione del cuore dell’avnh.r di,yucoj, dell’uomo sdoppiato, ondivago, dal cuore doppio, inca- pace di stabilità.

Giacomo recupera così anche la consapevolezza che con tutta evidenza e con sfumature diverse percorre la tradizione sapienziale (non solo quella depo- sitata negli scritti sapienziali): che la sapienza si può ottenere solo nella preghie- ra fiduciale, perché essa non si lascia raggiungere dallo sforzo della ricerca, per quanto quest’ultima non possa essere elusa. E in effetti la preghiera è una forma, forse «la forma» della ricerca, del cercare benedetto che riconosce e accetta il suo stesso limite.

20 Su Sap 9 rimando al bellissimo saggio di R. VIGNOLO, «Sapienza, preghiera e modello regale. Teo- logia, antropologia, spiritualità di Sap 9», in G. BELLIA – A. PASSARO (edd.), Il libro della Sapienza. Tradizio- ne, redazione, teologia (Studia biblica 1), Roma 2004, 271-300, a cui sono debitore per le successive consi- derazioni.

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Questa semplice e pur tuttavia decisiva verità, che afferma che l’inafferra- bilità dell’oggetto ricercato costituisce la condizione necessaria della ricerca,21 che dunque si fida nella fede dell’oggettivazione della rivelazione consegnata nella parola del maestro di sapienza, supera il vano discettare di figli dell’uomo che confidando in se stessi o nelle proprie capacità razionali si perdono nel vani- loquio di speculazioni allettanti e perverse che allontanano da Dio.22

Davanti a questa verità si impone il realismo dell’atteggiamento umile e modesto del credente, non tanto come atto virtuoso ma come condizione dell’in- contro benedetto con la rivelazione: questa è la sapienza. E in 1,20-21 (come in 3,13c) Giacomo userà l’espressione env praut< hti, nel contesto dell’invito ad acco- gliere e attuare la Parola. Si tratta dell’attitudine a cui fa anche riferimento Sir 3,17 – nel contesto della ricerca dei segreti di Dio – richiesta per accogliere la parola impiantata capace di salvare le anime. La sapiente mansuetudine del discepolo del maestro di sapienza o del credente è condizione per non cadere nelle spire di un’aggressiva autoreferenzialità che non fa conoscere e accogliere la sapienza.

2. SUL BUON USO DELLA LINGUA (3,1-12)

Nei primi 12 versetti del capitolo 3, Giacomo presenta un’interessante riflessione sull’intemperanza nel parlare. Lo sfondo di questa riflessione di taglio parenetico è offerta ancora da Ben Sira.23 Per questi infatti un’interessante esemplificazione di condotta umana ispirata dalla sapienza era il buon uso della lingua. Per il saggio formato dalla tradizione biblica, mancando il controllo del parlare è impossibile vivere una vita disciplinata e si incorre facilmente in nume- rosi difetti e mancanze che proprio nell’uso sconsiderato della lingua hanno la loro origine, potendo procurare il bene o il male. È un luogo pedagogico che si ritrova già in Proverbi (cf. 10,19: «Tra molte parole non manca la colpa, ma chi domina le labbra è un saggio»), un libro molto amato dal Siracide che a questo argomento dedica ben tre importanti brani: 5,9–6,1; 23,7-15 e 28,13-26. I tre testi affrontano il tema della disciplina della lingua da prospettive diverse anche se collegate. Conoscendo il testo ebraico soltanto del primo passo e dovendo fare affidamento per le altre due composizioni al testo greco del nipote e alle altre versioni antiche, per valutare e apprezzare in modo adeguato l’insegnamento sapienziale di Ben Sira si devono prendere in considerazione le connessioni

21 Cf. Qo 8,16-17, testo non estraneo alla riflessione di Ben Sira. Cf. su questo punto la sintesi pro- posta nel mio «La possibile lettura di un libro difficile», in G. BELLIA – A. PASSARO (edd.), Il libro del Qoelet. Tradizione, redazione, teologia, Milano 2001, 21-39, spec. 31-34; anche A. PASSARO, «The Secrets of God. Investigation into Sir 3:21-24», in PASSARO – BELLIA (edd.), The Wisdom of Ben Sira, 155-171.

22 Cf. PASSARO, «The Secrets of God», 168.

23 Cf. MUSSNER, La Lettera di Giacomo, 231. Su questo punto cf. A. LINDER, Lingua tripla, giogo ferreo e l’oro della parola. Studio esegetico di Sir 28,13-26 in parallelo con testi sapienziali egiziani, Roma 2001; J.I. OKOYE, Speech in Ben Sira with Special Reference to 5,9–6,1, Frankfurt a.M. 1995, e la recente messa a punto di A.A. DI LELLA, «Ben Sira’s Doctrine on the Discipline of the Tongue. An Intertextual and Synchronic Analysis», in PASSARO – BELLIA (edd.), The Wisdom of Ben Sira, 233-252.

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intertestuali con i libri biblici più antichi, su cui egli certamente dovette commi- surare quanto scriveva in merito alle ambigue potenzialità della lingua, delle lab- bra e della bocca che possono rivelarsi congegni di benedizione e di vita o di maledizione e di morte, strumenti di sapienza o di follia.

Un esempio indicativo di quest’ottica sapienziale sulle conseguenze disa- strose del parlare scorretto è in 23,9a.13a.15a, dove la triplice ripetizione del verbo suneqi,zw serve a enfatizzare le ragioni per cui non si dovrebbe mai acqui- sire l’abitudine di un simile parlare: chi ha contratto questa volgare abitudine «non diventerà mai disciplinato» e l’inopportuna «terza lingua» non potrà mai acquisire la sapienza. La cura pedagogica contro i disastri del parlare sconside- rato, non ha solo un valore etico e non è una regola di galateo del convivere sociale; per i sapienti l’intento è teologico, perché la disciplina della lingua serve a non «far scivolare» (28,26a) verso il peccato. In realtà in nessun altro libro del- l’Antico Testamento si incontra una riflessione così pervasiva su quel mondo che ruota attorno all’uso e all’abuso della lingua, delle labbra, della bocca e del pala- to come nel Siracide. Sono tutti termini del linguaggio, veri «organi della paro- la», o meglio, come più opportunamente è compreso il fenomeno dall’antropo- logia storica, sono tutti elementi simbolici, espressivi di quella «culturologia della parola»24 che l’influenza ellenistica del pubblico dibattito e il culto sinagogale rendevano esperienza frequente e ormai abituale, e dunque bisognosa di una vigilanza attenta da parte dei sapienti. L’uomo abile nel parlare, l’uomo «dalla doppia lingua» poteva seminare confusione e generare morte se si attardava in chiacchiere futili, in volgarità, in falsità e calunnie o, peggio, se faceva appello al nome del Signore con giuramenti vani e non necessari, per avere ragione. Il mae- stro di sapienza sa che il frutto della bocca può avere un effetto pedagogico devastante: può rendere non più credibile il dono della parola perché può tra- dursi anche in segno di presuntuosa autosufficienza.

Giacomo, erede di questa profonda intuizione,25 sottolinea proprio per i sapienti/maestri i rischi dell’intemperanza della lingua. Una sottolineatura che presenta i tratti della feconda paradossalità quando fa emergere anche riguardo a se stesso (cf. il lhmyo,meqa di 3,1b) il bisogno di «non ergersi in molti a maestri» (3,1: mh. polloi. dida,skaloi gi,nesqe), in quanto si tratta di una condizione che può generare pretese insostenibili e supponenze in ultimo antiecclesiali, perché diffi- cile è «non cadere nella lingua». Certamente Giacomo sta mettendo in guardia dalla ricerca di diventare «maestri» per cui tanti, molti, si industriano con spa- smodica ambizione, senza la benché minima consapevolezza della gravosa responsabilità che su questi (i.e. i maestri) incombe. Ma nella sua parenesi egli coglie il pericolo nascosto e l’inganno più perverso di questa solo apparente- mente buona aspirazione!26 L’inganno di dire parole che sostengono e testimo-

24 Cf. PASSARO – BELLIA, «Sirach, or the Metamorphosis of the Sage», 367. 25 Cf. anche P. Abot I,11: «Voi sapienti, siate prudenti nelle vostre parole». 26 Sui possibili motivi dell’attrattiva esercitata dall’essere maestri, cf. SCHRAGE, «La Lettera di Gia-

como», 75-76.

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niano autosufficienza è infatti rilevabile fenomeno nella comunità ecclesiale, come lo era tra gli scribi che interloquivano con Gesù. Non si tratta solamente di insegnare false o fuorvianti dottrine, ma di non riuscire a dominare – come inve- ce fa l’uomo perfetto (v. 2: avnh,r te,leioj) – il proprio parlare, essendo la parola che esce dalla bocca, il linguaggio che si formula, un microcosmo che rivela la verità o l’inganno del cuore, cioè della propria interiorità.

Il parlare che «presume molto di sé» (v. 5: mega,la auvcei/) tradisce menzogna e calunnia, e fa della lingua uno strumento pericoloso: «Anche la lingua: come un fuoco, come il mondo dell’ingiustizia, la lingua è posta tra le nostre membra!» (v. 6: kai. h` glw/ssa pu/r, o` ko,smoj th/j avdiki,aj, h` glw/ssa kaqi,statai evn toi/j me,lesin e`mw/n).27 Esso può rendere cenere l’ordito di relazioni comunitarie perché una lingua di menzogna, di calunnia, malvagia, corrompe la vita dell’uomo (così intendo l’espressione o` troco.j th/j gene,sewj del v. 6b) e dunque il mondo delle sue relazioni, anche quella con Dio.

L’insistenza di Giacomo sulle qualità negative della lingua (v. 8: avkata,staton kako,n, mesth. ivou/ qanathfo,rou, «male ribelle, piena di veleno morta- le») tradisce una situazione ecclesiale difficile nella quale la ricerca del successo, attraverso l’organizzazione di discorsi accattivanti o la proposta di insegnamen- ti che trovano i loro criteri e la loro ragione nella sapienza del mondo, gioca un ruolo determinante. Giacomo sottolinea perciò, insieme al pericolo del parlare che presume molto di sé, il giudizio severo che ricadrà su coloro che pervertono l’uso del linguaggio. Giacomo riferisce di essere a conoscenza insieme ai desti- natari del suo ammonimento (cf. l’eivdo,tej del v. 1) di questo giudizio perché ricor- da la parola dura e chiarificatrice di Gesù attestata nel Vangelo secondo Matteo: «Ma io vi dico: di ogni parola inutile (pa/n r`h/ma avrgo.n) che gli uomini diranno, dovranno rendere conto nel giorno del giudizio» (12,36). Il giudizio sarà duro perché grave è la responsabilità di coloro che sono chiamati a essere voce di una Parola in-audita, in-attesa, che un Altro dice.

Il ricorso all’esperienza generale dei vv. 9ss, piuttosto che depotenziare l’ammonimento rivolto a coloro che ambiscono a essere maestri, ha lo scopo di dare forza all’espressione finale: «Questo, fratelli, non deve avvenire» (v. 10b). Non deve accadere che, come già il saggio Ben Sira aveva testimoniato, si faccia appello al Signore, a lui ci si rivolga con parole convenienti nella preghiera, nel- l’invocazione e nella lode, non facendosi scrupolo però di usare le stesse parole per maledire la creatura dello stesso Dio.28 Le parole diverrebbero così luogo di vanità, di inconsistente idolatria, meglio: di perniciosa egolatria.

27 Cf. Sal 39,2.4; Pr 16,27; 26,1. Non essendo presente una copula tra glw/ssa e pu/r il verbo kaqi,statai va inteso come verbo del primo enunciato. Cf. MUSSNER, La Lettera di Giacomo, 231.

28 Si tratta di un motivo caro alla parenesi giudaica. Cf. ad es. Gen.R. 24,8: «Se disprezzi il prossimo, sappi chi disprezzi: a immagine di Dio egli l’ha creato»; FILONE, Decal. 93: «Sarebbe peccaminoso se dalla bocca con la quale si pronuncia il Nome santissimo, uscissero anche pessimi discorsi»; ecc.

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3. CONCLUSIONE

La Lettera di Giacomo è così la testimonianza del traghettamento in ambi- to cristiano della lezione dei saggi di Israele, del significato del loro messaggio. Una sorta di deuterosi dalla quale si apprende l’illusione e la vacuità di un’esi- stenza priva di quella pi,stij capace di discernere nelle pieghe del tempo, con vigile speranza, i tempi di Dio che dona la sua sapienza per una perfezione che renda credibile per ogni generazione il dono della Parola che salva.

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Die Darstellung Apk 11,3-13 und die literarische Einheitlichkeit der Apk

THOMAS WITULSKI

Während im Rahmen des Unterfangens, die Entstehung der neutesta- mentlichen Apokalypse zu erklären und die zahllosen sprachlichen und sachli- chen Auffälligkeiten im Textbefund als Resultat einen schlüssigen und in sich stimmigen Entwicklungsprozesses darzustellen, bis in die 70-er Jahre des letzten Jahrhunderts hinein immer wieder Quellen- und insbesondere auch Bearbei- tungshypothesen vorgelegt worden sind, scheint seit etwa 1975 die Apokalypse- forschung an diesem Punkt, von einigen wenigen Ausnahmen einmal abgesehen, weitgehend zur Ruhe gekommen zu sein. Ausgehend von der von W. Bousset vorgelegten Fragmentenhypothese, die dem Apokalyptiker und seinem theolo- gischen Darstellungsinteresse allerdings nur eine sehr geringe Rolle zuschreibt,1 hat sich die gegenwärtige Forschung, hier möglicherweise mehr der Not der bis dato letzten Endes sämtlich unbefriedigenden und wenig tragfähigen Modelle gehorchend, in einem unausgesprochenen Consensus augenscheinlich auf ein Erklärungsmodell zur Entstehung der Apk verständigt, das die Einheitlichkeit des Gesamtwerkes betont und die diesem inhärenten sprachlichen und inhaltli- chen Spannungen als das Resultat der Verknüpfung des vom Apokalyptiker ver- arbeiteten heterogenen Traditionsmaterials mit seinem eigenen theologischen Darstellungsinteresse erklärt. So formuliert beispielhaft etwa U. Schnelle unter Verweis auf J. Roloff: «Plausibler [als die von W. Bousset entwickelte Fragmen- tenhypothese] ist jedoch die Annahme, daß sich vermeintliche Spannungen aus dem heterogenen (und teilweise schriftlichen) Material und [!] den redaktionel- len Tendenzen des Verfassers ergeben. “Die Offenbarung ist, was ihre Gesamt- komposition betrifft, als ein einheitliches, konsequent aufgebautes Werk zu beur- teilen, das vom theologischen Willen seines Verfassers vom Anfang bis zum Ende geprägt ist”».2

Dementsprechend nehmen die neueren Kommentatoren in ihren Arbeiten zu literar- kritischen Fragen entweder erst überhaupt nicht Stellung – so etwa H. Giesen3 oder

1 W. BOUSSET, Die Offenbarung Johannis, Göttingen 61906, 129; vgl. insgesamt 108ff., 234ff. 2 U. SCHNELLE, Einleitung in das Neue Testament, Göttingen 62007, 559. 3 Vgl. hierzu nur H. GIESEN, Die Offenbarung des Johannes, Regensburg 1997, 5 und das dort vorge-

legte Inhaltsverzeichnis. Giesen legte seinen Kommentar in erster Auflage 1997 vor.

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G.K. Beale4 –, oder aber sie vertreten im Blick auf die Frage der Entstehung der Apk ein entwicklungsgeschichtliches Modell, innerhalb dessen sie zwar durchaus unter- schiedliche Stufen des Wachstums der Apk annehmen, diese unterschiedlichen Stufen aber letztlich alle auf denselben Autor, den Apokalyptiker nämlich, zurückführen – wie etwa D.E. Aune5 oder aber A. Satake.6 Letzteres ist vor allem der Tatsache geschuldet, daß die offensichtliche sprachliche Homogenität der Apk andere Erklärungsmodelle wie etwa Kompilationstheorien oder aber auch Theorien, die von der signifikanten Überarbeitung einer bereits bestehenden Apokalypse durch einen oder mehrere Redaktoren ausgehen, wenn nicht unmöglich, so aber doch zumindest unwahrscheinlich erscheinen läßt.7

Diesem gesicherten oder aber doch zumindest sicher geglaubten For- schungsconsensus zum Trotz läßt nun jedoch bereits die oberflächliche Lektüre des griechischen Textes der das Auftreten der beiden ma,rturej schildernden Sin- neinheit Apk 11,3-138 ein in der gegenwärtigen Literatur weitgehend nicht beachtetes, geschweige denn diskutiertes Problem erkennen, das zumindest die Frage aufzuwerfen vermag, ob die gegenwärtig vertretenen monoauktorialen Erklärungsmodelle die Entstehung der Apk wirklich zureichend erklären kön- nen, oder ob es nicht doch notwendig ist, im Blick auf diese Fragestellung wenn auch nicht gleich von einer Kompilationstheorie, so aber doch von der Annahme einer durchaus signifikanten Überarbeitung einer bereits bestehenden Apoka- lypse durch einen oder mehrere Redaktoren auszugehen. Bei diesem auffälligen, in der gegenwärtigen Forschung aber kaum besprochenen Sachverhalt9 handelt es sich um den doch recht abrupten10 Tempuswechsel vom Futur zum Aorist von

4 Vgl. hierzu G.K. BEALE, The Book of Revelation. A Commentary on the Greek Text, Grand Rapids- Carlisle (Cumbria) 1999, vii-ix; Beale veröffentlichte seinen Kommentar erstmals 1999.

5 Vgl. hierzu D.E. AUNE, Revelation 1–5, Dallas 1997, cxxff. 6 Vgl. hierzu A. SATAKE, Die Offenbarung des Johannes, Göttingen 2008, 67ff. 7 In diesem Sinne etwa AUNE, Revelation 1–5, cixf.: «The linguistic homogeneity of Revelation [...]

casts doubt on the validity of all compilation theories (hypotheses that Revelation is the product of the com- bination of two or more relatively extensive apocalypses written by different authors), though it is less pro- blematic for revision theories (a single extensive apocalyptic composition was subject to latter editorial expansion by a different hand...)».

8 Vgl. hierzu GIESEN, Die Offenbarung des Johannes, 248: «Die Ankündigung der Beauftragung zwei- er Zeugen schließt sich eng an die vorausgehende Vermessungsszene an. Der Seher will offenkundig die [...] Thematik fortführen. [...] zugleich [ist in Apk 11,3] ein Neuansatz erkennbar». U.B. MÜLLER, Die Offen- barung des Johannes, Gütersloh-Würzburg 21995, 208 spricht in diesem Zusammenhang von einer «deutli- che[n] Zäsur». Anders hier D.E. AUNE, Revelation 6–16, Nashville 1998, 610, der für eine deutlichere Tren- nung von Apk 11,3ff. von dem zuvor Ausgeführten votiert: «The abrupt way in which this text unit begins [...] is an argument against considering 11:3-14 as a major text unit following 10:1-11:2 [...] or 10:8-11:2». Es mag zwar durchaus sein, daß die vom Apokalyptiker in Apk 10f. verwendeten Traditionen unterschiedlichen Ursprungs sind, was den zugegebenermaßen abrupten Einstieg in Apk 11,3 erklären würde; daß er auf der Ebene des Endtextes den Textkomplex Apk 10f. (vgl. hierzu MÜLLER, Die Offenbarung des Johannes, 198, der Apk 10,1–11,4 als zusammenhängendes «Zwischenstück» analysiert) aber dennoch als inhaltliche und sachliche Einheit gesehen hat bzw. als eine solche darstellen wollte, kann m.E. nicht ernsthaft bezweifelt werden.

9 Auf diesen auffälligen Tempuswechsel kommt als einer von wenigen D. HAUGG, Die zwei Zeugen. Eine exegetische Studie über Apok 11,1-13, Münster 1936, 30, 49 zu sprechen; Haugg hat seine Studie aber bereits 1936 veröffentlicht.

10 Vgl. hierzu AUNE, Revelation 6–16, 587: «Somewhat surprisingly, this section is dominated by verbs in the past tense, as if it were a narrative of a past sequence of events».

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T. WITULSKI – Die Darstellung Apk 11,3-13

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Apk 11,10 zu Apk 11,11, mit dem – zumindest implizit – augenscheinlich zugleich auch ein Gattungswechsel einhergeht:11 Verwendet der Apokalyptiker in Apk 11,3-10 für die als Weissagung über zukünftige Ereignisse konzipierte Darstel- lung des Auftretens der beiden Zeugen bis zu ihrem Tod zunächst die Zeitfor- men Futur und Präsens,12 schildert er deren auf ihren Tod folgende Aufer- weckung und ihre daran anschließende Himmelfahrt Apk 11,11-13 als «mit eige- nen Augen» visionär geschaute Ereignisse im Aorist.13 Für diesen Tempus- und Gattungswechsel lassen sich der exegetischen Literatur m.W. folgende Erklärun- gen entnehmen:

a) Die Verwendung des im Grunde futurisch gedachten Aorists in Apk 11,11-13 wird auf der sprachlichen Ebene als Hebraismus interpretiert.14 Diese Annahme aber vermag als Erklärung letzten Endes kaum zuzureichen, denn mit ihr kann zwar die durchgängige Verwendung eines Vergangenheitstempus in einer Weissagung über zukünftige Ereignisse, kaum aber der hier in Apk 11 zu beobachtende Tempuswechsel, insbesondere nicht der Wechsel zwischen Futur und Aorist, erklärt werden.15

b) Ansätzen, die die Ursache für den häufigen Tempuswechsel in der psy- chologischen Verfaßtheit des Apokalyptikers bei der Abfassung von Apk 11 sehen,16 kommt eher der Charakter einer Verlegenheitsauskunft zu. Gleiches gilt für den Versuch, den augenscheinlichen Wirrwarr der in Apk 11,3-13 verwende- ten Tempora als Hinweis auf «una certa supertemporalità che isola questo epi- sodio dallo sviluppo lineare del libro e ne fa, sotto questo aspetto, un elemento a parte»,17 zu interpretieren. Letzteres hätte er erheblich leichter etwa dadurch

11 So m.R. I.T. BECKWITH, The Apocalypse of John. Studies in Introduction with a Critical and Exege- tical Commentary, New York 1919, 603: «In vv. 11-13 he [d.h. der Apokalyptiker] changes to the aor., as nar- rating what he had already seen and heard in vision». Eine solche Schilderung von visionär geschauten Ereignissen liegt etwa in Ez 37,1-10, dem augenscheinlichen Bezugstext zumindest von Apk 11,11, vor; vgl. hierzu W. ZIMMERLI, Ezechiel, 2: Ezechiel 25–48, Neukirchen-Vluyn 1969, 888: «Der Zusammenhang [Ez] 37,1-14 beginnt in 1-10 mit einem dramatisch ausgestalteten Visionsbericht».

12 Die Verwendung des Präsens innerhalb der Darstellung Apk 11,3-10 verdient bereits Beachtung, läßt sich aber durchaus schlüssig noch mit der Annahme erklären, daß der Apokalyptiker hier den durati- ven Charakter der entsprechenden Aussagen zu unterstreichen beabsichtigte; vgl. hierzu F. BLASS – A. DEBRUNNER, Grammatik des neutestamentlichen Griechisch, bearbeitet von F. REHKOPF, Göttingen 171990, § 318,2.

13 Vgl. hierzu immerhin HAUGG, Die zwei Zeugen, 31 mit Verweis auf E.-B. Allo: «Der Aorist Plural h;kousan fällt, wie die Zeitform der Verba in 11,11 und avne,bhsan in 11,12 unter die visionäre Schau, gehört zu den praeterita prophetica». Haugg spricht im Blick auf Apk 11,1-13 insgesamt von einem «prophetischen Visionsbericht» (vgl. auch 64).

14 Diese Möglichkeit deutet R.H. CHARLES, A Critical and Exegetical Commentary on the Revelation of St. John, Edinburgh 21950, I/II, cxxiii an.

15 Gleiches gilt auch für die von HAUGG, Die zwei Zeugen, 30 formulierte Erklärung: «Der Seher schaut, was sich weiterhin abspielt, bzw. für ihn ist die ferne Zukunft schon sichere Vergangenheit». Wenn dem so wäre, bleibt zu fragen, warum der Apokalyptiker in Apk 11 nicht von Anfang an im Aorist formu- liert hat.

16 So etwa E.-B. ALLO, Saint Jean. L’Apocalypse, Paris 31933, 154 (2ème édition).

17 U. VANNI, La struttura letteraria dell’Apocalisse, Roma 1971, 243f., im Jahr 1991 zustimmend auf- genommen von P. BYONG-SEOB MIN, I due testimoni di Apocalisse 11,1-13. Storia – Interpretazione – Teolo- gia, Roma 1991, 75.

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erreichen können, daß er anstelle zahlreicher unterschiedlicher Tempora durch- gängig das Präsens verwendet hätte.

c) Der häufige Tempuswechsel, damit auch der in Apk 11,11-13 durchgän- gig vorliegende Aorist, sei unmittelbar dem ihm vorliegenden unterschiedlichen Traditionsmaterial geschuldet, das der Apokalyptiker in Apk 11,3-13 verarbeitet habe.18 So richtig die Annahme ist, daß der Apokalyptiker gerade auch in Apk 11,3-13 traditionelles Material, nämlich die Überlieferung vom Auftreten zweier (endzeitlicher) Zeugen, verarbeitet hat,19 impliziert diese theoretisch immerhin denkbare, ausschließlich traditionsgeschichtlich motivierte Erklärung, wenn sie denn den Tempus- und Gattungswechsels erklären soll, allerdings, daß der Abschnitt Apk 11,11-13 als ein eigenständiges und von Apk 11,3-10 unabhängi- ges Traditionsstück existiert haben muß, eine Annahme, die sich traditionsge- schichtlich kaum plausibilisieren lässt.20 Zudem bleibt unbeantwortet, warum der Apokalyptiker das ihm vorliegende Traditionsmaterial dann nicht umgear- beitet und der Darstellung Apk 11,3-13 insgesamt eine homogene, der Gattung der Weissagung entsprechende, d.h. futurische Zeitstruktur implantiert hat.

d) Zumindest auf den ersten Blick will auch die Annahme, daß der Apo- kalyptiker, da er sich in seiner Schilderung in Apk 11,11 eng an Ez 37,5.10 ansch- ließe, die dort vorliegenden Formulierungen im Aorist einfach nur übernommen und dann in Apk 11,12f. den Aorist beibehalten habe, nicht unmöglich erschei- nen; damit aber würden die schriftstellerischen Fähigkeiten des Apokalyptikers – letzten Endes ungerechtfertigterweise – in ein denkbar schlechtes Licht gerückt, denn er ist, wie etwa die Aufnahme von Sach 4,3.11-14 in Apk 11,4 belegt, durchaus in der Lage, ihm vorliegende Traditionen in kreativer Weise neu zu gestalten.21

Will man die Ursache für den von Apk 11,10 zu Apk 11,11 zu beobachten- den Tempus- und Gattungswechsel nicht einfach nur in mangelhafter schriftstel- lerischer Präzision und mangelhafter schriftstellerischer Ausdrucksfähigkeit des

18 So etwa CHARLES, A Critical and Exegetical Commentary, cxxiii, A. 1: «No unity of time appears to be observed in it [d.h. in Apk 11]. [...] This disorder, which is most probably due to the fact that our author is using traditional materials...».

19 Vgl. hierz neben vielen anderen nur MÜLLER, Die Offenbarung des Johannes, 221: «Der Vergleich mit der [koptischen] Eliasapokalypse legt nahe, hinter Offb 11,3-13 eine eigenständige jüdische Tradition anzunehmen, die vom Kampf des endeitlichen Widersachers mit zwei Propheten [...], von deren Tod und Wiederbelebung handelt».

20 R. KEARNS, Das Traditionsgefüge um den Menschensohn. Ursprünglicher Gehalt und älteste Ver- änderung im Urchristentum, Tübingen 1986, 148ff. führt eine Reihe von Texten an, in denen die Tradition vom Auftreten von Elia und Henoch belegt ist; dabei bietet der eine Teil der entsprechenden Überlieferung «sowohl die Tötung als auch die Auferstehung der beiden Zeugen» (149), der andere Teil «nur die Tötung, nicht aber die Auferstehung» (150). Ein Beleg für die Auferstehung und die Himmelfahrt der beiden Zeu- gen ohne deren vorherige Tötung wird aber – im Blick auf die inhaltliche Logik auch durchaus nachvoll- ziehbar – vergebens gesucht.

21 Vgl. hierzu D. BAUCKHAM, The Climax of Prophecy. Studies on the Book of Revelation, Edinburgh 1993, 83f.: «This confirms other indications that the writers of apocalypses, Jewish and Christian, customari- ly incorporated preexisting items or blocks of traditional material. Such traditions might be reproduced very conservatively [...] or they might be adapted in highly creative ways to the author’s own purposes (as is usually the case in the Apocalypse of John [!])».

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Apokalyptikers vermuten,22 bleiben letzten Endes also zwei Erklärungen für diese literarische Auffälligkeit übrig, eine erste, die redaktionsgeschichtlich aus- gerichtet ist und die redaktionelle Arbeit des Apokalyptikers in den Blick nimmt, und eine zweite, die, über die erste hinausreichend, auf eine literarkriti- sche Option fokussisert ist:

1) Im Rahmen eines redaktionsgeschichtlich ausgerichteten Erklärungs- modells sind zwei Varianten denkbar: (a) Die gesamte Tradition vom Auftreten zweier (endzeitlicher) Zeugen lag dem Apokalyptiker als durchgängig im Aorist formulierter Visionsbericht vor. Den ersten Teil dieser Tradition arbeitete er in eine Weissagung um und fügte womöglich weiteres Material hinzu, den zweiten Teil seiner ihm vorliegenden Tradition übernahm er weitgehend unverändert. (b) Der Apokalyptiker konnte auf eine durchgängig im Futur formulierte Überlie- ferung zurückgreifen; im Zuge der Einarbeitung dieser Tradition bearbeitete er deren zweiten Teil als Visionsbericht und setzte ihn in den Aorist. In beiden Fäl- len wäre der Grund für die jeweilige Be- bzw. Umarbeitung der Tradition dann in der Darstellungs- und Aussageabsicht des Apokalyptikers zu suchen.23

2) Im Rahmen eines literarkritisch akzentuierten Ansatzes sind die Verse Apk 11,11-13 als nicht vom Apokalyptiker verfaßt, sondern von einer späteren Hand sekundär in den bereits vorliegenden Zusammenhang eingefügt anzuse- hen, ohne daß dieser Interpolator beachtet hätte, daß Apk 11,3-10 als Weissa- gung und nicht als Visionsbericht formuliert sind; die Einfügung erfolgte dann möglicherweise, um die Darstellung Apk 11 derjenigen Überlieferung anzuglei- chen, die das Auftreten von Elia und Henoch schildern und dabei sowohl deren Tod als auch deren daran anschließende Auferstehung bieten,24 oder aber, um die Ausrichtung der Botschaft durch die beiden ma,rturej als letzten Endes dann doch erfolgreiches Engagement zu präsentieren. Ob dem Interpolator, der dann Apk 11,11-13 hinzugefügt hätte, der ursprüngliche Bezug der Darstellung Apk 11,3-10 und dessen ursprünglicher historisch-zeitgeschichtlicher Hintergrund noch bewußt gewesen sind, müßte allerdings außerordentlich fraglich bleiben.

Um nun weitergehende Klarheit über die Ursache des Tempus- und Gat- tungswechsels von Apk 11,10 zu Apk 11,11 zu gewinnen, ist es methodisch gebo- ten, zunächst zu untersuchen, inwieweit sich zwischen der Darstellung Apk 11,3- 13 und der übrigen Apk einerseits und innerhalb der Darstellung Apk 11,3-13 selbst andererseits sprachliche und inhaltliche Inkongruenzen namhaft machen lassen. Hierbei ist zu beachten, daß es nicht ausreicht, lediglich die in Apk 11,3-

22 M. KOHLHOFER, Die Einheit der Apok, Freiburg 1902, 128 konstatiert: «Derselbe Wechsel der Ver- gangenheit mit Präsens und Futur findet sich übrigens auch in anderen Kapiteln, z.B. in 13; 20; 21; 22». Auch wenn diese Aussage weiterer Ausdifferenzierung bedarf, bleibt in der Tat richtig, das ein solcher Tempus- wechsel zwischen Futur und Präsens auf der einen und dem Aorist auf der anderen Seite auch etwa in Apk 20,5f.7f.9f. zu beobachten ist. Damit ist aber über dessen Ursache in Apk 11,3-13 letzten Endes noch nichts entschieden.

23 Denkbar ist, daß die Äußerungen HAUGG, Die zwei Zeugen, 50 in diesem Sinne zu interpretieren sind; Haugg vermerkt: «Das Futur wird deshalb häufiger gebraucht, da in den betreffenden Stellen die Beschreibung der Vision verlassen wird, um zukünftige Dinge ohne Bild vorherzusagen».

24 Vgl. hierzu 3.0. Fnn. 19 und 20.

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13 aufweisbaren hapax legomena nachzuweisen. Solche hapax legomena belegen an sich noch überhaupt nichts.25 Für den hier im Blick stehenden Fragehorizont sind vielmehr – natürlich neben den inhaltlichen – nur diejenigen sprachlichen Besonderheiten von Belang, für die in der übrigen Apk durchgängig andere Aus- drücke bzw. andere Formulierungen Verwendung finden. Die u.U. im Rahmen dieses Arbeitsschrittes aufgewiesenen Inkongruenzen sind dann daraufhin zu befragen, ob sie sich redaktionsgeschichtlich erklären lassen, d.h. ob sie aus der Übernahme traditionellen und geprägten Materials durch den Apokalyptiker resultieren, oder ob sie eine literarkritische Erklärung, d.h. die Annahme eines Interpolators, der nachträglich Ergänzungen in einen bereits weitgehend vorlie- genden Darstellungszusammenhang eingetragen hat, erforderlich machen. Die Antwort auf diese Frage impliziert dann nolens volens auch einen wichtigen Hin- weis zur Klärung der Eingangsfrage nach der Ursache des Tempus- und Gat- tungswechsels zwischen Apk 11,3-10 einer- und Apk 11,11-13 andererseits: Soll- ten sich keinerlei sprachliche und inhaltliche Inkongruenzen nachweisen lassen oder sollten sich die dann doch aufweisbaren sprachlichen und inhaltlichen Inkongruenzen redaktionsgeschichtlich erklären lassen, muß die Ursache für den Tempus- und Gattungswechsel zwischen Apk 11,3-10 und Apk 11,11-13 in der Darstellungs- bzw. Aussageabsicht des Apokalyptikers begründet liegen. Sollte das Postulat eines Interpolators erforderlich werden, wäre zu diskutieren, inwieweit sich der Tempus- und Gattungswechsel auf dessen Wirksamkeit zurückführen läßt.

1. SPRACHLICHE UND INHALTLICHE INKONGRUENZEN

1.1. Sprachliche und inhaltliche Inkongruenzen zwischen Apk 11,3-13 und der übrigen Apk

Zwischen der Perikope Apk 11,3-13 und der übrigen Apk lassen sich fol- gende sprachliche und inhaltliche Spannungen und Brüche ausmachen:

a) Die Wendung kai. dw,sw ))) kai. profhteu,sousin Apk 11,3 unterscheidet sich von den entsprechenden Formulierungen der übrigen Apk in folgender Hin- sicht: Sind das Prädikat dw,sw bzw. das Verbum dido,nai, wie hier in Apk 11,3, im Sinne von «die Erlaubnis geben, gestatten, die Macht/einen Auftrag geben» gefaßt,26 drückt der Apokalyptiker die mit dieser Erlaubnis oder Fähigkeit unmittelbar verknüpfte Handlungsmöglichkeit entweder mit einem Infinitiv (in

25 So m.R. CHARLES, A Critical and Exegetical Commentary, 271, der mit Blick auf einige von ihm für Apk 11,1ff. nachgewiesene hapax legomena formuliert: «These facts in themselves prove nothing»; ähnlich auch HAUGG, Die zwei Zeugen, 49: «Es gibt kein Kapitel in der Apok, daß nicht seine Sonderausdrücke hat». Haugg selbst allerdings verliert die hier diskutierte wichtige Differenzierung im Rahmen seiner Untersu- chung zur Einheitlichkeit der Perikope Apk 11,3-13 (47ff.) zugunsten eines sämtliche Spannungen und Brüche übermalenden Einheitlichkeitsstrebens gänzlich aus den Augen.

26 Vgl. hierzu etwa die Übersetzung von MÜLLER, Die Offenbarung des Johannes, 204.

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der Apk die weitaus häufigste Ausdrucksform, insgesamt neunmal: Apk 2,7; 3,21; 6,4; 7,2; 13,5 [hier ergänzent um das Akkusativobjekt th.n evxousi,an].7.15; 16,8; 17,17) oder aber mit einem mit der Konjunktion i[na c.coni. konstruierten Final- satz (Apk 9,5; 19,8) aus, niemals aber, wie hier in Apk 11,3 mit einem lediglich mit der Konjuktion kai, angeschlossenen Prädikat im Indikativ.27 Die in Apk 11,3 vorliegende, wohl als Hebraismus28 zu beschreibende Formulierung kai. dw,sw ))) kai. profhteu,sousin wird von R.H. Charles daher zurecht als «the only instance of this idiom in the Apocalypse»29 bezeichnet.

Dem Versuch von P.B.-S. Min, die Einmaligkeit der der Wendung kai. dw,sw ))) kai. profhteu,sousin Apk 11,3 in der Apk mit dem Verweis auf die s.E. ähnlich konstruier- te anakoluthische Formulierung ivdou. didw/ ))) ivdou. poih,sw Apk 3,9 zu bestreiten,30 widerrät allein schon der Sachverhalt, daß das hier in Apk 3,9 verwendete Verbum kai. dido,nai kaum im Sinne von «die Erlaubnis geben, gestatten, die Macht/einen Auftrag geben» interpretiert werden kann, sondern eher im Sinne von «preisgeben, hingeben» verstanden werden muß; die Personen bzw. die Personengruppe, um die es hier geht, wäre im Rahmen der vorliegenden Formulierung evk th/j sunagwgh/j ktl. als Akkusativ- und eben nicht, wie in Apk 11,3, als Dativobjekt zu ergänzen. Darü- ber hinaus verbietet allein schon die Wiederholung der Partikel ivdou vor dem Prädi- kat poih,sw Apk 3,9b die Annahme eines unmittelbaren Bezuges des letzteren auf das Prädikat didw/ Apk 3,9a.

Wer die grammatikalische Härte in der Formulierung Apk 11,3 umgehen und die bei- den Prädikate dw,sw und profhteu,sousin als nicht unmittelbar aufeinander bezogen interpretieren möchte, steht vor der Schwierigkeit, daß dann ein von dem Prädikat dw,sw abhängiges Akkusativobjekt, etwa th.n evxousi,an, zu ergänzen wäre, eine Annah- me, die durch den Text von Apk 11,3 aber in keiner Weise gedeckt ist.

b) Wann immer der Apokalyptiker in der Apk die Wendung e;cw ¿th.nÀ evx- ousi,an im Sinne von «Gewalt, Macht, Fähigkeit haben» gebraucht, steht das Akkusativobjekt ¿th.nÀ evxousi,an nach dem Verbum e;cw; dies zeigen etwa Apk 9,3; 11,6a; 14,18; 16,9 und 18,1. Lediglich in Apk 11,6b folgt das Verbum e;cw auf das entsprechende Akkusativobjekt ¿th.nÀ evxousi,an.31 Der Hinweis von D. Haugg, der diese auffällige Wortstellung mit der zunehmenden Lebhaftigkeit der Schilde- rung erklären möchte,32 vermag angesichts der Tatsache, daß unmittelbar zuvor, in Apk 11,6a und damit sicherlich auf dem gleichen Niveau der Lebhaftigkeit der

27 Vgl. hierzu auch BECKWITH, The Apocalypse of John, 599: «The obj. of dw,sw is contained in the clause kai. ktl., instead of dw,sw ma,rtusin profhteu,ein»; ähnlich auch CHARLES, A Critical and Exegetical Commentary, 272.

28 Vgl. hierzu CHARLES, A Critical and Exegetical Commentary, 280; ähnlich auch BYONG-SEOB MIN, I due testimoni di Apocalisse 11,1-13, 61, A. 14.

29 CHARLES, A Critical and Exegetical Commentary, 280; vgl. hierzu auch HAUGG, Die zwei Zeugen, 48.

30 Vgl. hierzu BYONG-SEOB MIN, I due testimoni di Apocalisse 11,1-13, 61: «Poi l’anacoluto del verset- to 3 [d.h. die Wendung in Apk 11,3] [...] è una forma che assomiglia alla costruzione del cap. 3,9 [...], e tutti i due potrebbero essere spiegati dall’influsso dell’ebraismo».

31 Vgl. hierzu CHARLES, A Critical and Exegetical Commentary, 272: «... here only in this order in the text of the Apocalypse», bestätigt von HAUGG, Die zwei Zeugen, 48.

32 Vgl. hierzu HAUGG, Die zwei Zeugen, 48: «Sobald die Schilderung lebhaft wird, steht das Subjekts- oder Objektsnomen in der Regel vor dem Verbum».

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Darstellung, eben die in der Apk sonst übliche Formulierung e;cw th.n evxousi,an begegnet, kaum weiterzuhelfen; die in Apk 11,6b vorliegende Wortstellung evxousi,an e;cousin, die offensichtlich nicht dem Sprachgebrauch des Apokalypti- kers entspricht, bedarf somit einer anderen Erklärung.

c) Zumindest auffällig ist, daß der Terminus po,lij h` mega,lh, der in Apk 11,8 auf die Stadt Jerusalem bezogen ist, wohingegen er in Apk 16,19; 17,18; 18,10.16.18.19.21 die insbesondere in diesen Kapiteln mit der theologischen Chiffre Babulw,n charakterisierte Hauptstadt des imperium Romanum, Rom nämlich,33 meint.34 Die metaphorische Begriffskombination Babulw,n h` mega,lh, in der die vom Apokalyptiker vorgenommene theologische Bewertung der Haupt- stadt des imperium Romanum noch unmittelbarer auf die Stadt Rom appliziert wird, begegnet darüber hinaus noch in Apk 14,8; 16,19; 17,5; 18,2.21. Wiederum mit R.H. Charles ist daher festzuhalten, daß der Begriff po,lij h` mega,lh «is used of Rome throughout the rest of the book [d.h. der Apk]».35

d) In der Vergangenheit haben bereits zahlreiche Exegeten beobachtet, daß das Verbum qewre,w im Sinne von «sehen, schauen» in der gesamten Apk nur in Apk 11,11 und Apk 11,12 begegnet.36 Ansonsten verwendet der Apokalypti- ker, wenn er diese Tätigkeit ausdrücken möchte, in großer Häufigkeit die Verben ble,pw und o`ra,w.37 Der Hinweis, daß es sich bei diesem Begriff um «una parola giovannea, caratteristica nel IV Vangelo»38 handelt, kann die diese Auffälligkeit nicht relativieren, da zumindest eo ipso nicht davon auszugehen ist, daß das vier- te Evangelium und die Apk vom gleichen Verfasser stammen. Darüber hinaus ließe sich, wenn dem denn so wäre, wiederum nicht plausibel erklären, warum dann dieser Terminus in der Apk nicht häufiger verwendet worden ist.

e) Die Wendung eivsh/lqen evn auvtoi/j Apk 11,11 stellt insoweit eine Beson- derheit dar, als innerhalb ihrer die üblicherweise und auch in der Textvorlage Ez 37,10 verwendete Präposition eivj mit angeschlossenem Akkusativobjekt durch die Präposition evn mit angeschlossenem Dativobjekt ersetzt worden ist.39 Die Verwendung der Präposition evn anstelle der Präposition eivj ist im NT einige wenige Male belegt,40 in der gesamten Apk allerdings nur in Apk 11,11; «evn kommt in der Apok über 160mal vor; es vertritt aber sonst [d.h. mit Ausnahme

33 Vgl. in diesem Zusammenhang J. WELLHAUSEN, Analyse der Offenbarung Johannis, Berlin 1907, 18.

34 Die Ausführungen von BYONG-SEOB MIN, I due testimoni di Apocalisse 11,1-13, 64 gehen an der Relevanz der hier diskutierten Beobachtung vorbei; es ist unbestritten, daß der Apokalyptiker den Termi- nus po,lij h` mega,lh in seiner Apk häufiger benutzt, aber eben nur in Apk 11,8 auf Jerusalem bezieht.

35 CHARLES, A Critical and Exegetical Commentary, 287; vgl. auch 273. An dieser Stelle sehr unpräzi- se HAUGG, Die zwei Zeugen, 50, der davon spricht, daß der Begriff «po,lij h` mega,lh [...] das irdische Jerusa- lem bedeuten» kann. Das mag stimmen; auffällig bleibt aber, daß dieser Terminus in der Apk nur in Apk 11,8 auf Jerusalem, ansonsten aber immer auf Rom bezogen ist. Vgl. hierzu auch SATAKE, Die Offenbarung des Johannes, 268: «Der Vf. verwendet “die große Stadt” sonst für Babylon».

36 Vgl. hierzu CHARLES, A Critical and Exegetical Commentary, 272. 37 Vgl. hierzu nur die Angaben bei HAUGG, Die zwei Zeugen, 30. 38 BYONG-SEOB MIN, I due testimoni di Apocalisse 11,1-13, 61; ähnlich auch HAUGG, Die zwei Zeugen, 30. 39 Was von einigen Abschreibern auch postwendend korrigiert worden ist; vgl. hierzu nur die Anga-

ben im textkritischen Apparat des NA27 und HAUGG, Die zwei Zeugen, 30. 40 Vgl. zu diesem Phänomen BLASS – DEBRUNNER, Grammatik des neutestamentlichen Griechisch, §

218,3.

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von Apk 11,11] nicht eivj».41 In der Regel konstruiert der Apokalyptiker das Ver- bum eivse,rcomai mit eivj c.acc., wie die immerhin drei Belege für die entsprechen- de Konstruktion des Verbums in der Apk, Apk 15,8; 21,27; 22,14,42 zeigen. Die in Apk 11,11 vorliegende Formulierung eivsh/lqen evn auvtoi/j entspricht also deutlich nicht dem Sprachgebrauch des Apokalyptikers.43

f) Innerhalb der gesamten Apk reagieren nur in der Darstellung Apk 11,13 die Überlebenden einer Katastrophe bzw. Plage auf eben dieses Ereignis mit Schrecken und, daran anschließend, mit ihrer Hinwendung zu Gott. Nach Apk 9,20f.;44 16,9.11.21 bekehren sich die entsprechenden Überlebenden nicht von ihren gottfeindlichen Werken, sondern fahren in ihrer Gotteslästerung und mit ihrer gottfeindlichen Haltung fort, nach Apk 6,15-17 verbergen sich die die Men- schen angesichts der geschilderten Katastrophen, ohne daß von ihrer Umkehr zu Gott45 berichtet würde.46 Die in Apk 11,13 formulierte Hinwendung der Überle- benden zu Gott als Reaktion auf eine Naturkatastrophe steht in der Apk insge- samt somit singulär dar.47

Darüber hinaus gilt es, im Blick auf die theologische Zielrichtung der Apk insgesamt festzuhalten, daß es dem Apokalyptiker mit seinem Werk nicht darum geht, Mission und missionarische Verkündigung zu treiben und damit zum Wach- sen der christlichen Gemeinde bzw. Gemeinden beizutragen oder über die Aus- breitung des christlichen Glaubens zu berichten.48 Sein theologisches Anliegen ist es vielmehr, «die eigentlichen Mächte zu enthüllen, die die Christen [in seiner Gegenwart] bedrohen, um sie dadurch davor zu bewahren, sich von Gott und seinem Christus loszusagen»,49 der Verfasser der Apk ruft seine Adressaten zu Glaubenstreue und Standhaftigkeit angesichts von Bedrohungen und Bedräng-

41 HAUGG, Die zwei Zeugen, 30. 42 Vgl. hierzu auch BYONG-SEOB MIN, I due testimoni di Apocalisse 11,1-13, 59 mit A. 9. 43 Diese Tatsache wird von BYONG-SEOB MIN, I due testimoni di Apocalisse 11,1-13, 59 sehr wohl gese-

hen, im weiteren Verlauf der Diskussion der Frage, ob es sich bei Apk 11,1-13 um «un corpo estraneo ris- petto al resto del libro» (60) handelt, m.W. aber nicht weiter verfolgt; ähnlich schweigsam auch HAUGG, Die zwei Zeugen, 47ff.

44 Vgl. immerhin zu Apk 9,21 HAUGG, Die zwei Zeugen, 34 und GIESEN, Die Offenbarung des Johan- nes, 258.

45 Zur Deutung der Wendung e;dwkan do,xan tw/| qew/| tou/ ouvranou/ im Sinne von «Bekehrung zu Gott» vgl. neben vielen anderen AUNE, Revelation 6–16, 628f.: «Here in 11:13, giving glory to God is clearly the con- sequence of repentance, i.e., conversion» (628); anders hier GIESEN, Die Offenbarung des Johannes, 259.

46 Auf diesen Sachverhalt macht bereits J. MUNCK, Petrus und Paulus in der Offenbarung des Johan- nes. Ein Beitrag zur Auslegung der Apokalypse, Kopenhagen 1950, 19 aufmerksam, verzichtet aber auf die Auswertung dieser Beobachtung im Rahmen einer Diskussion literarkritischer oder redaktionsgeschichtli- cher Fragestellungen.

47 Nach BAUCKHAM, The Climax of Prophecy, 258 scheint das Konzept einer durch Naturkatastro- phen ausgelösten Hinkehr zu Gott dem theologischen Impetus des Verfassers der Apk nachgerade zu widersprechen; im Blick auf den Zusammenhang Apk 9,20f.; 10,1ff. bemerkt er: «The point is that, whereas judgments alone have failed to bring the world to repentance and faith in God, the scroll is to reveals a more effective strategy».

48 So m.R. BEALE, The Book of Revelation, 607: «However, a conversion at the time of historical con- summation is an idea found nowhere else in the Apocalypse, one that contradicts [!] the basic thought that those to be redeemed are “a limited group” or remnant who are delivered from the world of unbelief». Anders hier BAUCKHAM, The Climax of Prophecy, 238 u.ö.

49 GIESEN, Die Offenbarung des Johannes, 30.

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nissen von Seiten ihrer paganen Umwelt auf – was seinerseits wiederum zu der Darstellung in Apk 9,20f.; 16,9.11.21; 6,15-17 durchaus paßt. Insofern will schei- nen, daß der augenscheinliche missionarische, besser: bekehrungstheologische Impetus von Apk 11,13 in eine gänzlich andere, von derjenigen des Impetus des Gesamtwerkes durchaus zu unterscheidende Richtung weist.

1.2. Sprachliche und inhaltliche Inkongruenzen innerhalb der Perikope Apk 11,3-1350

Innerhalb der Perikope selbst lassen sich folgende sprachliche und inhalt- liche Spannungen und Brüche konstatieren:

a) Im Rahmen des Duktus der Darstellung von Apk 11,3-13 muß auffallen, daß die evcqtroi, der beiden ma,rturej in Apk 11,12 als aktiv Handelnde auf der Bildfläche erscheinen, obwohl diese nach Apk 11,5a allenfalls eine «hypotheti- sche» Rolle spielen und in Apk 11,9f. – entsprechend der in Apk 11,5a beschrie- benen Fähigkeit der beiden Zeugen, ihre Feinde mit Feuer aus ihrem Mund zu vernichten – keinerlei Erwähnung finden, wiewohl es doch angebracht wäre, gerade hier den Jubel und die Freude der solchermaßen bedrohten evcqtroi, der beiden ma,rturej im Angesicht ihres augenscheinlich endgültigen Untergangs zu schildern.51 Hingegen begegnen in Apk diejenigen evk tw/n law/n kai. fulw/n kai. glwssw/n kai. eqnw/n, die nach Apk 11,9 dafür verantwortlich sind, daß die Leichen der beiden ma,rturej nicht sofort bestattet werden, in Apk 11,11f. nicht mehr.

b) Nächst diesem überrascht, daß das qhri,on, das in Apk 11,7 auf den Plan tritt und die beiden ma,rturej besiegt und tötet, in Apk 11,9f. und insbesondere in Apk 11,11f.13 nicht mehr erscheint, ohne daß zuvor davon berichtet würde, daß es sich von dem Ort des Kampfes (11,7), der von der po,lij h` mega,lh Apk 11,8 sicherlich nicht allzuweit entfernt gedacht werden darf, wegbewegt hätte.

c) Nicht überlesen werden darf, daß in Apk 11,8f. zur Bezeichnung der Körper bzw. der Leichname der beiden Zeugen sowohl der grammatikalisch inkongruente Singular ptw/ma als auch der grammatikalisch korrekte Plural ptw,mata begegnet; besonders bemerkenswert ist das Nebeneinander der beiden Formen im unmittelbaren Zusammenhang der Darstellung Apk 11,9. Da durch- aus davon ausgegangen werden kann, daß auffällige Inkongruenzen zum Sprach- stil des Apokalyptikers gehörten,52 bleibt zu erklären, warum in Apk 11,9b dann der (korrekte) Plural ptw,mata Verwendung gefunden hat.

50 Zur Auffälligkeit der Formulierung evxousi,an e;cousin Apk 11,6b gerade auch im Angesicht von Apk 11,6a vgl. bereits S. 397.

51 Das Votum von HAUGG, Die zwei Zeugen, 32: «Der Triumph der Feinde ist nun ganz der Triumph der beiden Zeugen geworden», geht über diese inhaltliche Unebenheit doch allzuleicht hinweg.

52 Vgl. hierzu nur BLASS – DEBRUNNER, Grammatik des neutestamentlichen Griechisch, § 136, 112: «Die Apk zeigt im Gegensatz zm übrigen NT, auch zu den anderen Jh-Schriften, eine Menge der auffälligsten Solözismen, die namentlich auf Vernachlässigung der Kongruenz beruhen». Ein ähnlicher Solözismus liegt in Apk 11,4 vor; vgl. hierzu neben anderen HAUGG, Die zwei Zeugen, 17, Anm. 26.

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d) Schließlich verdient Beachtung, daß die in Apk 11,13 geschilderte Umkehr der von dem Erdbeben Verschonten nicht, wie aufgrund von Apk 11,3ff. doch zu vermuten gewesen wäre, durch die Bußpredigt der beiden ma,rturej, son- dern offensichtlich eben durch die Naturkatastrophe motiviert wird. Dies wirft die Frage nach dem inhaltlichen Zusammenhang von Apk 11,13 und Apk 11,3.7 auf.

2. ERKLÄRUNGSANSÄTZE

Die Durchsicht der hier aufgezeigten sprachlichen und inhaltlichen Inkon- gruenzen zwischen der Darstellung Apk 11,3-13 und der übrigen Apk einer- und innerhalb der Darstellung Apk 11,3-13 selbst andererseits läßt zunächst die Annahme, der Apokalyptiker habe hier gänzlich eigenständig formuliert, unwahrscheinlich erscheinen; dagegen sprechen deutlich u.a. die Verwendung des Verbums qewre,w in Apk 11,11f. und die Apk 11,11 begegnende Formulierung eivsh/lqen evn auvtoi/j. Verdanken sich – und dies ist in diesem Zusammenhang die entscheidende Frage – verdanken sich diese sprachlichen und inhaltlichen Inkongruenzen nun aber der Übernahme traditionellen und geprägten Materi- als durch den Apokalyptiker, oder ist es, darüber hinausgehend, notwendig, zumindest im Blick auf die Darstellung Apk 11,3-13 einen Interpolator, der nachträglich Ergänzungen in einen bereits weitgehend vorliegenden Darstel- lungszusammenhang eingetragen hat, zu postulieren?

Einen ersten Hinweis zur Beantwortung dieser Frage liefert eine in der Exegese vielfach geäußerte Beobachtung im Blick auf den Umgang des Apoka- lyptikers mit dem Alten Testament; zwar gilt einerseits, daß das Alte Testament für die theologische Argumentation und auch die Darstellungsweise des Apoka- lyptikers von eminenter Bedeutung sind,53 andererseits aber ist nicht von der Hand zu weisen, daß der Apokalyptiker das Alte Testament an keiner Stelle wörtlich zitiert, sondern allenfalls in Form einer Anspielung auf dessen Inhalte und Formulierungen Bezug nimmt.54 Das aber impliziert, daß der Apokalyptiker mit dem ihm vorliegenden Traditionsmaterial nicht nur inhaltlich, sondern auch sprachlich in der Regel in einer freien und kreativen Weise umzugehen pflegte, was wiederum die Annahme gänzlich unwahrscheinlich erscheinen läßt, er habe traditionelles Material einfach um dessen traditioneller Dignität willen in sein

53 Vgl. hierzu BEALE, The Book of Revelation, 97: «Therefore, the conclusion of this brief overview is that the place of the OT in the formation of thought in the Apocalypse is that of both a servant and a guide: for John the Christ-event is the key to understanding the OT, and yet reflection on the OT context leads the way to further comprehension of this event and provides the redemptive-historical background against which the apocalyptic visions are better understood; the New Testament interprets the Old and the Old interprets the New».

54 Vgl. hierzu wiederum instruktiv BEALE, The Book of Revelation, 77: «The text form of OT refe- rences in Revelation needs in-depth discussion since there are no formal quotations and most are allusions, a phenomenon often making identification of such references more difficult».

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Werk eingearbeitet, auch wenn dieses dem Duktus seiner Argumentation und seinem Darstellungsinteresse nicht ent- oder gar widerspräche.

Ein ähnliches, möglicherweise sogar noch deutlicheres Ergebnis zeitigt die Analyse der Art und Weise der Verwendung und Verarbeitung nicht-alttesta- mentlichen apokalyptischen Traditionsmaterials durch den Verfasser der Apk. Als Beispiel sei hier die Tradition von der Vervollständigung der Zahl der Mär- tyrer diskutiert, die in Apk 6,9-11 sowohl als auch in 1Hen 47,1-4, 4Esr 4,35-37 und 2(syr)Bar 23,4.5a aufgenommen worden ist. Im einzelnen liegt folgendes Textmaterial vor:

Apk 6,9-11: 9Kai. o[te h;noixen th.n pe,mpthn sfragi/daà ei=don u`poka,tw tou/ qusiasthri,ou ta.j yuca.j tw/n esfagme,nwn dia. to.n lo,gon tou/ qeou/ kai. dia. th.n marturi,an h]n ei=con. 10kai. e;kraxan fwnh|/ mega,lh| le,gontej\ evwj po,te( o` despo,thj o` a[gioj kai. avlhqino,jà ouv kri,neij kai. evkdikei/j to. ai=ma h`mw/n evk tw/n katoikou,ntwn evpi. th/j gh/jÈ 11kai. evdo,qh auvtoi/j e`ka,stw| stolh. leukh. kai. evrre,qh auvtoi/j i[na avnapau,swntai e;ti cro,non mikro,nà e[wj plhrwqw/sin kai. oi` su,ndouloi auvtw/n kai. oi` avdelfoi. auvtw/n oi` me,llontej avpokte,nnesqai w`j kai. auvtoi,.

1Hen 47,1-4:55 1) In jenen Tagen wird das Gebet der Gerechten und das Blut der Gerechten von den Herrn der Geister aufsteigen. 2) In diesen Tagen werden die Heiligen, die oben in den Himmeln wohnen, einstimmig fürbitten, beten, loben, danken und preisen den Namen des Herrn der Geister wegen des Bluts der Gerechten und [wegen] des Gebets der Gerechten, daß es vor dem Herrn der Geister nicht vergeblich sein möge, daß das Gericht für sie vollzogen und der Verzug [desselben] für sie nicht ewig dauere. 3) In jenen Tagen sah ich, wie sich der Betagte auf den Thron seiner Herrlichkeit setzte, und die Bücher der Lebendigen vor ihm aufgeschlagen wurden, und sein ganzes Heer, das oben in den Himmeln und um ihn herum ist, vor ihm stand. 4) Die Herzen der Heiligen waren von Freude erfüllt, weil die Zahl der Gerechtigkeit «nahe», das Gebet der Gerechten erhört, und das Blut des Gerechten vor dem Herrn der Geister gerächt war.56

4Esr 4,35-37:57 (35) Haben nicht schon die Seelen der Gerechten in ihren Kammern diese Fragen gestellt, als sie sagten: Wie lange soll ich noch so war- ten?58 Wann kommt die Frucht auf der Tenne unseres Lohnes? (36) Darauf hat der Erzengel Jeremiel geantwortet und gesagt: Dann, wenn die Zahl derer voll ist, die euch ähnlich sind. Denn er hat die Welt auf der Waage gewogen, (37) mit

55 Zur Datierung der sog. Bilderreden des 1Hen (1Hen 37-71) vgl. BAUCKHAM, The Climax of Pro- phecy, 50, A. 35; die in der Forschung gebotenen Datierungen schwanken vom 1. Jh. v.Chr. bis hin zum spä- ten 1. Jh. n.Chr., G. OEGEMA, «Apokalypsen», in H. LICHTENBERGER – G. OEGEMA (Hg.), Supplementa. Ein- führung zu den Jüdischen Schriften aus hellenistisch-römischer Zeit (JSHRZ VI 1,5), Gütersloh 2001, 134 datiert die Bilderreden in die Zeit von 105-64 v.Chr.

56 Text nach G. BEER (Hg.), «Das Buch Henoch», in E. KAUTZSCH (Hg.), Die Apokryphen und Pseu- depigraphen des Alten Testaments, 2: Die Pseudepigraphen des Alten Testaments, Tübingen u.a. 1900, 217- 310, 263.

57 Nach OEGEMA, «Apokalypsen», 98 wird die Abfassung des 4Esr gewöhnlich in die Zeit um 100 n.Chr. datiert.

58 Vgl. hierzu bereits 4Esr 4,33.

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T. WITULSKI – Die Darstellung Apk 11,3-13

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dem Maß die Zeiten gemessen, nach der Zahl die Epochen abgezählt. Er setzt nicht in Bewegung und weckt nicht auf, bis das festgesetzte Maß erfüllt ist.59

2(syr)Bar 23,4.5a:60 (4) Denn als Adam sündigte und der Tod verhängt wurde über die, die noch geboren werden sollten, da war die Menge derer, die noch entstehen sollten, gezählt. Und für jene Menge ward ein Ort bereitet, wo die Lebenden wohnen und die Toten aufbewahrt werden sollten. (5a) Erst wenn die vorbestimmte Zahl erreicht ist, wird die Kreatur wiederaufleben.61

Eine Durchsicht der vier Texte zeigt zunächst, daß in allen zugleich der Gedanke einer bestimmten Anzahl von Menschen, deren Vollständigkeit zu einem zukünftigen, eschatologischen Zeitpunkt erreicht sein wird, begegnet.62 Darüber hinaus ist erkennbar, daß die Frage nach diesem zukünftigen eschato- logischen Zeitpunkt in allen vier Texten eine wichtige Rolle spielt; in Apk 6,10 und 4Esr 4,35 wird diese Frage explizit gestellt, in den Passagen aus 1Hen und 2(syr)Bar steht sie zumindest implizit im Hintergrund.63 Damit ist in jedem Falle nicht mehr zu bezweifeln, daß in allen vier Texten eine gleiche bzw. weitestge- hend ähnliche Tradition Verwendung gefunden hat.

Neben diesen grundlegenden Übereinstimmungen läßt sich aber auch eine wesentliche Differenz zwischen den vier Darstellungen nicht übersehen; die Gruppe der Menschen, die es jeweils zu komplettieren gilt, wird in jedem Text anders charakterisiert: In Apk 6,9ff. muß vor dem Eintreffen des Gerichtes Gott- es die Zahl derjenigen vervollständigt werden, die um des Wortes Gottes und um ihres Zeugnisses willen umgebracht worden sind (Apk 6,9), in 1Hen 47,1ff. die Zahl der von ihren Herrschern und Mächtigen (1Hen 46,4ff.) getöteten Gerech- ten,64 in 4Esr schlicht die Menge der Gerechten,65 in 2(syr)Bar 23,4.5a schließlich die Anzahl der lebenden Menschen überhaupt. Die jeweils unterschiedliche Cha- rakterisierung und Beschreibung der jeweils zu vervollständigenden Menschen- gruppe entspricht in jedem der vier Werke dem jeweiligen Kontext und dem jeweiligen Argumentationsduktus:66 In der Apk handelt es sich dementspre-

59 Text nach J. SCHREINER (Hg.), Das 4. Buch Esra, Gütersloh 1981, 321.

60 Zur Datierung des 2(syr)Bar in die Zeit zwischen 100 und 130 n.Chr. vgl. OEGEMA, «Apokalyp- sen», 60.

61 Text nach A.F.J. KLIJN (Hg.), Die syrische Baruch-Apokalypse, Gütersloh 1976, 107-191, hier 138f.

62 Vgl. hierzu BAUCKHAM, The Climax of Prophecy, 51: «What the frour texts have in common is the idea of a “number” of people which will be “completed” at the eschatological moment».

63 Vgl. hierzu 1Hen 47,2.4 und 2(syr)Bar 21,19. In diesem Sinne auch BAUCKHAM, The Climax of Pro- phecy, 51: «It could also be said that in all four texts this idea [d.h. der Gedanke einer vollständigen Anzahl von Menschen zu einem eschatologischen Zeitpunkt] is advanced as an answer to the question (explicit or implicit), “How long” (i.e. how long will it be until the eschatological intervention of God?)».

64 Nach BEER (Hg.), «Das Buch Henoch», 263, Anm. k handelt es sich bei den hier angesprochenen Gerechten um «[pharisäische] Märtyrer, die in der syr.[ischen] Religionsnot und dann von den Makkabäern selbst, z.B. von Alexander Jannäus, hingerichtet wurden»; vgl. hierzu aber 1Hen 46,7, ein Hinweis, der dafür spricht, daß der Terminus «Gerechter» hier nicht auf den Märtyrer eingeengt werden darf; vielmehr schei- nen damit alle gemeint zu sein, die sich dem Gesetz entsprechend verhalten haben bzw. verhalten.

65 4Esr 4,23 scheint darauf hinzuweisen, daß unter hier genannten Gerechten das fremden Herrn und Mächten ausgelieferte Volk Gottes zu verstehen ist.

66 Vgl. hierzu BAUCKHAM, The Climax of Prophecy, 52: «In each case, the category relates to concern of the whole work».

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chend um die Gemeinschaft derjenigen, die in Bedrängnis um ihres Glaubens willen standhaft geblieben und letztlich auch bereit gewesen sind, dafür den Tod auf sich zu nehmen; der Begriff des «Gerechten», so wie er in 1Hen 47 und 4Esr 4 Verwendung findet, begegnet in Apk 6,9ff. nicht, erst recht nicht der Gedanke der Gesamtheit der auf der Welt lebenden Menschen wie in 2(syr)Bar 23.

Auch wenn literarische Abhängigkeiten der Texte untereinander nicht mit Notwendigkeit nachgewiesen werden können,67 so lassen sie sich doch je einzeln zwanglos jeweils als kontextuelle Adaption einer gemeinsamen Tradition verste- hen, deren Grundbestand sich als eine Szene, in der eine sich von der Umwelt entscheidend unterscheidende Gruppe von Personen um eine göttliche Inter- vention nachsucht und eine Antwort erhält, die auf die zuvor noch notwendige Vervollständigung ihrer Mitglieder abhebt,68 beschreiben läßt. Mit dem in dieser Weise definierten Grundbestand wird der Tatsache Rechnung getragen, daß drei der vier hier diskutierten Texte, Apk 6, 1Hen 47 und 4Esr 4 eben diesen Grund- bestand in ähnlicher Weise aufweisen;69 die Ausführungen in 2(syr)Bar 23,4.5a, die von diesem in dieser Weise skizzierten Grundbestand in doch erheblichem Maße abweichen – von einer besonderen Gruppe von Menschen ist hier genau- sowenig die Rede wie von einer Situation der Bedrängnis und einer daraus sich ergebenden situativen Dramatik –, müssen als die weitestgehendste Weiterent- wicklung und Veränderung der entsprechenden Überlieferung verstanden wer- den.70 Da in den ältesten beiden der drei Texte jüdischer Provenienz, in 1Hen 47 und 4Esr 4, die in Rede stehende Personengruppe mit den Begriff «Gerechte» bezeichnet wird,71 will die Annahme nicht unwahrscheinlich erscheinen, daß es sich dabei um den mit dieser Tradition ursprünglich verhafteten Terminus han- delt. Der Apokalyptiker hätte dann diesen ihm aus der Tradition vorgegebenen Begriff durch die Wendung ai` yukai. tw/n evsfragme,nwn dia. to.n lo,gon tou/ qeou/ kai. dia. th.n marturi,an h]n ei=con ersetzt, um die Überlieferung auf den Kontext seiner Argumentation hin zuzuspitzen und die Tradition in den Duktus seiner Darstel- lung einzugliedern; aus den «Gerechten der Tradition» wurden Märtyrer, solche also, die in Bedrängnissen standhaft geblieben und ihren christlichen Glauben nicht verleugnet haben.72 Diese Überlegung, ergänzt um die Feststellung, daß

67 Vgl. hierzu m.R. BAUCKHAM, The Climax of Prophecy, 54: «It seems best to conclude that the rela- tionships between the four texts we have studied do not result from direct literary dependence between them»; vgl. hierzu auch die von Bauckham aufgewiesenen inhaltlichen Übereinstimmungen zwischen jeweils zweien der vier diskutierten Texte The Climax of Prophecy, 52f. Anders hier P.-M. BOGAERT, L’Apo- calypse de Baruch, Paris 1969, I, 26f.

68 Vgl. hierzu BAUCKHAM, The Climax of Prophecy, 52: «A scene in which a question is asked or a prayer offered by the righteous people who desire the eschatological intervention of God and some kind of answer is given, related to the idea of the completion of the number of people».

69 Vgl. zu dieser Beobachtung BAUCKHAM, The Climax of Prophecy, 52.

70 Vgl. hierzu sprechend AUNE, Revelation 6–16, 408, der als Parallelen zu Apk 6,10 sehr wohl 1Hen 47,4 und 4Esr 4,35-37, nicht aber 2(syr)Bar 23,4.5a anführt. In diese Richtung auch BAUCKHAM, The Climax of Prophecy, 53f.

71 Diese Parallelität ist umso auffälliger, da sich zwischen diesen beiden Texten sonst kaum eine Ähnlichkeit konstatieren läßt; vgl. hierzu BAUCKHAM, The Climax of Prophecy, 53.

72 GIESEN, Die Offenbarung des Johannes, 183 weist m.R. darauf hin, daß in der Apk nur Antipas explizit als Märtyrer genannt wird (Apk 2,13) und folgert entsprechend, daß hier in Apk 6,9 «wohl an frühe-

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T. WITULSKI – Die Darstellung Apk 11,3-13

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das in Apk 6,9-11 vorfindliche Vokabular weitestgehend dem entspricht, das auch sonst in der Apk verwendet wird,73 läßt die Annahme mehr als wahr- scheinlich erscheinen, daß der Apokalyptiker an dieser – und dann natürlich auch an anderer74 – Stelle ihm vorliegendes Traditionsmaterial nicht einfach nur übernommen, sondern dem Impetus seiner Argumentation, dem Zielpunkt sei- nes Darstellungsinteresses und offensichtlich auch seinen sprachlichen Gepflo- genheiten entsprechend überarbeitet hat.

Angesichts all dessen läßt sich die Annahme, der Apokalyptiker habe das seiner Darstellung an anderer Stelle entgegenstehende und seiner theologischen Zielrichtung insgesamt nicht entsprechende, in Apk 11,13 aufscheinende Motiv der Hinkehr zu Gott aufgrund einer zuvor sich ereignenden Naturkatastrophe unkritisch aus dem ihm vorliegenden Traditionsmaterial übernommen und in sein Werk eingearbeitet, kaum wahrscheinlich machen. Weitaus plausibler ist es demgegenüber, hier einen (späteren) Interpolator am Werk zu sehen, der für die Einarbeitung eben dieses Motivs und damit zumindest des Verses Apk 11,13 in die ihm vorliegende Darstellung Apk 11,3-13 verantwortlich zu machen ist; die- ser Interpolator hat dann die Darstellung des Erdbebens und seiner Folgen, die offensichtlich zur Bekehrung der von dieser Naturkatastrophe verschont Gebliebenen führen, eingefügt, ohne darauf zu achten, daß er damit dem Dar- stellungsinteresse des Apokalyptikers letzten Endes zuwiderhandelt.75

Ausgehend von diesem zunächst nur die Darstellung in Apk 11,13 betref- fenden Ergebnis ist nun zu fragen, wie die in den diesem Vers unmittelbar vor- ausgehenden Versen Apk 11,11f. zu beobachtenden, immerhin doch erhebli- chen76 sprachlichen und inhaltlichen Inkongruenzen zu erklären sind. Mögen auch die in diesen beiden Versen beobachtbaren sprachlichen Besonderheiten als solche noch keine sichere Entscheidung darüber ermöglichen, ob die Passa- ge Apk 11,11f. insgesamt als eine vom Apokalyptiker in einen ihm vorliegenden textlichen Zusammenhang eingearbeitete Tradition zu beschreiben ist oder sich einem (späteren) Interpolator verdankt, – die Beobachtung, daß hier die zuvor nur in Apk 11,5a und dort auch nur «hypothetisch» erwähnten77 evcqroi, der bei- den ma,rturej und eben nicht die Apk 11,9 angesprochenen evk tw/n law/n kai. fulw/n kai. glwssw/n kai. evqnw/n als diejenigen angeführt werden, die die Himmel- fahrt der beiden Zeugen bezeugen können, spricht angesichts der o. diskutierten Freiheit und Kreativität des Apokalyptikers im Blick auf die Bearbeitung tradi- tionellen Materials dafür, Apk 11,12c und damit auch den gesamten Textzusam-

re Märtyrer zu denken» ist, konkret an Märtyrer unter Nero oder an Märtyrer aus der ersten christlichen Gemeinde wie etwa Petrus, Paulus oder Stephanus.

73 Vgl. hierzu BAUCKHAM, The Climax of Prophecy, 54f., der eine erhebliche Anzahl von sprachlichen Entsprechungen zum Vokabular der übrigen Apk auflistet.

74 Zu weiteren Belegen für die kreative und kritisch-konstruktive Übernahme traditionellen nicht- alttestamentlichen apokalyptischen Materials durch den Verfasser der Apk vgl. BAUCKHAM, The Climax of Prophecy, 38ff.

75 Vgl. (in Bezug auf Apk 11,13) SS. 400 und 405. 76 Vgl. (in Bezug auf Apk 11,11f.) SS. 400f. und 405f. 77 Vgl. (in Bezug Auf Apk 11,5a) SS. 400 und 405.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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menhang Apk 11,11f. als spätere Interpolation in den bereits vorliegenden Text der Apk anzusehen. Auf das Konto dieses Interpolators gingen dann auch die Verwendung des in der Apk sonst nicht belegten Verbums qewre,w78 und die For- mulierung der für die Apk zuminest ungebräulichen Wendung eivsh/lqen evn auvtoi/j Apk 11,11.79 Damit wäre dann auch zwanglos erklärt, warum das Apk 11,7 als der eigentliche (und auch einzige wirkliche) Gegner der beiden Zeugen auftre- tende qhri,on in Apk 11,11f. nicht mehr erscheint – der Interpolator hat die Dra- maturgie des Textes Apk 11,3-10, der ihm in der Apk vorlag, im Rahmen seiner Interpolation schlicht zu wenig beachtet.

Sind die in Apk 11,11-13 konstatierten sprachlichen und inhaltlichen Span- nungen auf diesem Wege erklärt, bleiben nur noch einige wenige und zugleich erheblich weniger schwerwiegende Inkongruenzen übrig, die sich zwanglos als aus der vom Apokalyptiker in Apk 11,3-10 verarbeiteten Überlieferung stam- mend verstehen lassen.

3. ERGEBNIS UND FOLGERUNGEN

Die Analyse der in Apk 11,3-13 aufgewiesenen sprachlichen und inhaltli- chen Inkongruenzen führte zu dem Ergebnis, daß die Verse Apk 11,11-13 einer späteren Hand zuzuschreiben sind. Damit ist auch das eingangs beschriebene Problem80 des auffälligen Tempuswechsels von Apk 11,10 zu Apk 11,11 einer Klärung zugeführt – der Tempuswechsel verdankt sich dem Interpolator, der an die Apk 11,3-10 vorliegende und durchgängig im Futur formulierte Weissagung – eher unaufmerksam – einen sich als Visionsbericht gerierenden Text anschloß. Damit wäre im Blick auf die Gesamtinterpretation der Apk das endgültig ver- schlossen scheinende Tor zu einer literarkritischen Interpretation des letzten Buches des Neuen Testaments wieder zumindest einen Fuß breit geöffnet.

BIBLIOGRAPHIE

AUNE D.E., Revelation 17–22 (Word Biblical Commentary 52 C), Nashville 1998. BEER G. (Hg.), «Das Buch Henoch», in E. KAUTZSCH (Hg.), Die Apokryphen und Pseudepigraphen des Alten Testaments, 2: Die Pseudepigraphen des Alten

Testaments, Tübingen u.a. 1900, 217-310.

78 Vgl. hierzu SS. 401 und 405 79 Vgl. hierzu S. 405. 80 Vgl. hierzu SS. 392-396.

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Il capro emissario come typos di Gesù sofferente

MICHELE CICCARELLI

A fronte dell’assenza, nel NT, di qualsiasi chiaro riferimento al capro emis- sario nell’interpretazione della morte espiatoria di Gesù, si può notare, invece, che già alcuni testi protocristiani presentano un’interpretazione della morte di Cristo secondo il modello tipologico del capro emissario giudaico. Analizzeremo, perciò, i testi fondamentali che utilizzano questa tipologia, tratti dall’Epistola di Barnaba, dal Dialogo con Trifone di Giustino e dall’Adversus Marcionem di Ter- tulliano, senza, però, interessarci delle ulteriori interpretazioni patristiche del capro emissario, come quella di Origene o di Cirillo Alessandrino e della sua scuola,1 in quanto queste ultime non si concentrano sulla passione e morte di Cristo. La nostra intenzione sarà quella di evidenziare che l’elaborazione del modello del capro emissario, presente in questi testi, comprende degli elementi che non appartengono originariamente al rituale giudaico. Cercheremo, quindi, di verificare se il rituale greco del pharmakos abbia potuto influenzare tale tipo- logia cristologica, oltre a essere servito probabilmente come precomprensione culturale utile a far penetrare e accettare il messaggio della morte espiatoria di Cristo nel più ampio contesto sociale ellenistico-romano.

1. IL RITO DEL CAPRO EMISSARIO E ALTRI ANTICHI RITI APOTROPAICI

1.1. Il rito del capro emissario in Lv 16

Il testo di Lv 16 ci parla di tutta la preparazione del giorno più importan- te dell’anno, lo Yom Kippur, quando al sommo sacerdote, che compiva l’espia- zione dei peccati per tutto il popolo, venivano presentati due capri sui quali era gettata la sorte per stabilire chi fosse destinato al Signore e chi, invece, ad Aza- zel. Tuttavia, nonostante la distinzione tra il capro «per il Signore», immolato nel tempio, e quello emissario, scelto «per Azazel» e inviato nel deserto,2 essi erano

1 Per tali interpretazioni, si può vedere la rapida esposizione fatta da A. LOUF, «Caper emissarius ut typus Redemptoris apud Patres», in Verbum Domini 38(1960), 270-277.

2 Cf. S. LYONNET, De peccato et redemptione, 2: De vocabulario redemptionis, PIB, Romae 1972, 135- 138, il quale descrive quattro differenze tra il capro emissario e la vittima del sacrificio per il peccato: 1) il capro era destinato ad Azazel e non a Dio; 2) il capro emissario era considerato impuro; 3) solo del capro

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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in funzione del medesimo scopo espiatorio. Secondo il testo di Lv 16,10, infatti, anche il capro che non era immolato e che era posto vivo davanti al Signore ser- viva a «fare l’espiazione dei peccati sopra di lui (wyl'[' rPek;l. / tou/ evxila,sasqai evpV auvtou/)» e il rito consisteva nell’imposizione delle mani sulla testa del capro, la confessione di tutti i peccati del popolo e, infine, l’invio dello stesso capro nel deserto (Lv 16,21-22). Una conferma dell’inscindibilità tra il rito del capro immolato a Dio e il rito del capro emissario la offre la testimonianza rabbinica che parlava di somiglianza dei due capri (Yoma VI,1) e che applicava perfino al capro emissario la capacità di espiare (rPek;m.) e, quindi, di operare realmente la purificazione dei peccati (cf. Sheb. I,6; b.Yoma 6).3

Il fatto che, nonostante il capro sia «per Azazel», esso non venga immola- to a lui, ma sia condotto vivo nel deserto, potrebbe far associare Azazel ai demo- ni che abitavano luoghi desertici, secondo l’indicazione di alcuni passi biblici (Tb 8,3; Is 13,21; 34,13-14; Mt 12,43; Lc 11,24). D’altra parte, egli è menzionato nel Targum Ps-Jon a Gen 6,4 (con la variante grafica Aza’el) come uno dei due ange- li che si uniscono alle figlie degli uomini (cf. 1En 6,1-2; 19,1-2) e compare nel Libro di Enoc come uno degli angeli ribelli (1En 8,1; 10,4; 54,4-6; 55,4; 69,2). In 1En 10,4, poi, viene detto che Azazel viene mandato nel deserto che è in Daduel (o Dudael); e il luogo corrisponde a Bet Hiddudo, lo stesso deserto in cui viene inviato il capro emissario, secondo Yoma VI,8.4 Nella mitologia greca, infine, si sa che alcuni demoni, i satiri, rassomigliavano ai capri e Lv 17,4-7, da parte sua, oltre alla prescrizione di immolare sacrifici davanti alla «Dimora del Signore», stigmatizza di prostituirsi, offrendo sulle alture sacrifici «ai satiri» considerati appunto demoni stranieri (v. 7: ~rIy[iF.l; che i LXX traducono toi/j matai,oij che significa «a cose vacue»).5

1.2. Il rito del capro emissario nella Mishna

Nel trattato Yoma della Mishna viene descritto il rituale dello Yom Kippur così come si era sviluppato nel tempo ed era, presumibilmente, ancora in vigore

emissario è detto che ha assunto i peccati su se stesso, secondo Lv 16,22; 4) solo sul capro emissario l’im- posizione è fatta con due mani, mentre alle altre vittime si imponeva una sola mano.

3 Cf. LOUF, «Caper emissarius ut typus Redemptoris apud Patres», 268, note 4 e 5; circa l’uso e il significato del verbo rP,Ki nel Levitico, cf. L. MORALDI, Espiazione sacrificale e riti espiatori nell’ambiente biblico e nell’Antico Testamento, Roma 1956, 201-209.

4 Circa la figura enigmatica di Azazel (Lv 16,8.10.26), sostituito dai LXX con i termini avpopompai/oj e avpopomph, e che probabilmente nasconde una primitiva divinità pagana in seguito demonizzata dal giudai- smo, cf. G. DEIANA, Il giorno dell’espiazione. Il «kippur» nella tradizione biblica (Supplementi alla Rivista biblica 30), EDB, Bologna 1995, 169-176. Sulla presenza e sul ruolo di Azazel negli antichi scritti apocalittici giudaici, cf. D. STÖKL BEN EZRA, The Impact of Yom Kippur on Early Christianity, Tübingen 2003, 79-101 e 127-130 circa la presenza del demoniaco associata al capro; cf. anche la punizione di Azazel in 4Q203 fr. 7 col. I, testo che fa parte del Libro dei Giganti, e ApocAbr 13,7-8; 14,6; 20,5.7; 22,5; 23,11; 29,6; 31,5. A proposito di Azazel e del nome del luogo dove viene inviato il capro, secondo il Libro di Enoc, cf. P.D. HANSON, «Rebel- lion in Heaven, Azazel, and Euhemeristic Heroes in 1Enoch 6-11», in JBL 96(1977), 195-233, spec. 221-224.

5 Cf. 2Cr 11,15 e 2Re 23,8 dove il termine ~yrI['V.h; («le porte») dovrebbe essere letto ~yrI['F.h;, col significato di «satiri» (trad. CEI); cf. S. LYONNET – L. SABOURIN, Sin, Redemption, and Sacrifice. A Biblical and Patristic Study (AnBib 48), Biblical Institute Press, Roma 1970, 272, nota 17.

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M. CICCARELLI – Il capro emissario come typos di Gesù sofferente

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fino alla cessazione dei sacrifici nel 70 d.C. In Yoma III, in Yoma IV e in Yoma VI si parla dell’uso dei due capri all’interno di questa liturgia e, pertanto, citia- mo i passi che direttamente interessano il capro emissario e il trattamento che gli veniva riservato.6

Yoma III,9 9. [Il sommo sacerdote] andava, poi, a est dell’atrio a nord dell’altare, stando il pre-

fetto alla sua destra e il capo della casa di suo padre alla sinistra. Lì stavano i due capri e l’urna con le due sorti. Queste erano di legno. [...].

Yoma IV,1-2 1. [Il sommo sacerdote] prende l’urna e tira fuori le due sorti. Sull’una è scritto «per

Dio»; sull’altra, «per Azazel». Il prefetto sta alla sua destra e il capo della casa di suo padre alla sua sinistra. Se la sorte del «per Dio» cade alla sua destra, il prefetto gli dice: «Mio signore, sommo sacerdote, alza la tua mano sinistra». Egli le mette sui capri e dice: «Per il Signore come sacrificio per il peccato». R. Ishmael dice che non è neces- sario dire «come sacrificio per il peccato», ma solo «per il Signore». Gli altri rispon- dono: «Benedetto sia il nome della gloria del suo regno per i secoli dei secoli».

2. Egli lega un fascia di lana di porpora sulla testa del capro emissario e lo pone in direzione del luogo da dove deve essere inviato; pone il [capro] che deve essere sacri- ficato in direzione del luogo dove deve essere sacrificato.7 [...]

Yoma VI,1-8 1. I due capri del Giorno dell’Espiazione: la prescrizione che riguarda loro è che siano

uguali in aspetto, dimensione, prezzo e siano comprati insieme. Ma, anche se non sono uguali, rimangono validi [...]. 2. [Il sommo sacerdote] si avvicina al capro emissario, pone sopra di lui le sue due mani e recita la confessione. Diceva così: o Dio, ti offese, trasgredì, peccò davanti a te il tuo popolo, Israele. O Dio, perdona le colpe, le trasgressioni, i peccati con i quali ti offese, trasgredì, peccò il tuo popolo, Israele, come sta scritto nella Legge di Mosè, tuo servo. «Perché in questo giorno vi perdonerà, purificandovi da tutti i vostri peccati, davanti al Signore sarete purificati» (cf. Lv 16,30). I sacerdoti e il popolo stavano nel- l’atrio e quando sentivano il Nome che chiaramente pronunciava il sommo sacerdote, si inginocchiavano, si prostravano con la faccia a terra e dicevano: «Benedetto il nome della gloria del suo regno, per i secoli dei secoli».

3. Poi [il capro] era consegnato a colui che doveva condurlo. Tutti erano adatti a por- tarlo, sebbene i sommi sacerdoti stabilirono un’usanza secondo la quale non era con- segnato a nessun israelita per condurlo. Dice R. Yosè: si racconta che lo condusse Arsela, che era un israelita [...].

4. Si fece per lui una rampa a causa dei babilonesi che avevano l’abitudine di tirare i peli e dicevano: «Prendi e va’ via, prendi e va’ via». Alcuni dei nobili di Gerusalemme lo accompagnavano fino alla prima capanna. C’erano dieci capanne da Gerusalemme fino al burrone, novanta ris [sono 7 e mezzo per un miglio].

6 I testi di Yoma riproducono in italiano, con qualche piccolo adattamento, la versione spagnola di C. DEL VALLE (ed.), La Misná (Biblioteca de Estudios Bíblicos 98), Sígueme, Salamanca 22003, basata sul- l’edizione di C. ALBECK, Shishshá sidré Mishná, 6 voll., Jerusalem 1952-1958.

7 b.Yoma 41b intende l’espressione «luogo dove deve essere sacrificato» nel senso che proprio in quel posto, cioè attorno al collo del capro espiatorio, veniva posta una seconda fascia rossa.

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5. In ogni capanna gli dicevano: «Qui c’è cibo e acqua», e lo accompagnavano di capanna in capanna, eccetto l’ultima, dato che (l’accompagnatore) non arrivava con esso fino al burrone, ma rimaneva in disparte e osservava come reagiva. 6. Cosa faceva? Divideva la fascia scarlatta. Una metà la legava alla roccia e l’altra fra i due corni [del capro]. [L’accompagnatore] lo spingeva all’indietro e cadeva rotolando; esso non giungeva alla metà del monte che si faceva già a pezzi. Veniva e si sedeva sotto la prima capanna fin quando non si faceva sera. Da quando fa impuri i suoi vestiti? Da quando esce fuori delle mura di Gerusalemme. R. Simeon dice: «Dopo che gli dà la spin- ta nel burrone».

7. [...] 8. Dicevano al sommo sacerdote: il capro è arrivato nel deserto. Come sapevano che il capro era arrivato nel deserto? Mettevano torri di vedetta e facevano segnali con dei panni di tela, e sapevano così che il capro era giunto nel deserto. Diceva R. Yehu- da: «Non avevano segnali migliori?». Da Gerusalemme a Bet Hiddudo sono tre miglia; potevano camminare un miglio, rifare un altro miglio, fare una pausa di dura- ta corrispondente a un miglio di cammino e sapevano che il capro era arrivato nel deserto. R. Ishmael diceva: «Non tenevano per caso un altro segnale?». La fascia scar- latta legata all’entrata del tempio e, quando arrivava il capro nel deserto, la fascia diventava bianca, poiché sta scritto: «Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve».

La sorte gettata sui due capri, menzionata in Lv 16,8, viene ripresa dal trat- tato della Mishna e rappresentata dalle due sorti fatte di legno (Yoma III,9) che vengono estratte dall’urna: sopra una sorte era scritto «per Dio», sopra l’altra, invece, «per Azazel» (Yoma IV,1). La Mishna riporta l’uso di legare una fascia di lana, di colore rosso porpora, sulla testa del capro emissario (Yoma IV,2), parti- colare che non trova riscontro in Lv 16, come non trova riscontro nemmeno l’a- bitudine che i due capri siano simili, uguali per misura e per prezzo (Yoma VI,1). Se Lv 16,21 afferma che il sacerdote impone le mani sulla testa del capro emis- sario e confessa i peccati del popolo, solo Yoma VI,2 riporta le parole della pre- ghiera che il sommo sacerdote avrebbe recitato. Alla notizia, poi, che ci debba essere un uomo incaricato di condurre il capro nel deserto (Lv 16,21), Yoma VI,3 aggiunge che se, da una parte, tutti sono adatti a condurlo, dall’altra i sommi sacerdoti hanno stabilito che non dovessero essere israeliti. Yoma VI,4-6 narra il modo in cui veniva accompagnato il capro fuori Gerusalemme e le precauzioni che si prendevano per far decantare completamente l’impurità contratta, in modo che colui che aveva condotto il capro potesse rientrare in città. In Yoma VI,4 si parla anche di una rampa che veniva costruita per far uscire il capro dalla città. Si può immaginare che, in un giorno solenne, con la presenza di tanta gente, una rampa servisse a sollevare l’animale per farlo procedere più speditamente; ma la ragione che viene addotta è di impedire a delle persone, chiamate con l’ap- pellativo di «babilonesi», di tirare i peli del capro. Il tirare i peli del capro, dicen- do: «Prendi e va’ via!», è riferito ai peccati che il capro prendeva su di sé e por- tava via nel deserto. Era questo un comportamento non ammesso dalla liturgia ufficiale e che si voleva espressamente evitare, forse per non imporre un rallen- tamento al rito di espulsione, con la costruzione di un’apposita rampa sulla quale facevano camminare il capro fino all’esterno della città.

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Il percorso che il capro doveva fare era fissato in dieci tappe e si conclu- deva quando arrivava presso un alto dirupo, da dove veniva spinto giù, lascian- dolo sfracellare contro le rocce. Prima di essere buttato giù dal dirupo, però, l’ac- compagnatore divideva la fascia scarlatta posta sul capo del capro (Yoma IV,2 aveva detto che essa era una fascia di lana di colore porpora); metà la poneva sulla roccia e metà fra i corni del capro (Yoma VI,6).

Esisteva anche un modo per comunicare al popolo rimasto in città il momento in cui il capro era arrivato nel deserto, intendendo, forse, la conclusio- ne del rito di espulsione con la morte dello stesso capro. Si parla, allora, di vedet- te che si passano segnali agitando dei panni, ma si parla anche di un segnale dalle caratteristiche prodigiose e, cioè, di una fascia scarlatta legata alla porta del tem- pio che improvvisamente diventa bianca. Il fenomeno serve, ovviamente, a far percepire a tutti l’efficacia apotropaica del rito: i peccati sono completamente cancellati, poiché, secondo il passo citato di Is 1,18, Dio perdona anche i peccati più gravi.

1.3. Il rito del pharmakos nel contesto romano-ellenistico

Riti apotropaici simili a quello giudaico del capro inviato nel deserto si ritrovano anche in altre religioni antiche. Nel contesto babilonese, per esempio, il capro emissario ha il nome sumero, mašuldubbû, che significa «capro sul quale il male è espulso». Questo capro viene trafitto dal re con delle frecce, che hanno la funzione di trasferire le malattie dal bestiame su di esso, il quale poi fugge via per la campagna.8 Altre significative similitudini con il rito ebraico si riscontrano nell’area nord-siriana, a Ebla e a Ugarit e, in modo particolare, in un rituale hittita databile intorno al XIII secolo a.C., descritto da un certo Ashella della città-stato di Hapalla, a sud-est della penisola anatolica. Si riscontrano par- ticolari interessanti anche in questo rituale, simili a quelli del rituale del capro emissario, come, per esempio, la corda fatta di lana bianca, rossa e verde che, in occasione di pestilenze, viene intrecciata e legata al collo e alle corna di alcuni arieti già adornati con orecchini e collane. Su questi arieti, poi, gli ufficiali dell’e- sercito impongono le mani e pregano perché sia appagata la divinità che ha cau- sato la pestilenza. Infine gli animali, insieme a una donna finemente adornata, vengono cacciati fuori dall’accampamento, verso il territorio dei nemici, dove essi trasferiscono la sciagura portata via dal proprio accampamento.9

8 Cf. A. MÉDEBIELLE, L’expiation dans l’Ancien et le Nouveau Testament (Scripta Pontifici instituti biblici), Roma 1923, 109-114, che fa notare come il rito del capro emissario di Levitico faccia parte di un contesto ben più ampio, in cui si realizzava l’espiazione; cf. anche S.H. LANGDON, «The Scapegoat in Baby- lonian Religion», in The Expository Times 24(1912), 9-13 e J.G. FRAZER, The Golden Bough. A Study in Magic and Religion, MacMillan, London 1913, il quale analizza i casi di «capri emissari» presenti nel patri- monio religioso di tutti i popoli, delle culture civilizzate e soprattutto primitive.

9 Cf. i testi riportati da J.N. BREMMER, Greek Religion and Culture, the Bible and the Ancient Near East (Jerusalem Studies in Religion and Culture 8), Brill, Leiden-Boston 2008, 169-172; P. XELLA, «Il “capro

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Anche l’ambiente ellenistico-romano disponeva di propri riti apotropaici, in cui si utilizzavano vittime umane. In particolar modo, il rito cosiddetto del pharmakos, di cui parla già Ipponatte di Colofone (VI sec. a.C.), sembra aver acquistato una grande notorietà in tutta l’area mediterranea. Esso prevedeva l’e- spulsione o anche l’uccisione di un membro della comunità al fine di purificare quest’ultima da qualche sciagura, producendo uno schema simile a quello del capro emissario. Tuttavia, c’è da sottolineare che, a differenza del rito giudaico che utilizzava animali sui quali veniva gettata la sorte, le vittime per il rituale del pharmakos erano determinate categorie di esseri umani, che erano ai margini della società: persone povere, di nessun valore, di aspetto ripugnante o anche cri- minali. A parte l’origine di questo rito sacrificale e il suo contesto più noto, la festa delle Targhelie ad Atene, dove due pharmakoi, uno per gli uomini e l’altro per le donne, venivano espulsi dalla città, è importante constatare lo sviluppo e la diffusione di tale rito in tutta l’area mediterranea nel periodo ellenistico- romano fino ai primi secoli dell’era cristiana. Al riguardo sono interessanti le testimonianze di alcuni scolii alle opere di Aristofane,10 alla tragedia I Sette con- tro Tebe di Eschilo11 e all’opera Tebaide dello scrittore latino Stazio.12 A volte il pharmakos appare come una vittima volontaria, come ci risulta dal Commento

espiatorio” a Ebla. Sulle origini storiche di un antico rito mediterraneo», in Studi storico-religiosi 62(1996), 677- 684; M. DIETRICH – O. LORETZ, Mantik in Ugarit: Keilalphabetische texte der Opferschau, Omensammlungen, Nekromantie, Ugarit-Verlag, Münster 1990, 17-38, spec. 32-38; V. HAAS, «Betrachtungen zur Traditionsge- schichtliche hethitischer Rituale am Beispiel des “Sündenbock”-Motivs», in G. BECKMAN et al. (edd.), Hitti- te Studies in Honor of Harry A. Hoffner Jr., Winona Lake 2003, 131-141.

10 I termini farmakoi, presenti nelle opere di Aristofane, vengono spiegati da due scolii: scolio ad ARI- STOFANE, Cavalieri 1136c: e;trefon ga.r tinaj VAqhnai/oi li,an avgennei/j kai. pe,nhtaj kai. avcrh,stouj( kai. evn kairw|/ sumfora/j tinoj evpelqou,shj th|/ po,lei( limou/ le,gw h' toiou,tou tino,j( e;quon tou,touj e[neka tou/ kaqarqh/nai tou/ mia,smatoj kai. th/j e`autw/n kaki,aj( kai. qerapei,an eu`rei/n tou/ evpikeime,nou kakou/Å ou]j kai. evpwno,mazon kaqa,rmata («Gli Ateniesi nutrivano alcuni individui particolarmente ignobili, indigenti e inutili e, quando si abbatteva sulla città qualche disgrazia, penso alla carestia o a qualcosa di simile, li sacrificavano per essere purificati dal- l’impurità e dalla loro sventura, per trovare una cura per il male che li sovrastava. Chiamavano questi anche “rifiuti”»); scolio a Rane 730,10-12: tou.j ga.r fau,louj kai. para. th/j fu,sewj evpibebouleume,nouj eivj avpallagh.n auvcmou/ h' limou/ h' tinoj tw/n toiou,twn e;quon( ou-j evka,loun kaqa,rmata («Per la liberazione dalla siccità o dalla carestia o da qualche altra sciagura sacrificavano gli individui di poco conto e colpiti dalla natura, che chia- mavano “rifiuti”»); cf. D.M. JONES – N.G. WILSON (edd.), Prolegomena de comoedia. Scholia in Acharnenses, Equites, Nubes (Scholia in Aristophanem 1.2), Wolters-Noordhoff, Groningen 1969, 1-277; F. DÜBNER (ed.), Scholia graeca in Aristophanem, Didot, Paris 1877, 273-314 (rist. Olms, Hildesheim 1969).

11 Scolio a ESCHILO, Sette contro Tebe 680l: limou/ sumba,ntoj par’ {Ellhsin h' tinoj a;llou tw/n avpeuktw/n( lamba,nontej to.n avhde,staton kai. para. th/j fu,sewj evpibebouleume,non phro,n( cwlo,n( tou.j toiou,touj( tou/ton e;quon eivj avpallagh.n tou/ evnoclou/ntoj deinou/ («Quando sulla Grecia si abbatteva una carestia o un’altra cosa ese- crata, essi, prendendo il più ripugnante e colpito dalla natura, uno storpio, uno zoppo, individui del genere, lo sacrificavano per la liberazione dalla terribile disgrazia»); cf. O.L. SMITH, Scholia graeca in Aeschylum quae exstant omnia, Teubner, Leipzig 1976 e 1982, I e II/2, 1-83 e 1-423; cf. anche Scholia in Aeschylum (scho- lia recentiora) 680,14-17, in W. DINDORF, Aeschyli tragoediae superstites et deperditarum fragmenta, Oxford University Press, Oxford 1851, III, 166-512 (rist. Olms, Hildesheim 1962).

12 Scolio a STAZIO, Tebaide 10,793-794: Lustrare civitatem humana hostia Gallicus mos est. nam ali- quis de egentissimis proliciebatur praemiis ut se ad hoc venderet. qui anno toto publicis sumptibus alebatur purioribus cibis, denique certo et sollemni die per totam civitatem ductus ex urbe extra pomeria saxis occide- batur a populo («È costume dei Galli purificare la città mediante una vittima umana. Per questo, infatti, un tale, con ricompense, era persuaso a vendersi. Questi era nutrito per un anno intero, a spese pubbliche, con i cibi più prelibati; poi in una determinata festività, condotto per tutta la città, veniva ucciso dal popolo con

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all’Eneide di Virgilio di Servio (IV sec.), il quale, riportando una notizia di Petro- nio, riferisce che, nella città di Marsiglia, un povero offriva se stesso come vitti- ma. Questi allora, ornato di verbene e di abiti sacri, veniva portato attorno alla città e colpito da maledizioni e, infine, carico dei mali dell’intera città, veniva cac- ciato via.13 Il pharmakos poteva essere anche un criminale, come nell’isola di Rodi, dove questi veniva portato fuori della città e ucciso davanti al tempio di Artemide, o come nell’isola di Leuca, dove la vittima designata era gettata in mare da un’alta rupe come sacrificio annuale ad Apollo e poi, mediante barche già pronte, veniva raccolta e salvata.14 Circa il destino finale del pharmakos, le fonti non sono concordi: alcune propendono per una semplice e definitiva espul- sione della vittima dalla comunità, che equivaleva a una morte sociale, altre, invece, sostengono che all’espulsione seguisse anche la sua uccisione.15

L’espulsione del pharmakos veniva fatta collettivamente e a suon di musi- ca, probabilmente in forma processionale, spingendolo fuori della città a colpi di rami di una pianta di scilla, di un fico selvatico e di altre piante selvatiche.16 A Marsiglia e ad Atene, invece, l’espulsione dalla città avveniva mediante il lancio di pietre e il fatto che partecipassero tutti i membri della comunità era un segno

sassi, al di fuori delle mura cittadine»); cf. R. DALE SWEENEY (ed.), Lactantius Placidus: In Statii Thebaida commentum I (Bibliotheca Scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana), Teubner, Stuttgart 1997. 13 SERVIUS, Ad Vergilii Aeneidem Commentarium 3,57 (= PETRONIO, fr. 1): «Unus se ex pauberibus

offerebat [...] hic postea ornatus verbenis et vestibus sacris circumducebatur per totam civitatem cum exe- crationibus, ut in ipsum reciderent mala totius civitatis, et sic proiciebatur»; citato in M. HENGEL, Crocifis- sione ed espiazione, Paideia, Brescia 1988, 169, nota 94; cf. anche A.F. STOCKER – A. HARTMAN TRAVIS et al. (edd.), Servianorum in Vergilii Carmina, Oxford 1965, III, 26.

14 STRABONE, Geografia X, 2,9: h=n de. kai. pa,trion toi/j Leukadi,oij kat’eniauto.n evn th/| qusi,a| tou/ VApo,llw-noj avpo. th/j skoph/j r`iptei/sqai, tina tw/n evn aivti,aij o;ntwn avpotroph/j ca,rin («Era usanza tra gli abi- tanti di Leuca, come sacrificio annuale ad Apollo, che fosse gettato da un’altura un criminale, per l’espul- sione del male»); cf. anche L. AMPELIUS (III-IV sec.), Liber memorialis 8,4: «In summo monte fanum est Apollonis ubi sacra fiunt et cum homo inde desiluit, statim excipitur lintribus»; cf. M.-P. ARNAUD-LINDET (ed.), L. Ampelius: Aide-Mémoire (Liber memorialis), Les Belles lettres, Paris 1993, 12.

15 Per la morte del pharmakos si pronunciano OVIDIO, Ibis 467-468, con il relativo scolio e i tardi sco- lii a STAZIO, Tebaide 10,793; al contrario, il pharmakos rimane in vita secondo CALLIMACO, fr. 90 e PETRONIO, fr. 1. L’episodio dell’uccisione di un pharmakos, riportato da FILOSTRATO nella sua Vita di Apollonio di Tiana 4,10, è chiaramente leggendario e non rispecchia un reale rito; e anche la morte del pharmakos, bruciato su un legno selvatico (puri. kate,kaion evn xu,loij toi/j avgri,oij), secondo il brano di IPPONATTE DI COLOFONE, ripor- tato da Tzetzes (XII sec.), potrebbe essere una ripresa di un mito eziologico o un’aggiunta di Tzetzes stes- so (J. TZETZES, Chiliades V, 23,737); cf. P.L.M. LEONE (ed.), Ioannis Tzetzae historiae, Libreria scientifica, Napoli 1968, 1-541; BREMMER, Greek Religion and Culture, 192-193.

16 Cf. IPPONATTE DI COLOFONE (VI sec. a.C.), secondo il quale, dopo essere stati ben nutriti, i pharmakoi venivano colpiti con rami di una pianta di scilla, di una pianta di fico selvatico e di altre piante selvatiche (ski,llaij( sukai/j avgri,aij te kai. a;lloij tw/n avvgri,wn), per poi venire bruciati su un legno di una pianta sel- vatica e le ceneri gettate in mare (J. TZETZES, Chiliades V, 23,733-739); BREMMER, Greek Religion and Cultu- re, 192-193. I rami della pianta di scilla, pianta simile al salice, venivano utilizzati nella città di Cheronea, nella festa annuale del Boulimos o carestia; cf. scolio ad ARISTOFANE, Pluto 454B; PLUTARCO, Moralia (Quae- stiones conviviales) 693EF: kalei/tai de. “Bouli,mou evxe,lasij”\ kai. tw/n oivketw/n e[na tu,ptontej avgni,naij r`abdoij dia. qurw/n evxelau,nousin( evpile,gontej “e;xw Bou,limon e;sw de. Plou/ton kai. ~Ugi,eian” («[Il rito sacrificale] si chia- ma “Espulsione della Carestia”; e colpendo uno dei servi con piante di agnocasto lo cacciano via attraver- so le porte, dicendo: “Fuori la carestia e dentro la ricchezza e la salute”»); cf. C. HUBERT (ed.), Plutarchi Moralia IV (Bibliotheca Scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana), Teubner, Leipzig 1971; V. ROTOLO, «Il rito della boulimou exelasis», in Miscellanea di studi classici in onore di Eugenio Manni, Roma 1980, VI, 1947-1961; BREMMER, Greek Religion and Culture, 176-177 e 189-191: la pianta selvatica costituiva

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della rottura di ogni loro legame con la vittima,17 che diveniva un pharmakon, la medicina grazie alla quale la comunità ritrovava la propria integrità e salute. La natura selvatica e improduttiva rappresentata dai rami di piante sembra che fosse in stretta connessione con il basso livello delle persone che fungevano da phar- makoi.18 È possibile che il livello basso di estrazione sociale del pharmakos, come anche la sua eventuale uccisione, costituissero, in realtà, l’adattamento rituale di ciò che era contemplato come ideale valoriale nel mito. Nel mito, infatti, erano persone ragguardevoli, re, figli di re o persone giovani e belle che venivano uccise per il bene della comunità; nel rituale, invece, erano le persone di scarso valore e menomate fisicamente, e quindi più facilmente eliminabili, che venivano espulse definitivamente dalla città, perché questa fosse purificata dal male che l’affligge- va. Le contrapposte categorie di persone, i primi nel posto più alto, i secondi nel posto più basso, erano entrambe considerate in una situazione di marginalità.19

La polarità, inoltre, era interscambiabile, come ci mostra l’antico racconto del re di Atene Codro, il quale, per fermare l’invasione dei Dori, si vestì da schia- vo e, uscendo dalla città, si fece uccidere dalle truppe nemiche,20 o la tragedia sofoclea di Edipo re, in cui un re diventa volontariamente pharmakos (Edipo re 1527: eivj o[son klu,dwna deinh/j sumfora/j evlh,luqen, «in quale burrasca di terribile disgrazia è precipitato»). Per espiare, infatti, un delitto commesso inconsapevol- mente, Edipo si acceca e, facendosi cacciare dal suo paese, erra come un povero vagabondo fino alla fine della sua vita.21 In modo inverso, colui che non aveva alcuna dignità, nel momento in cui veniva scelto come pharmakos, era trattato, per un determinato periodo di tempo, come un privilegiato: veniva vestito come una persona importante e nutrito con cibi prelibati.22

Da quanto esposto, quindi, possiamo vedere che gli elementi costanti nel rito del pharmakos risultano essere la posizione di marginalità sociale della vit- tima, la sua esplusione violenta dalla comunità e la partecipazione della stessa comunità a tale espulsione.

quello che i romani chiamavano arbor infelix, e rappresentava la morte; perciò sul legno di tale pianta veni- vano bruciate le cose che, in qualche modo, rappresentavano il male; cf. ivi, 185.

17 D. FEHLINH, Ethologisch Überlegungen auf dem Gebiet der Altertumskunde, München 1974, 59-82; BREMMER, Greek Religion and Culture, 189-191.

18 BREMMER, Greek Religion and Culture, 186 e 189. 19 BREMMER, Greek Religion and Culture, 180-181. 20 Cf. W. BURKERT, Structure and History in Greek Mythology and Ritual, University of California

Press, Berkeley-Los Angeles-London 1979, 62-63; BREMMER, Greek Religion and Culture, 180. 21 HENGEL, Crocifissione ed espiazione, 172-173; J.-P. VERNANT – L. VIDAL-NAQUET, Mito e tragedia nel- l’antica Grecia. La tragedia come fenomeno sociale estetico e psicologico, Torino 1976, 110-122. Plutarco riporta un racconto mitologico, secondo il quale gli Enioni, popolazione presso il monte Eta, nel sud della Tessaglia, lapidavano a morte il loro re, Oinoclo, durante periodi di grande siccità, in modo da poter poi ottenere un paese buono e fertile; cf. PLUTARCO, Moralia (Aetia greca) 297C: evkei/ de. mega,lwn auvcmw/n geno- me,nwn( kata. crhsmo.n w`j le,getai to.n Oi;noklon kataleu,santej kai. pa,lin planhqe,ntej eivj tau,thn avfi,konto th.n cw,ran( h]n nu/n e;cousin( avgaqh.n kai. pa,mforon ou=san; cf. W. NACHSTÄDT – W. SIEVEKING – J.B. TITCHENER (edd.), Plutarchi Moralia II (Bibliotheca Scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana), Teubner, Leipzig 1971; si veda anche 294A; al racconto corrispondeva un determinato rituale, in cui un toro veniva cacciato

oltre i confini territoriali; cf. BURKERT, Structure and History in Greek Mythology and Ritual, 65-66.

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2. LA TIPOLOGIA CRISTOLOGICA DEL CAPRO EMISSARIO

2.1. Il capro emissario e la morte espiatoria di Gesù in alcuni passi del NT

La presentazione della morte di Gesù, negli scritti neotestamentari, come sacrificio espiatorio per i peccati (cf. ad es. Mc 10,45; Rm 3,25; 8,3) non utilizza esplicitamente la tipologia del capro emissario, ma ciò non ha impedito ad alcu- ni di vedervi un’allusione a esso. Per altri, poi, l’immagine del capro emissario potrebbe essere servita come catalizzatore sia per applicare la figura del Servo sofferente di Is 53 all’agnello di Dio di Gv 1,29 che per favorire l’interpretazio- ne cristologica del Servo nell’elaborazione fatta da 1Pt 2,22-24.23 B.H. McLean ha pensato addirittura di individuare in Paolo una «cristologia apotropaica» die- tro ai testi di Rm 8,3; Gal 3,13 e 2Cor 5,21, ma la sua tesi non è convincente, soprattutto perché pensa che questi testi parlino di un reale transfert del pecca- to e della maledizione a esso legata, che procede dagli uomini e arriva a Gesù, il quale, poi, con la sua morte, redime l’umanità.24

In tutto il NT, solo l’Epistola agli Ebrei accosta, in modo chiaro e sistema- tico, la morte di Gesù al sacrificio espiatorio dello Yom Kippur, ma nonostante ciò non prende in considerazione il capro emissario che pure faceva parte del- l’antico rito.25 L’autore dell’epistola, in realtà, imposta tutto il suo discorso trac- ciando un parallelo tra l’antico culto nel tempio, in particolare il sacrificio dello Yom Kippur, e il sacrificio che Cristo ha operato con la sua morte in croce, evi- tando accuratamente, nello stesso tempo, qualsiasi accostamento tra la morte di Gesù e la sorte che toccava al capro destinato «ad Azazel nel deserto» (Lv 16,10). L’unico passo dell’epistola, Eb 13,12 («patì fuori la porta della città»), che ad alcuni (già Tertulliano) è sembrato far riferimento all’espulsione del capro, in realtà è da porre in parallelo con l’espressione del versetto precedente, in cui si

22 J.N. BREMMER, «Scapegoat Rituals in Ancient Greece», in Harvard Studies in Classical Philology 87(1983), 307: «In historical reality the community sacrificed the least valuable members of the polis, who were represented however, as very valuable persons».

23 Cf. STÖKL BEN EZRA, The Impact of Yom Kippur on Early Christianity, 176-179.

24 B.H. MCLEAN, The Cursed Christ. Mediterranean Expulsion Rituals and Pauline Soteriology (JSNT.SS 126), Sheffield 1996, 105-145. Cf. STÖKL BEN EZRA, The Impact of Yom Kippur on Early Christia- nity, 176, che osserva la difficoltà di coniugare la categoria della maledizione con la redenzione di Cristo, considerando, invece, più illuminante la proposta di Schwartz, secondo il quale il verbo evxape,steilen di Gal 4,4 («Dio mandò il suo Figlio») allude alla funzione di Cristo come capro emissario (p. 175); cf. D.R. SCHWARTZ, «Two Pauline Allusions to the Redemptive Mechanism of the Crucifixion», in JBL 102(1983), 261; per una critica della posizione di McLean, cf. anche G. PULCINELLI, La morte di Gesù come espiazione. La concezione paolina, San Paolo, Cinisello Balsamo 2007, 253-254.

25 Lasciamo da parte l’ipotesi avanzata, nei tempi moderni, da A.H. WRATISLAW, «The Scapegoat- Barabbas», in Expository Times 3(1891/92), 400-403 e ripresa recentemente da STÖKL BEN EZRA, The Impact of Yom Kippur on Early Christianity, 165-171, secondo la quale, in Mt 27,15-23, la scelta tra Barabba, chia- mato qui «Gesù Barabba», e «Gesù chiamato il Cristo» si rifarebbe al modello della sorte gettata sui due capri uguali all’interno del rito dello Yom Kippur, per sapere quale di essi sacrificare e quale inviare nel deserto. Questa interpretazione non interessa il nostro studio, poiché l’immagine del capro emissario si applicherebbe, in questo caso, non a Gesù ma a Barabba, sebbene il nome di «Gesù» posseduto sia da Cri- sto che da Barabba possa richiamare quella similitudine tra i due capri che abbiamo riscontrato nella Mishna; cf. STÖKL BEN EZRA, The Impact of Yom Kippur on Early Christianity, 169. Un accostamento, comun-

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dice che le carcasse degli animali sacrificati, il cui sangue veniva portato all’in- terno del santuario, erano «bruciate fuori dell’accampamento» (Eb 13,11). Per l’Epistola agli Ebrei, quindi, la morte di Cristo, avvenuta fuori della città, ha il suo corrispettivo simbolico non nel capro emissario che, secondo il testo di Lv 16,10, rimaneva vivo davanti al Signore e poi, carico di peccati, era inviato ad Azazel nel deserto, ma nell’immagine degli animali immolati, le cui carni veni- vano bruciate fuori dell’accampamento in un luogo puro (Lv 4,12; Nm 19,3), segno che esse non erano contaminate dal peccato.26

Un altro passo in cui si potrebbe intravedere l’immagine del capro emissa- rio è dove l’autore dell’epistola parla di Cristo come di colui che è stato offerto per portare i peccati di molti, e cioè Eb 9,28: «Essendo stato offerto per portare i peccati di molti (prosenecqei.j eivj to. pollw/n avnenegkei/n a`marti,aj)». In realtà, questo passo non allude al rito in cui il capro viene caricato simbolicamente di tutti i peccati del popolo prima di essere allontanato,27 ma si ispira al Servo descritto in Is 53,12 la cui vita è vista come un sacrificio di espiazione.28 In effet- ti, c’è una visione teologica positiva del Servo, sul quale è ricaduto il peccato di molti (Is 52,13; 53,2.10-12), di cui, poi, vengono proclamati l’innocenza (Is 53,9) e il riscatto finale mediante la promessa di una lunga vita e la partecipazione all’eredità dei potenti della terra (Is 53,10-12). L’interpretazione cristologica del- l’Epistola agli Ebrei, quindi, preferisce la tipologia del Servo, che si discosta dal- l’immagine del capro emissario emarginato dalla comunità degli uomini, porta- tore di impurità e abbandonato a un oscuro destino. In definitiva, quindi, si può dire che nessuno scritto del NT applica alla morte di Gesù la tipologia del capro emissario, nemmeno, sembra, con riferimenti indiretti o allusioni.

2.2. L’interpretazione cristiana dello Yom Kippur

Nonostante il silenzio del NT sul capro emissario, antiche tradizioni giu- daico-cristiane, probabilmente già alla fine del I secolo, cercarono di interpreta- re tipologicamente i due capri che venivano utilizzati durante il rito dello Yom Kippur, applicando a essi due aspetti legati alla vita e all’opera di Cristo. Il moti- vo, forse, è da individuare nello sforzo di evitare che il rito, nella sua forma sina- gogale, così come si era trasformato dopo la distruzione del tempio, potesse eser- citare un’attrattiva pericolosa per i cristiani, in modo particolare nella pratica del

que, tra la figura di Barabba nel Vangelo di Matteo e il capro emissario era stato già fatto da ORIGENE, Ome- lia su Levitico 10,2.2: SC 287,134; cf. anche PS-GIROLAMO, Commento a Marco 15,11: CSL 82,71.

26 Cf. M. CICCARELLI, La sofferenza di Cristo nell’Epistola agli Ebrei. Analisi di una duplice dimen- sione della sofferenza: soffrire-consoffrire con gli uomini e soffrire-offrire a Dio, EDB, Bologna 2008, 233- 234 e 254-258.

27 Al contrario, F. DI GIOVANBATTISTA, Il giorno dell’espiazione nella Lettera agli Ebrei, PUG, Roma 2000, 149-150 sembra ravvisare, anche se timidamente, un’allusione al rito del capro emissario in Eb 9,28 e 13,12, ma poi è costretto ad ammettere una «riluttanza dell’autore» ad associare Cristo al capro emissario (p. 150).

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digiuno che gli ebrei osservavano in quel giorno (cf. Lv 16,29.31; 23,26-32).29 Questo spiega anche alcuni accenni, in EpBarn 7,4 e in Tertulliano, Adversus Marcionem III, 7, al cibo eucaristico, in contrasto con il digiuno giudaico, a cui allude una tradizione che parlava del capro espiatorio (un terzo capro) che veni- va mangiato (Menahiot 11,7).30 All’interno, quindi, di un progetto più ampio di cristianizzazione dell’AT e, in modo particolare, dello Yom Kippur,31 si incomin- ciò a utilizzare anche il rito del capro emissario come tipologia di Gesù che viene rigettato dalla sua gente, soffre patimenti fisici e morali e, infine, viene crocifisso. La prima interpretazione cristologica del capro emissario come immagine della passione e morte di Gesù la troviamo nell’Epistola di Barnaba (fine I e inizio II secolo). Segue questa interpretazione Giustino nel suo Dialogo con Trifone (ca. 160 d.C.) e, circa 50 anni dopo, Tertulliano riprende e sviluppa lo stesso tema nel suo Adversus Marcionem.

2.3. L’Epistola di Barnaba e il capro emissario come typos di Gesù sofferente

Il primo scritto cristiano che mette in relazione il capro emissario con la passione di Cristo è l’Epistola di Barnaba. Nel passo di 7,6-11, infatti, il capro immolato nel tempio come olocausto per i peccati è presentato come l’immagi- ne tipologica di Gesù che offre se stesso in sacrificio a Dio (7,3). Ma Barnaba sfrutta anche il dato della somiglianza tra i due capri, che derivava dalla tradi- zione giudaica, per applicare a Gesù la figura dell’altro capro, considerato una prefigurazione dei maltrattamenti e delle sofferenze da lui subiti.

6a Pw/j ou/n evnetei,lato* prose,cete\ “La,bete du,o tra,gouj kalou.j kai. o`moi,ouj kai. prose- ne,gkate( kai. labe,tw o` i`ereu.j to.n e[na eivj o`lokau,twma u`pe.r a`martiw/n”Å 6b To.n de. e[na ti, poih,sousin* “VEpikata,ratoj”( fhsi,n( “o` ei-j”Å 7 Prose,cete( pw/j o` tu,poj tou/ VIhsou/ fane- rou/taiÅ 8a “Kai. evmptu,sate pa,ntej kai. katakenth,sate kai. peri,qete to. e;rion to. ko,kkinon peri. th.n kefalh.n auvtou/( kai. ou[twj eivj e;rhmon blhqh,tw”Å 8b Kai. o[tan ge,nhtai ou[twj( a;gei o` basta,zwn to.n tra,gon eivj th.n e;rhmon kai. avfairei/ to. e;rion kai. evpiti,qhsin auvto. evpi. fru,ganon to. lego,menon r`ach/(32 ou- kai, tou.j blastou.j eivw,qamen trw,gein evn th/| cw,ra| eu`ri,skontejÅ 8c Ou[twj mo,nhj th/j r`ach/j oi` karpoi. glukei/j eivsi,nÅ 9a Ti, ou-n kai. tou/to* prose,cete\ “To.n me.n e[na evpi. to. qusiasth,rion( to.n de. e[na evpikata,raton”( kai. o[ti to.n evpi- kata,raton evstefanwme,nonÅ 9b VEpeidh. o;yontai auvto.n to,te th/| h`me,ra| to.n podh,rh e;conta to.n ko,kkinon peri. th.n sa,rka kai. evrou/sin\ “Ouvc ou-to,j evstin( o[n pote h`mei/j evstaurw,samen evxouqenh,santej kai. katakenth,santej kai. evmptu,santej* avlhqw/j ou-toj h=n( o` to,te le,gwn e`auto.n ui`o.n qeou/ ei=nai”Å 10a Pw/j ga.r o[moioj evkei,nw|* eivj tou/to “o`moi,ouj” tou.j tra,gouj

28 Sul rapporto tra Eb 9,28 e Is 53,12, cf. CICCARELLI, La sofferenza di Cristo nell’Epistola agli Ebrei, 218-222; circa la relazione tra l’autosacrificio di Cristo in Eb 7,27; 9,14.25.28 e il possibile background lette- rario di Is 53,7.10.12, si vedano le pp. 191-194 e 215-223.

29 Cf. D. STÖKL BEN EZRA, «The Christian Exegesis of the Scapegoat between Jews and Pagans», in A.I. BAUMGARTEN (ed.), Sacrifice in Religious Experience (Studies in the History of Religions 93), Leiden- Boston-Cologne 2002, 212; ID., «The Impact of Yom Kippur on Christianity in the First and Second Centu- ries», in ID., The Impact of Yom Kippur on Early Christianity, 152.

30 STÖKL BEN EZRA, The Impact of Yom Kippur on Early Christianity, 150-152. 31 STÖKL BEN EZRA, «The Christian Exegesis of the Scapegoat», 226-227.

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kai. “kalou,j”( i;souj( i[na( o[tan i;dwsin auvto.n to,te evrco,menon( evkplagw/sin evpi. th/| o`moio,thti tou/ tra,gouÅ 10b Ouvkou/n i;de to.n tu,pon tou/ me,llontoj pa,scein VIhsou/Å 11a Ti, de.( o[ti to. e;rion eivj me,son tw/n avkanqw/n tiqe,asin* tu,poj evsti.n tou/ VIhsou/ th/| evkklhsi,a| kei,,menoj( o[ti o[j eva.n qe,lh| to. e;rion a=rai to. ko,kkinon( dei/ auvto.n polla. paqei/n dia. to. ei=nai fobera.n th.n a;kanqan( kai. qlibe,nta kurieu/sai auvtou/Å 11b “Ou[twj”( fhsi,n( “oi` qe,lonte,j me ivdei/n kai. a[yasqai, mou th/j basilei,aj ovfei,lousin qlibe,ntej kai. paqo,ntej labei/n me”Å33

6a In che modo, dunque, fu ordinato? Osservate: «Prendete un paio di capri, belli e simili, e offriteli; il sacerdote poi prenda uno per il sacrificio di olocausto per i pecca- ti». 6b Cosa invece faranno con l’altro? «L’altro» dice «è maledetto». 7 Guardate come si manifesta il tipo di Gesù. 8a «E voi tutti sputate [su di esso], trafiggete[lo], mettete la lana scarlatta attorno alla sua testa e così sia condotto nel deserto». 8b E fatto questo, colui che porta il capro, [lo] conduce nel deserto, rimuove la lana e la pone su un arbusto chiamato roveto, i cui germogli che troviamo nel campo siamo soliti mangiare; così del solo roveto i frutti sono dolci. 9a Ora cosa significa questo? Considerate «uno [è] sull’altare, l’altro è maledetto» e che il maledetto è incoronato. 9b Poiché in quel giorno essi lo vedranno che ha attorno al corpo la veste talare scar- latta, diranno: «Non è questi colui che abbiamo crocifisso dopo averlo trattato con disprezzo, averlo trafitto e coperto di sputi? Sì, certo, questi è colui che allora dichiarò di essere il Figlio di Dio». 10a Ma come [questo è] simile a quello? La ragione per cui i capri debbano essere «simili», «belli» e di uguale grandezza è perché, quando lo vedranno venire in quel giorno, essi siano colpiti per la somiglianza del capro. 10b Vedi, dunque, il tipo di Gesù che doveva soffrire. 11a Ma cosa significa che essi pose- ro la lana in mezzo alle spine? È il tipo di Gesù che dimora nella Chiesa, poiché chiun- que volesse rimuovere la lana scarlatta deve soffrire molto, per il fatto che la spina è terribile, e impossessarsene con afflizione. 11b E dice: «Così, coloro che vogliono vedermi e possedere il mio regno devono ottenermi con afflizioni e sofferenze».

Il capro emissario è presentato come un maledetto (EpBarn 7,7.9), ele- mento assente sia nel testo biblico riguardante il rito dello Yom Kippur che nella Mishna, ma dice anche che è coperto di sputi, trafitto, col capo avvolto da lana scarlatta e condotto nel deserto (7,8). Quello che sorprende è che in questo brano il capro emissario, in quanto tipo della passione di Gesù (EpBarn 7,7.10), subisce alcuni maltrattamenti (sputi e trafittura) che non si trovano né nel testo di Lv 16 né nella tradizione mishnaica, che attesta il rituale così come esso si era sviluppato nel I secolo. In Yoma VI compaiono solo alcuni elementi presenti anche in EpBarn 7, e cioè la somiglianza dei due capri (sebbene, secondo Yoma, la somiglianza non sia obbligatoria), la fascia scarlatta posta fra le corna del capro emissario e l’invio dello stesso nel deserto.34 Nel testo di Barnaba non viene menzionata nemmeno la morte del capro emissario, attestata, invece, dal rituale descritto in Yoma VI,6.

32 Il termine è incerto e sembra che si debba intendere un «roveto». Il codice Sinaitico riporta il ter- mine r`ach,l.

33 Il testo greco è quello stabilito da Kraft in P. PRIGENT – R.A. KRAFT (edd.), Épître de Barnabé. Introduction, traduction et notes (SC 172), Cerf, Paris 1971, 132, 134, 136; è nostra la traduzione italiana di questo testo, come anche di quelli di Giustino e di Tertulliano riportati in seguito.

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Bisogna notare, inoltre, che, nell’Epistola di Barnaba come negli altri due testi che esamineremo, l’uso della tipologia del capro emissario nell’interpreta- zione cristiana della morte di Gesù non fa menzione dell’imposizione delle mani sulla testa del capro e della confessione dei peccati con cui il capro si addossava simbolicamente tutti i peccati del popolo, aspetto che, al contrario, è centrale nel rito del capro emissario, sia secondo Lv 16 che per la tradizione rabbinica.35 Inol- tre, la definizione di «maledetto» data al capro emissario viene associata alla descrizione dei maltrattamenti da esso subiti (7,8), manifestandosi, così, come il tipo di Gesù che doveva soffrire (7,10) e che è stato, difatti, trattato con disprez- zo, trafitto, coperto di sputi e crocifisso (7,9). Perciò, mediante il destino di sof- ferenza comune sia a Gesù sia al capro emissario e il valore prefigurativo del secondo rispetto al primo, la maledizione legata al capro è riferita anche a Gesù.

D’altra parte, non si può trascurare che l’aggettivo usato, evpikata,ratoj, risulta essere il medesimo che usa Paolo in Gal 3,13, applicando a Cristo la male- dizione di cui parla Dt 21,23 a proposito di colui che pende dal legno, sebbene egli modifichi la citazione deuteronomistica, che conteneva il participio perfetto passivo kekathrame,noj (cf. anche Dt 27,26 e Gal 3,10).36 Tuttavia, manca nell’Epi- stola di Barnaba un esplicito riferimento alla maledizione di Dt 21,23, forse per- ché risultava già naturale per il lettore la connessione tra maledizione, croce e il passo di Dt 21,23.37

Il colore scarlatto, che Yoma VI,6 attribuisce alla fascia posta sulla testa del capro, è un motivo di ispirazione per l’interpretazione cristiana dell’Epistola di Barnaba, il quale vi intravede la veste scarlatta di Cristo che ritorna glorioso. Il riconoscimento da parte di coloro che lo hanno crocifisso, ossia di tutti coloro che hanno contribuito alla sua morte, avviene «in quel giorno», nel giorno, cioè, del suo ritorno glorioso. Quando, infatti, egli verrà, essi vedranno che è avvolto da una veste scarlatta e si chiederanno se non è proprio lui quello che essi ave-

34 Secondo Yoma IV,2, una fascia rossa era anche legata al collo del capro da immolare.

35 Secondo LOUF, «Caper emissarius ut typus Redemptoris apud Patres», 269-270, il motivo di ciò sta- rebbe nel fatto che la teologia primitiva non aveva ancora elaborato l’idea di Cristo carico dei peccati degli uomini. Ma c’è da notare, comunque, che la tipologia cristologica del Servo sofferente carico dei peccati della moltitudine viene utilizzata da 1Pt 2,24 e forse anche da Gv 1,29. In EpBarn 5,2 alla passione di Gesù è attri- buito un significato di espiazione vicaria, in quanto attualizza la profezia di Is 53,5.7; cf. anche EpBarn 5,12.

36 Paolo usa il verbo composto evpikatara,omai, che è meno frequente di katara,omai, e non riporta la frase al completo, omettendo il complemento d’agente: «da Dio» (u`po. qeou/), presente nella versione dei LXX e che viene ripresa quasi letteralmente anche da FILONE in De Posteritate 26: kekathrame,non upo. to.n krema,menon epi. xu,lon. Secondo alcuni autori sarebbe questo un segno con il quale l’apostolo vuole indicare che la maledizione deriva non da Dio, ma dalla Legge; cf. ad es. D.-A. KOCH, Die Schrift als Zeuge des Evan- geliums: Untersuchungen zur Verwendung und zum Verständnis der Schrift bei Paulus (BHT 69), Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1986, 125; F. MUSSNER, La Lettera ai Galati (CTNT 9), Paideia, Brescia 1987, 365- 366 (or. ted. 41981). Il testo di 11QTemple 64,12 afferma che colui che è appeso «è maledetto da Dio e dagli uomini». Cf. Y. YADIN, The Temple Scroll, Jerusalem 1983, II, 291; A. VIVIAN, Rotolo del tempio, Paideia, Bre- scia 1990, 128. La frase che troviamo nel TM (yWlT' ~yhil{a/ tl;l.qi-yKi) potrebbe forse essere intesa anche come «maledizione/insulto per Dio»; cf. B.H. MCLEAN, The Cursed Christ. Mediterranean Expulsion Rituals and Pauline Soteriology (JSNT.SS 126), Sheffield 1996, 133-134. Sanh. VI,4 cita il passo di Dt 21,23 parlan- do, però, di «maledizione di Dio» e spiegando che la condanna dell’appeso al legno è dovuta al fatto che «egli ha maledetto il nome di Dio».

37 STÖKL BEN EZRA, «The Impact of Yom Kippur on Christianity in the First and Second Centuries», 154.

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vano diprezzato, trafitto, coperto di sputi e crocifisso, lo stesso che si era procla- mato Figlio di Dio. Essi, quindi, lo potranno riconoscere per la sua «lunga veste scarlatta» (to.n podh,rh [...] to.n ko,kkinon) con la quale si presenterà una seconda volta,38 richiamando, con il termine podh,rh, la veste del sacerdote Giosuè (in greco VIhsou/j), secondo la visione contenuta in Zc 3,4 (cf. anche Es 28,4.31; 29,5). Il colore della veste è collegato alla «lana scarlatta» posta sul capo del capro, ma rimanda anche direttamente alla passione di Gesù (7,7-8), mediante quella «cla- mide scarlatta» che Gesù porta nella sua passione vestito da re da burla come in Mt 27,28 (clamu,da kokki,nhn perie,qhkan auvtw/|).39 Sebbene l’Epistola di Barnaba non associ esplicitamente la veste scarlatta alla clamide scarlatta posta su Gesù in Mt 27,28 – ma dal contesto se ne ricava una chiara allusione – sembra, comun- que, che per lui sia un fatto normale associare la passione di Gesù con la regalità simboleggiata dal colore rosso scarlatto. In EpBarn 8,1-5, infatti, in riferimento al rito della vacca rossa descritto in Nm 19,1-10, e a cui la tradizione rabbinica dedica il dettagliatissimo trattato Para, l’autore spiega il motivo della lana scar- latta legata attorno al legno (EpBarn 8,1: peritiqe,nai to. e;rion to. ko,kki-non evpi. to. xu,lon, cf. Para 3,11)40 in base al fatto che «il regno di Gesù è sul legno» (EpBarn 8,5: o[ti de. to. e;rion evpi. to. xu,lon / o[ti h` basilei,a VIhsou/ evpi. xu,lw|), asso- ciando, quindi, alla passione di Gesù sulla croce proprio l’immagine della lana scarlatta come simbolo della regalità. Il nostro testo di EpBarn 7, quindi, testi- monia un’evoluzione ermeneutica della fascia di colore scarlatto sulla testa del capro: dall’immagine del paludamento regale durante la passione di Gesù si passa all’immagine della veste scarlatta che il Cristo indosserà quando ritornerà nella gloria; da una regalità apparente e costruita solo per divertirsi si passa a una regalità vera e riconosciuta da tutti. Non è certo, infine, che il colore rosso abbia a che fare con il sangue di Cristo stesso, ma il fatto che la lana rossa venga poi

38 LOUF, «Caper emissarius ut typus Redemptoris apud Patres», 267. Di «lana rossa» parla solo Eb 9,19 nel contesto di rievocazione dell’alleanza descritta in Es 24,3-8: «Prendendo il sangue dei giovenchi e dei capri, insieme ad acqua, lana scarlatta (evri,ou kokki,nou) e issopo, asperse il libro stesso e tutto il popolo». Tuttavia, nel testo dell’Esodo non si parla di lana rossa, mentre se ne parla in Lv 14,4-7 nel contesto di puri- ficazione dalla lebbra.

39 Si tratta, con ogni probabilità, del sagum, che era il mantello rosso usato dai soldati; cf. Mt 27,28: «una clamide scarlatta»; Lc 23,11: «splendida veste»; Mc 15,17 e Gv 19,2: «porpora». Per maggiori dettagli cf. J. BLINZLER, Il processo di Gesù, Paideia, Brescia 1966, 298, nota 26 (or. ted. Der Prozess Jesu, Regensburg 31960), dove, tra l’altro, si ricorda che in epoca tarda ko,kkinoj sarà usato per il colore rosso in generale. H. Koester sostiene che Matteo voglia alludere alla «lana scarlatta» posta intorno al capro, di cui parla EpBarn 7; cf. H. KOESTER, Ancient Christian Gospels. Their History and Development, Philadelphia-London 1990, 225-226. La parodia del re non era sconosciuta ed è possibile che sia storicamente accaduta nel caso di Gesù o, in ogni caso, anche la tradizione dei vangeli avrà potuto attingere ad alcuni precedenti all’interno del con- testo greco-romano, primo fra tutti l’episodio, riportato da Filone, dello scherno a Erode Agrippa I, nel 38 d.C. ad Alessandria, ad opera di gruppi antigiudei, i quali avevano vestito un personaggio malato di mente, un certo Karabas, e, secondo quelli che erano i mimi teatrali del tempo, lo avevano vestito con abiti regali, senza però maltrattarlo; cf. FILONE ALESSANDRINO, In Flaccum 6,36-40; inoltre, in alcune feste, come le Sacee o i Saturnali romani, gli schiavi erano rivestiti di abiti regali. Su questa e altre possibili fonti, tra le quali anche il gioco del re e i mimi teatrali, cf. R.E. BROWN, La morte del Messia. Dal Getsemani al sepolcro. Un commentario ai racconti della passione nei quattro vangeli, Queriniana, Brescia 1999, 986-991.

40 Alla frase il codice Sinaitico aggiunge: «ecco di nuovo il tipo della croce e la lana scarlatta» (EpBarn 8,1: i;de pa,lin o` tu,poj o` tou/ staurou/ kai. to. e;rion to. ko,kkinon).

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messa sul roveto e che non si possa prenderla senza ferirsi ha una chiara ragio- ne: la sofferenza non è solo il destino di Cristo, ma anche quello del cristiano che vuole raggiungere e possedere il regno di Cristo. Quindi, la regalità che Cristo ottiene e che i cristiani cercano, simboleggiata dal vestito scarlatto, passa neces- sariamente attraverso le sofferenze.

Come dicevamo, i maltrattamenti subiti dal capro sono una novità rispetto sia alla tradizione biblica che al rituale rabbinico.41 Nemmeno nel contesto più ampio del giudaismo a cavallo dell’era cristiana abbiamo elementi documentali significativi che possano dare ragione della menzione dei maltrattamenti del capro descritti dall’Epistola di Barnaba. Nella testimonianza che ci offre, per esempio, il Rotolo del tempio (I sec. a.C.), mentre il rito del capro immolato risul- ta ampliato, quello del capro emissario è sostanzialmente identico a Lv 16.42 Inol- tre, il fatto menzionato in Yoma VI,4 circa i peli del capro che venivano strappa- ti da parte dei «babilonesi»,43 che dicevano «Prendi e vai via», non ci sembra che si configuri come un vero e proprio maltrattamento, ma ha chiaramente un forte valore simbolico in riferimento all’allontanamento dei peccati che dovevano essere tolti dalla comunità e, mediante il capro, portati via nel deserto. In ogni caso, proprio la costruzione, di cui parla il trattato Yoma, di una rampa per il capro al fine di evitare che gli venissero strappati i peli, indica chiaramente la volontà che il capro non dovesse essere maltrattato.

Nemmeno in altre fonti giudaiche si riscontrano particolari su eventuali maltrattamenti del capro emissario. Filone Alessandrino, per esempio, dice solo che il capro emissario portava addosso le maledizioni a vantaggio di coloro che avevano peccato44 e che, venendo rimosso e cacciato via, si imbatteva in luoghi impraticabili, profani e in precipizi.45 Egli parla anche, in modo generico, di sof- ferenza del capro (to. avpopo,mpimon pa,qoj),46 ma, non menzionando alcun concre- to maltrattamento, potrebbe in realtà riferirsi al fatto che esso sia mandato a morire nel deserto. Flavio Giuseppe, da parte sua, parla dell’invio del capro emis- sario e, usando tipiche espressioni cultuali greche, dice che esso era avpotropiasmo.j kai. parai,thsij, ossia «sacrificio espiatorio e supplica [per il perdono]» (Ant. giud. 3,241), ma senza accennare a torture fisiche.

Bisogna inoltre notare che il testo di Barnaba non segue il rituale giudaico nemmeno nella modalità dell’espulsione del capro. Mentre, infatti, nel testo cri-

41 Sono, invece, convinti che la tradizione liturgica mishnaica parli di maltrattamenti sul capro emis- sario: LOUF, «Caper emissarius ut typus Redemptoris apud Patres», 267; J.D. CROSSAN, The Cross That Spoke. The Origins of the Passion Narrative, Harper & Row, San Francisco 1988, 119 e STÖKL BEN EZRA, The Impact of Yom Kippur on Christianity in the First and Second Centuries, 159.

42 Cf. 11Q 19 XXV-XXVI.

43 Il testo di b.Yoma 66b riporta che il nome di babilonesi era stato dato, in realtà, agli ebrei ales- sandrini, perché erano odiati dai palestinesi.

44 Cf. FILONE ALESSANDRINO, De specialibus legibus 1,188: evf’ e`autw/| komi,zonta ta.j u`pe.r tw/n plhmme- lhsa,ntwn avra,j.

45 Cf. FILONE ALESSANDRINO, Quis rerum divinarum 179: metani,statai kai. diw,|kistai; De Plantatione 61: eivj de. a;bata kai. be,bhla kai. ba,raqra evmpi,ptwn.

46 FILONE ALESSANDRINO, Legum allegoriae 2,52.

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stiano c’è una responsabilità collettiva nell’espulsione e nei maltrattamenti di cui il capro viene fatto oggetto, la tradizione mishnaica, invece, presenta il capro come accompagnato nel deserto fino al precipizio da una persona preposta a tale compito e questi non ritornava nel campo se non alla sera, dopo avere purifica- to i propri vestiti.47 Come si può notare, in effetti, EpBarn 7,8 presenta una col- lettività come soggetto agente, pa,ntej, con tre verbi in imperativo aoristo, evmptu,sate, katakenth,sate, peri,qete, che descrivono i maltrattamenti subiti dal capro da parte di questi «tutti», i quali sputano addosso al capro, lo trafiggono e avvolgono della lana scarlatta intorno al suo capo. In seguito, riconoscendo nel Gesù che torna glorioso lo stesso che hanno conosciuto durante la sua vita ter- rena, essi si chiederanno: «Non è questi colui che abbiamo crocifisso dopo aver- lo trattato con disprezzo, averlo trafitto e coperto di sputi?» (7,9). La bellezza e la somiglianza dei due capri (7,6: kalou.j kai. o`moi,ouj; 7,10: o`moi,ouj tou.j tra,gouj( kalou,j( i;souj), di cui parla l’autore, porta i crocifissori, quando vedranno venire il Cristo, a stupirsi «per la somiglianza del capro» (7,10: evkplagw/sin evpi. th/| o`moio,thti tou/ tra,gou), vale a dire della somiglianza tra i due capri. Il valore sim- bolico di tale somiglianza, infatti, serve da chiave ermeneutica per il riconosci- mento del Christus patiens nell’icona del Cristo che ritorna glorioso.

Tra questi tre participi aoristi che hanno come oggetto Gesù, evxouqenh,- santej( katakenth,santej( evmptu,santej, gli ultimi due concordano, sebbene in una sequenza inversa (prima gli sputi e poi la trafittura), con il medesimo trattamen- to riservato al capro emissario nei due versetti precedenti: evmptu,sate pa,ntej kai. katakenth,sate. La trafittura e gli sputi, come azioni dirette contro Gesù, com- paiono uniti solo qui e nell’Evangelium Petri 9, ma non nei vangeli canonici. Per la verità, di trafittura si parla anche in Gv 19,34, con un richiamo, in 19,37, al passo di Zc 12,10, circa lo sguardo rivolto a colui che «trafissero» (cf. anche il verbo ll;x', «trafiggere», in Is 53,5; nel testo greco compare il verbo traumati,zw).48 Tuttavia, la trafittura con la lancia del costato di Gesù (Gv 19,34: lo,gch| auvtou/ th.n pleura.n e;nuxen) è realizzata da un soldato nel momento in cui Gesù è già morto sulla croce, mentre nell’Epistola di Barnaba precede la menzione degli sputi; da ciò si può dedurre che essa faccia parte dei maltrattamenti prima della crocifis- sione. Infine, il testo di Barnaba dice che Gesù è trattato con disprezzo, utiliz- zando il verbo evxouqene,w, che letteralmente significa «considerare un niente» e quindi «disprezzare», ma può forse implicare anche il senso di «rigettare»,49 che

47 La presenza di altri accompagnatori era limitata solo a una parte dell’intero percorso; cf. Yoma

VI,4-5.

48 La traduzione è secondo il TM, mentre la versione dei LXX sembra aver frainteso il verbo Wrq'D' per Wdq.r' («danzarono»), inteso nel senso di «insultarono», e traduce appunto katwrch,santo («insultaro- no»); cf. CROSSAN, The Cross That Spoke, 126. Si uniformano al testo masoretico le versioni di Aquila (evxeke,nthsan), Simmaco (evpexeke,nthsan), Teodozione (evxeke,nthsan) e Luciano (evxeke,nthsan). Cf. anche Ap 1,7, dove si parla della venuta di Cristo sulle nubi, visto da coloro che prima lo avevano trafitto.

49 Cf. CROSSAN, The Cross That Spoke, 127, secondo il quale l’Epistola di Barnaba mette insieme due temi del rigetto: quello del Servo in Is 53,3 e quello della pietra rigettata dai costruttori in Sal 118,22. La citazione dello stesso salmo viene ripresa da Pietro in At 4,11 quando, davanti al consiglio degli anziani di Gerusalemme, dopo aver parlato di Gesù morto e risorto, dice che Cristo è la pietra angolare che, disprez-

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ben si accorda con l’immagine del capro che viene espulso e inviato nel deserto. A questo punto, però, prima di procedere ad approfondire la tipologia cristolo- gica del capro emissario presente nell’Epistola di Barnaba, è opportuno interro- garsi sulla consistenza e diffusione di tale tipologia e, a tale scopo, esaminare come gli altri due testi, a cui accennavamo all’inizio, espongono la tematica.

2.4. Il Dialogo con Trifone di Giustino

Verso il 160 d.C. l’opera di Giustino martire, Dialogo con Trifone, ci offre un esempio di interpretazione cristologica dello Yom Kippur, dove i due capri stanno a significare le due parusie di Cristo, le sue due manifestazioni: la prima, che è avvenuta nella carne con la sua passione e morte, è rappresentata dal capro emissario; la seconda, col suo ritorno glorioso, è rappresentata dal capro espia- torio offerto nel tempio.

Dial. 40,4-5: 4 Kai. oi` evn th/| nhstei,a| de. tra,goi du,o o[moioi keleusqe,ntej gi,nesqai( w-n o` ei-j avpotompai/oj evgi,neto( o` de. e[teroj eivj prosfora,n( tw/n du,o parousiw/n tou/ Cristou/ kataggeli,a h=san\ mia/j me,n( evn h|- w`j avpotompai/on auvto.n parepe,myanto oi` presbu,teroi tou/ laou/ u`mw/n kai. oi` i`erei/j( evpibalo,ntej auvtw/| ta.j cei/raj kai. qanatw,santej auvto,n( kai. th/j deute,raj de. auvtou/ parousi,aj( o[ti evn tw/| auvtw/| to,pw| tw/n VIerosolu,mwn evpignw,sesqe auvto,n( to.n avtimwqe,nta u`fV u`mw/n( kai. prosfora. h=n u`pe.r pa,ntwn tw/n matanoei/n boulome,nwn a`martwlw/n kai. nhsteuo,ntwn h]n katale,gei vHsai<aj nhstei,an( diaspw/ntej straggalia.j biai,wn sunal- lagma,twn kai. ta. a;lla o`moi,wj ta. kathriqmhme,na u`pV auvtou/( a' kai. auvto.j avnisto,rhsa( fula,ssontej( a' poiou/sin oi` tw/| VIhsou/ pisteu,ontejÅ 5 kai. o[ti kai. h` tw/n du,o tra,gwn tw/n nhstei,a| keleusqe,ntwn prosfe,resqai prosfora. ouvdamou/ o`moi,wj sugkecw,rhtai gi,nesqai eiv mh. evn VIerosolu,moij( evpi,stasqe50

4 E nel [giorno] del digiuno, i due capri richiesti [dalla legge] che fossero simili, il primo dei quali divenne emissario (avpopompai/oj), l’altro invece divenne offerta sacrifi- cale (prosfora,), erano una prefigurazione delle due parusie di Cristo: della prima parusia, quando gli anziani del vostro popolo e i sacerdoti come un capro emissario lo hanno ripudiato, mettendo le mani su di lui e facendolo morire; della seconda parusia, poiché nello stesso luogo di Gerusalemme riconoscerete colui che è stato disonorato da voi ed era un’offerta sacrificale per tutti i peccatori che volevano convertirsi digiu- nando – Isaia definisce tale digiuno «rompere i nodi di vincoli violenti» [Is 58,6] – e osservando similmente le altre cose da lui menzionate, che io stesso ho indagato e che compiono coloro che credono in Gesù. 5 E voi sapete che l’offerta sacrificale dei due capri stabiliti da offrire nel giorno del digiuno allo stesso modo in nessun altro luogo può avvenire se non a Gerusalemme.

zata dai costruttori, è diventata pietra d’angolo: ou-to,j evstin o` li,qoj( o` evxouqenhqei.j u`fV u`mw/n tw/n oivkodo,mwn( o` geno,menoj eivj kefalh.n gwni,ajÅ In questo caso, però, come si può notare, il testo degli Atti al posto del verbo «rigettare» usato dal salmo (Sal 118,22 TM: sa;m'; Sal 117,22 LXX: avpodokima,zw) preferisce il verbo evxouqene,w. Aveva già notato la vicinanza della tipologia del capro emissario con l’immagine della pietra scartata dai costruttori LOUF, «Caper emissarius ut typus Redemptoris apud Patres», 270.

50 Per il testo greco, cf. P. BOBICHON (ed.), Justin Martyr. Dialogue avec Tryphon. Édition critique, tra- duction, commentaire (Paradosis 47/1), Academic Press, Fribourg 2003, I, 284.

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Nell’interpretazione del rito dello Yom Kippur fatta nel Dialogo con Trifo- ne troviamo un’insistenza sulla sofferenza subita da Gesù. In realtà, ci sono diversi passi in cui Giustino descrive la sua figura secondo le caratteristiche del Servo sofferente di Isaia, parlando soprattutto delle sofferenze di Cristo piutto- sto che della sua morte. L’aggettivo «sofferente», per esempio, compare come un vero titolo di Cristo (Dial. 126,1: paqhto,j) e a lui sono applicati anche i titoli di «servo» e di «eletto» dati a Giacobbe-Israele, citando il primo canto del Servo in Is 42,1-4 LXX (Dial. 135,2). L’ebreo Trifone, da parte sua, arriva ad ammettere che le Scritture realmente annunziano un messia «sofferente» (paqhto,j), ma chie- de che Giustino dimostri perché questi debba essere proprio Gesù (Dial. 39,7). L’accentuazione data da Giustino alla sofferenza di Cristo arriva perfino a fargli dire che la celebrazione eucaristica è compiuta «in memoria della passione che egli ha sofferto» (Dial. 41,1: eivj avna,mnhsin tou/ pa,qouj( ou- e;paqen) e che Gesù «è diventato sofferente» (Dial. 70,4: di’ ou]j kai. paqhto.j ge,gone) per coloro che cre- dono in lui.51

Al capitolo 40, Giustino si riferisce allo Yom Kippur parlando di «giorno del digiuno», che indica, in effetti, la trasformazione della festività a partire dalla distruzione del tempio, quando, cioè, nell’impossibilità dei sacrifici, venne man- tenuta solo l’osservanza del digiuno. Ricollegandosi all’ideale profetico del digiuno, come descritto in Is 58,6, Giustino cita i due capri che una volta, in tale giorno, venivano utilizzati. Secondo la traduzione greca dei LXX, il capro non è inviato ad Azazel, come nel TM, ma è definito avpopompai/oj, ossia «l’emissario», dal verbo avpope,mpw, «mando via», ed è considerato il typos di Cristo che, nella sua prima venuta sulla terra, subisce la passione e la morte per iniziativa dei respon- sabili del popolo ebraico. Giustino, infatti, si rivolge a Trifone dicendo: «Come capro emissario, gli anziani del vostro popolo e i sacerdoti, mettendo le mani su di lui e facendolo morire, lo hanno ripudiato» (40,4). Il verbo parepe,myanto, «hanno ripudiato», ha una stretta contiguità formale e semantica con l’aggettivo avpopompai/oj, contenendo entrambi il medesimo verbo fondamentale, pe,mpw («invio»). Il capro emissario, quindi, che è stato mandato via ed espulso, assomi- glia a Gesù che viene mandato via ed è ripudiato dal suo popolo. A ragione, poi, è stato fatto notare che l’espressione evpiba,llein ta.j cei/raj non allude all’imposi- zione delle mani sul capro per la confessione dei peccati descritta in Lv 16,21, dove il verbo usato è evpiti,qhmi, ma indica piuttosto la cattura di Gesù da parte dell’autorità (cf. Mc 14,46: oi` de. evpe,balon ta.j cei/raj auvtw/|; cf. anche Lc 20,19; 21,12; Gv 7,30; At 4,3; 5,18; 12,1; 21,27).52 Con la menzione della morte, infine, si può dedurre che, per Giustino, il capro non era solo inviato nel deserto, come appare in Barnaba, ma anche ucciso, come prevedeva il rituale attestato dalla Mishna.

51 Giustino accusa esplicitamente gli ebrei non solo di non accettare la traduzione dei LXX e di aver fatto un’altra traduzione, dando una diversa interpretazione ad alcuni passi che si riferirebbero a Gesù come messia (Dial. 71,3), ma addirittura li accusa di aver soppresso anche molti passi della Scrittura che mostravano chiaramente la sua natura umana e divina (Dial. 72,1-4).

52 LOUF, «Caper emissarius ut typus Redemptoris apud Patres», 265-266.

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Secondo Giustino, la seconda parusia avrà luogo nella stessa città di Geru- salemme, dove Gesù è stato precedentemente ripudiato e ucciso; qui avverrà il suo riconoscimento come «colui che è stato disonorato da voi» (40,4: avtimwqe,nta u`f’ u`mw/n). Il capro emissario, quindi, rappresenta la passione disonorevole di Gesù, mentre l’altro capro rappresenta la seconda parusia di Cristo. A causa della somiglianza dei due, allora, nei tratti del secondo capro verrà riconosciuto il primo capro. Vale a dire che nel Cristo glorioso, rappresentato dal capro espia- torio immolato a Dio e il cui sangue veniva portato all’interno del santuario, verrà riconosciuto colui che, rappresentato dal capro emissario, era stato, nella sua prima parusia, ripudiato, trattato con disonore e messo a morte. In questo modo Giustino, mediante la somiglianza dei due capri e l’unità inscindibile della finalità espiatoria dei due capri nel rito dello Yom Kippur (40,5: h` tw/n du,o tra,gwn tw/n nhstei,a| keleusqe,ntwn prosfe,resqai prosfora,), lega insieme la passione igno- miniosa subita da Gesù con il significato salvifico del suo sacrificio. In altre paro- le, il carattere del sacrificio come offerta santificata e presentata a Dio per l’e- spiazione dei peccati viene a congiungersi con la dimensione di sofferenza e umi- liazione, due aspetti di per sé inconciliabili.53 Giustino, quindi, sviluppa la dottri- na delle due parusie di Cristo e, a proposito della prima, dice che si presenta «sof- ferente, disonorato e senza aspetto» (Dial. 49,2: paqhto,j kai. a;timoj kai. aveidh.j; cf. anche 52,1).

In Dial. 40,4-5, applicando la tipologia cristologica del capro emissario, egli mostra di ispirarsi all’Epistola di Barnaba, sebbene non ne riprenda tutti i parti- colari. Giustino annuncia soltanto che i due capri rappresentano le due parusie di Cristo e, in seguito, dice che «come un capro emissario» Gesù è stato ripudia- to, catturato e messo a morte. La riflessione, quindi, si concentra sulla passione e morte di Gesù e non sul capro emissario. Nella seconda parusia, poi, Gesù verrà riconosciuto come colui che è stato precedentemente ripudiato e disonorato dai sacerdoti e dagli anziani del popolo. La polemica antigiudaica di Giustino, infat- ti, si muove all’interno di un quadro di riferimento generale, secondo il quale i responsabili del popolo d’Israele non hanno riconosciuto il messia nei tratti di Gesù sofferente, ma lo hanno, invece, rigettato, trattato con disonore e, infine, ucciso. Avendo applicato abbondantemente, nel suo scritto, la tipologia del Servo sofferente alla passione di Gesù, Giustino si rifà ora alla tipologia del capro emis- sario non tanto per descrivere i maltrattamenti e gli oltraggi subiti da Gesù, quanto per significare il suo ripudio e la finale eliminazione fisica. Egli evita

53 In questo modo, Giustino cerca di superare la ripugnanza giudaica a riconoscere a una morte ignominiosa il significato sacrificale di espiazione dei peccati; cf. LOUF, «Caper emissarius ut typus Redemp- toris apud Patres», 266. È stata anche riscontrata una variante della tipologia dello Yom Kippur nel com- mento di Ippolito di Roma al passo di Pr 30,31 LXX, dove si parla di un capro che conduce il gregge; cf. IPPOLITO, fr. 75. Ma quest’unico capro racchiude sia le caratteristiche del capro espiatorio che quelle del capro emissario ed è, tra l’altro, «coronato con lana scarlatta»; cf. A. ZANI, «Tracce di un’interessante, ma sconosciuta, esegesi midrashica giudeo-cristiana di Lv 16 in un frammento di Ippolito», in Bibbia e Oriente 24(1982), 157-166; articolo notato e citato da STÖKL BEN EZRA, The Impact of Yom Kippur on Early Chri- stianity, 158-159. Il testo, però, non offre elementi che possano far accostare i caratteri del capro emissario alla passione di Gesù.

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anche l’attribuzione a Gesù della maledizione di Dt 21,23, forse perché vuol venire incontro alle perplessità di Trifone, che non riesce proprio a capire come il messia sofferente debba subire una morte maledetta. Egli, infatti, afferma che Cristo crocifisso non è maledetto dalla Legge (o` ou=n paqhto.j h`mw/n kai. staurwqei.j Cristo.j ouv kathra,qh u`po. tou/ no,mou), ma è il solo che può salvare coloro che non si allontanano dalla fede in lui.54

2.5. L’Adversus Marcionem di Tertulliano

Scritto all’inizio del III secolo e influenzato certamente dalla tradizione precedente, individuabile nei testi appena esaminati dell’Epistola di Barnaba e del Dialogo con Trifone di Giustino, anche l’Adversus Marcionem di Tertulliano presenta il rito giudaico dello Yom Kippur come una delle tipologie cristologiche dell’AT. Nella sua lettura cristiana, i due capri sono soprattutto le prefigurazioni dei due avventi di Cristo (Adversus Marcionem III, 7,6): il primo, già realizzato- si, allorché egli è venuto «nell’indegnità della carne sofferente e mortale» (car- nis passibilis et mortalis indignitate); il secondo, invece, ancora da realizzarsi, nel giorno in cui egli apparirà nella sua gloria «adornato con una veste talare, un tur- bante e una corona raffinata» (exornatus podere, et mitra, et cidari munda). Inol- tre, come l’Epistola di Barnaba e il Dialogo con Trifone, anche il testo di Tertul- liano sottolinea la condizione di umiliazione e di sofferenza alla quale Cristo è sottoposto. In seguito, infatti, come immagine della passione di Cristo, viene pre- sentato il capro emissario gettato fuori dell’accampamento, ferito e maledetto.

Adv. Marc. III, 7,7 Si enim et duorum hircorum qui ieiunio offerebantur faciam interpretationem, nonne et illi utrumque ordinem Christi figurant? Pares quidem atque consimiles propter eundem dominum conspectum, quia non in alia venturus est forma, ut qui agnosci habeat a qui- bus laesus est. Alter autem eorum circumdatus coccino, maledictus, et consputatus, et convulsus, et compunctus, a populo extra civitatem abiciebatur in perditionem, manife- stis notatus insignibus dominicae passionis. Alter vero, pro delictis oblatus et sacerdoti- bus <tantum> templi in pabulum datus, secundae repraesentationis argumenta signa- bat, qua delictis omnibus expiatis sacerdotes templi spiritalis, id est ecclesiae, dominicae gratiae quasi visceratione quadam fruerentur, ieiunantibus ceteris a salute.55

54 Dial. 111,2. In Dial. 73,1 e 4, interpretando in chiave cristologica il Sal 95,10, dopo la frase «il Signore regna», Giustino aggiunge il complemento «dall’alto del legno» (avpo. tou/ xu,lou). Questa lezione è per lo più ripresa dagli scrittori latini dopo Giustino, dal quale probabilmente è stata ricavata. C’è una sola testimonianza greca prima di Giustino e cioè EpBarn 8,5, dove compare l’espressione h` basilei,a VIhsou/ evpi. xu,lw|. In Dial. 74,1, sempre a proposito del Sal 95, Trifone chiede perché le parole siano interpretate come rivolte a «questo uomo sofferente» (to.n paqhto.n tou/ton) e Giustino risponde che il canto nuovo a Dio è stato ordinato dallo Spirito a coloro che conoscono il mistero della passione di Cristo (74,2: to. pa,qoj tou/ Cristou/).

55 Il testo latino è tratto da R. BRAUN (ed.), Tertullien: Contre Marcion, 3: Introduction, texte critique, traduction, notes et index des livres I-III (SC 399), Cerf, Paris 1994, 90 e 92; lo stesso passo è ripreso quasi letteralmente in TERTULLIANO, Adversus iudaeos 14,9-10.

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Se infatti debbo dare un’interpretazione dei due capri che vengono offerti nel giorno del digiuno, forse che quelli non sono figure dei due avventi di Cristo? Essi erano certo di uguale grandezza e simili nella forma, a motivo dell’identico Signore nell’a- spetto, poiché egli non verrà in altra forma, dovendo essere riconosciuto da quelli dai quali è stato ferito. Ora, uno dei due capri, avvolto di scarlatto, maledetto, coperto di sputi, lacerato e trafitto, era espulso dal popolo fuori della città, in perdizione, con- trassegnato dai segni evidenti della passione del Signore. Mentre l’altro, offerto per i peccati e dato in cibo ai sacerdoti del tempio,56 autenticava le prove prefigurative57 del secondo avvento, in quanto, espiati tutti i peccati, i sacerdoti del tempio spirituale, cioè la Chiesa, avrebbero goduto, come di un banchetto pubblico, della grazia del Signore,58 mentre i rimanenti sarebbero rimasti a digiuno della salvezza.

In Tertulliano c’è la descrizione del capro emissario, il quale, «avvolto di scarlatto, maledetto, coperto di sputi, lacerato e trafitto, era espulso dal popolo fuori della città, in perdizione». In quanto fatto oggetto di tali azioni, il capro porta i «segni evidenti della passione». Inoltre, la perfetta somiglianza dei due capri è, per Tertulliano, in funzione dell’unico aspetto del Signore, in base al quale, quel giorno, sarà riconosciuto come colui che è stato precedentemente percosso e umiliato. Tra gli studiosi si è discusso circa il modello a cui si sarebbe rifatto Tertulliano, se a Barnaba, a Giustino, a una proto-tipologia di stampo giu- deo-cristiana alla base dell’Epistola di Barnaba o anche a più di un modello.59

I segni distintivi della passione del Signore di cui parla Tertulliano sono espressi da sei verbi, di cui cinque participi passati. Il participio circumdatus, «cir- condato», «cinto», ha come complemento il sostantivo neutro coccino, e quindi «cinto di colore scarlatto», nel senso che il capro è avvolto da un tessuto di colo- re scarlatto. Il particolare del colore scarlatto, che non compare in Giustino, è ricavato probabilmente da EpBarn 7,8, che parla della «lana scarlatta» legata

56 Sembra che Tertulliano si ricolleghi a una tradizione secondaria, a cui Lv 10,16-20 sembra riferir- si, che parlava di un capro espiatorio mangiato dai sacerdoti. Nm 29,11, descrivendo il giorno dell’Espia- zione, non menziona il capro emissario e, forse con l’intento di armonizzare due tradizioni parallele, parla di due capri per il sacrificio espiatorio. A uno di questi, forse, allude il trattato rabbinico Menahiot 11,7, rife- rendo di un capro espiatorio che veniva mangiato alla sera, nel caso in cui il giorno dell’Espiazione cades- se alla vigilia del sabato. Forse Tertulliano è qui debitore all’Epistola di Barnaba o a una fonte a cui essa attinge, in quanto anche EpBarn 7,4 parla del capro espiatorio che viene mangiato dai sacerdoti, con pro- babili allusioni alla comunità credente che partecipa all’eucaristia, prima di parlare di un secondo capro, offerto sull’altare «in olocausto per i peccati» (7,6: eivj o`lokau,twma u`pe.r a`martiw/n), e di un terzo capro, quel- lo mandato nel deserto; cf. STÖKL BEN EZRA, The Impact of Yom Kippur on Early Christianity, 150-152.

57 L’espressione argumenta signabat, vicina al sintagma testimonium signare che Tertulliano usa in De anima 17,12 e in De resurrectione mortuorum 58,9, contiene una sfumatura di prefigurazione; cf. P.A. GRAMAGLIA, «Visceratio: semantica eucaristica in Tertulliano?», in F. VATTIONI (ed.), Sangue e antropologia nella teologia. Atti della VI settimana (Roma, 23-28 novembre 1987), Pia unione Preziosissimo Sangue, Roma 1989, III, 1389, il quale segue J.E.L. VAN DER GEEST, Le Christ et L’Ancien Testament chez Tertullien, Dekker & Van Der Vegt, Nijmegen 1972, 204: «Il s’agit dans tous ces cas de “prophéties probantes”».

58 Circa le implicite allusioni eucaristiche della visceratio, rimandiamo al dettagliato studio di GRA- MAGLIA, «Visceratio: semantica eucaristica in Tertulliano?», 1385-1417, spec. 1409-1416.

59 Cf. STÖKL BEN EZRA, The Impact of Yom Kippur on Early Christianity, 157-158. Tra le ipotesi c’è anche quella di Grabbe, che fa dipendere Barnaba e l’Adversus Marcionem da una testimonianza diretta di qualcuno che avrebbe assistito di persona al rito del capro emissario prima del 70, fraintendendo, o forse modificando deliberatamente, quello che avrebbe visto dal cortile del tempio; cf. L.L. GRABBE, «The Scape- goat Tradition: A Study in Early Jewish Interpretation», in Journal for the Study of Judaism 18(1987), 165.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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«attorno al capo» del capro. Altri contatti del testo di Tertulliano con l’Epistola di Barnaba si possono riscontrare nel participio maledictus, che corrisponde all’aggettivo evpikata,ratoj, incontrato in EpBarn 7,7.9, e in altri due participi, con- sputatus e compunctus, che rimandano rispettivamente agli sputi e alla trafittura subiti sia dal capro che da Gesù (EpBarn 7,8.9). Solo il participio convulsus non è presente nel testo di Barnaba e ha il significato di «abbattuto», «sradicato», «lacerato». Secondo Tertulliano, quindi, i maltrattamenti subiti dal capro sono «i segni evidenti della passione del Signore». Come, quindi, il capro emissario è avvolto da scarlatto, è maledetto, coperto di sputi, lacerato, trafitto e scacciato via dalla città, così le stesse azioni sarebbero rivolte contro Gesù. Il fatto, poi, che il participio compunctus appaia come l’ultimo della serie, diversamente da EpBarn 7,9 ed EvPt III,9, potrebbe essere una precisa indicazione dell’ultima fase della passione, quando il costato di Gesù, che è già morto sulla croce, viene trafitto dalla lancia.

Questi maltrattamenti che Gesù subisce sono evidenziati in un altro passo di Tertulliano parallelo al testo di Adversus Marcionem, e cioè in Adversus iudaeos XIV, 9 in cui, dopo aver menzionato i segni evidenti della passione del Signore, l’autore aggiunge che questi, «avvolto da una veste scarlatta, coperto di sputi e afflitto da ogni tipo di oltraggi, è stato crocifisso fuori della città (qui coc- cinea circumdatus veste et consputatus et omnibus contumeliis adflictus extra civi- tatem crucifixus est)». La precisazione circa la crocifissione di Gesù fuori della città indica che Tertulliano allude, forse, a Eb 13,12 dove si afferma che Cristo «patì fuori della porta [della città]»;60 ma ci siamo già pronunciati sull’infonda- tezza esegetica di tale accostamento. È da notare, inoltre, anche l’espressione «omnibus contumeliis adflictus», una connotazione di umiliazione che si aggiun- ge alle sofferenze fisiche: Cristo è stato non solo maltrattato fisicamente, ma anche moralmente, in quanto fatto oggetto di oltraggi.

3. LA TRADIZIONE DELLA PASSIONE DI GESÙ

3.1. La passione di Gesù nei vangeli canonici

Ai primordi della predicazione cristiana, la rappresentazione di Gesù dura- mente maltrattato, umiliato e crocifisso caratterizzò talmente la memoria storica degli eventi da mettere in secondo piano l’immagine del Gesù vivo tra la gente della Palestina, facendo dire anche a Paolo che egli non predicava se non il «Cri- sto crocifisso» (1Cor 1,22).61 Nel presentare la passione di Gesù elaborata e rac- contata dai vangeli canonici, ci sembra opportuno illustrare sinotticamente i passi

60 Nel brano dell’Adversus Marcionem, come si può notare, è anche presente l’espressione extra civi- tatem, ma essa è legata sintatticamente all’azione dell’espulsione da parte del popolo.

61 A. DESTRO – M. PESCE, L’uomo Gesù. Giorni, luoghi, incontri di una vita, Mondadori, Milano 2008,

173.

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M. CICCARELLI – Il capro emissario come typos di Gesù sofferente

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che descrivono i patimenti di Gesù dopo l’arresto, prima quando è interrogato dalle autorità giudaiche e poi durante il processo romano davanti a Pilato.

Mt 26,67-68

Mc 14,65

Lc 22,63-64

Gv 18,22

67Tot, e env ep, tusan eijv to. pros, wpon auvtou/ kai. evkola,fisan auvto,n( oi` de. evra,pisan 68le,gontej\ profh,- teuson h`mi/n( criste,( ti,j evstin o` pai,saj seÈ

67Allora sputarono

sul suo volto e lo colpirono, altri (lo) schiaffeggiarono, 68dicendo: «Profe- tizzaci, o Cristo, chi ti ha colpito?».

65Kai. h;rxanto, tinej evmptu,ein auvtw/| kai. perikalu,ptein auvtou/ to. pro,swpon kai. kolafi,zein auvto.n kai. le,gein auvtw/|\ profh,teuson( kai. oi` u`phre,tai r`api,smasin auvto.n e;labonÅ

65Alcuni iniziarono a sputare su di lui e, coprendo il suo volto, a picchiarlo e a dirgli: «Profe- tizza» e i servi lo presero a schiaffi.

63Kai. oi` a;ndrej oi` sune,contej auvto.n evne,paizon auvtw/| de,rontej(

64kai. perikalu,yantej auvto.n evphrw,twn le,gontej\ profh,teuson( ti,j evstin o` pai,saj seÈ

63Gli uomini che lo tenevano in custo- dia lo schernivano, colpendolo,

64e bendandolo gli chiedevano: «Pro- fetizza, chi ti ha colpito?».

22tau/ta de. auvtou/ eivpo,ntoj ei-j paresthkw.j tw/n u`phretw/n e;dwken r`a,pisma tw/| VIhsou/ eivpw,n\ ou[twj avpokri,nh| tw/| avrcierei/È

22avendo detto queste cose, uno dei servi che era presente diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: «Così rispondi al sommo sacerdote?».

Dopo l’arresto, secondo Mt e Mc, Gesù viene fatto oggetto di schiaffi, sputi e percosse (Mt 26,67; Mc 14,65), mentre Lc parla solo di derisione e percosse (Lc 22,63). L’umiliazione continua quando, dopo le percosse, si rivolgono a lui dicen- do: «Profetizza» e lo invitano a dire chi è stato (Mt 26,68; Mc 14,65; Lc 22,64). In Gv non compaiono altri maltrattamenti oltre agli schiaffi, dopo però l’incorona- zione di spine (Gv 19,3), e allo schiaffo dato dalla guardia in reazione a Gesù che risponde al sommo sacerdote (Gv 18,22).

Mt 27,26-31.34

Mc 15,15-20.23

Lc 23,11

Gv 19,1-3.29.30

26to,te avpe,lusen auvtoi/j to.n Barabba/n( to.n de. VIhsou/n fragellws, aj pared, wken i[na staurwqh/|Å

15~O de. Pila/toj boulo,menoj tw/| o;clw| to. i`kano.n poih/sai avpe,lusen auvtoi/j to.n Barab- ba/n( kai. pare,dwken to.n VIhsou/n fragellw,saj i[na staurwqh/|Å

11exv ouqenhs, aj de. auvto.n Îkai.Ð o` ~Hrw,|dhj su.n toi/j strateu,masin auvtou/ kai. evmpai,xaj peribalw.n evsqh/ta lampra.n avne,pemyen auvto.n tw/| Pila,tw|Å

1To,te ou=n e;laben o` Pila/toj to.n VIhsou/n kai. evmasti,gwsenÅ

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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Mt 27,26-31.34

Mc 15,15-20.23

Lc 23,11

Gv 19,1-3.29.30

27To,te oi` stratiw/tai tou/ h`gemo,noj para- labo,ntej to.n VIhsou/n eivj to. praitw,rion sun- h,gagon evpV auvto.n o[lhn th.n spei/ranÅ 28kai. evkdu,santej auvto.n clamu,da kokki,nhn peri- e,qhkan auvtw/|( 29kai. ple,xantej ste,fanon evx avkanqw/n evpe,qhkan evpi. th/j kefalh/j auvtou/ kai. ka,lamon evn th/| dexia/| auvtou/( kai. gonupeth,santej e;mprosqen auvtou/ evne,paixan auvtw/| le,gontej\ cai/re( basileu/ tw/n VIoudai,wn( 30kai. evmptu,santej eivj auvto.n e;labon to.n ka,lamon kai. e;tupton eivj th.n kefalh.n auvtou/

31kai. o[te evne,paixan auvtw/|( evxe,dusan auvto.n th.n clamu,da kai. evne,dusan auvto.n ta. i`ma,tia auvtou/

kai. avph,gagon auvto.n eivj to. staurw/saiÅ [...] 34e;dwkan auvtw/| piei/n oi=non meta. colh/j memigme,non\ kai. geusa,menoj ouvk hvqe,lhsen piei/nÅ

16Oi` de. stratiw/tai avph,gagon auvto.n e;sw th/j auvlh/j( o[ evstin praitw,rion( kai. sugkalou/sin o[lhn th.n spei/ranÅ 17kai. evndidu,skousin auvto.n porfu,ran kai. peritiqea, sin auvtw/| plex, antej

akv an, qinon ste,fanon\ 18kai. h;rxanto avspa,zesqai auvto,n\ cai/re( basileutw/n VIoudai,wn\

19kai. e;tupton auvtou/ th.n kefalh.n kala,mw| kai. evne,ptuon auvtw/| kai. tiqe,ntej ta. go,nata proseku,noun auvtw/|Å 20kai. o[te evne,paixan auvtw/|( evxe,dusan auvto.n th.n porfu,ran kai. evne,dusan auvto.n ta. i`ma,tia auvtou/Å Kai. evxa,gousin auvto.n i[na staurw,swsin auvto,nÅ

[...] 23kai. evdi,doun auvtw/| evsmurnisme,non oi=- non\ o]j de. ouvk e;labenÅ

2kai. oi` stratiw/tai ple,xantej ste,fanon evx avkanqw/n evpe,qhkan auvtou/ th/| kefalh/| kai. i`ma,tion porfurou/n perie,balon auvto.n 3kai. h;rconto pro.j auvto.n kai. e;legon\ cai/re o` basileu.j tw/n VIoudai,wn\ kai. edv id, osan autv w|/

ra` pis, mataÅ

[...] 29skeu/oj e;keito o;xouj mesto,n\ spo,ggon ou=n mesto.n tou/ o;xouj u`ssw,pw| periqe,ntej prosh,negkan auvtou/ tw/| sto,matiÅ 30o[te ou=n e;laben to. o;xoj Îo`Ð VIhsou/j ei=pen\ tete,lestai( kai. kli,naj th.n kefalh.n pare,dwken to. pneu/maÅ

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M. CICCARELLI – Il capro emissario come typos di Gesù sofferente

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Mt 27,26-31.34

Mc 15,15-20.23

Lc 23,11

Gv 19,1-3.29.30

26Allora rilasciò loro Barabba, mentre Gesù, dopo averlo flagellato, lo consegnò perché fosse crocifisso. 27Quindi i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e con- vocarono intorno a lui tutta la coorte. 28Toltegli le vesti, lo avvolsero di un

15 Pilato, volendo soddisfare la folla, liberò loro Barab- ba; e consegnò Gesù, dopo averlo flagellato, perché fosse crocifisso. 16Allora i soldati lo condussero nel cor- tile interno, cioè dentro il pretorio, e radunarono tutta la coorte.

17Lo vestirono di porpora e, dopo aver intrecciata una corona di spine, gliela misero sul capo,

18e cominciarono a salutarlo: «Salve, re dei Giudei!». 19E gli percotevano il capo con una

11Erode, insieme ai suoi soldati, aven- dolo disprezzato e schernito, gli mise addosso una veste

1Allora Pilato prese Gesù e lo fece frustare. 2Poi i soldati intrecciando una

bianca e lo rimandò a Pilato.

corona di spine,

gliela posero sul

capo e lo rivestiro- no di un manto di

porpora; 3e si avvicinavano a lui e dicevano: «Salve, o re dei

Giudei!». E gli

manto scarlatto 29e, intrecciata una corona di spine, la posero sulla sua testa con una canna nella destra. Inginocchiandosi

davano schiaffi.

[...] 29C’era là un vaso pieno di aceto. Fis- sata dunque una spugna imbevuta di aceto a un ramo di issopo, glielo accostarono alla bocca. 30Quando ebbe preso l’aceto, Gesù disse: «Tutto è compiuto»; e, chi- nato il capo, rese lo spirito.

davanti a lui, lo schernivano dicen- do: «Salve, re dei Giudei!».

30E sputando su di lui, prendevano la canna e lo colpiva-

canna, gli sputava- no addosso e, met- tendosi in ginoc-

chio, si prostravano

no sulla testa. 31Dopo averlo schernito, gli tolse- ro il manto e lo rivestirono delle sue vesti; quindi lo portarono via per crocifiggerlo. [...] 34gli diedero da bere vino misto a fiele. Gustatolo, non volle bere.

davanti a lui. 20Dopo averlo schernito, lo spo- gliarono della por- pora, lo rivestirono delle sue vesti e lo condussero fuori per crocifiggerlo. [...] 23Gli diedero da bere del vino mescolato con

mirra; ma non ne prese.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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Le azioni di maltrattamenti si intensificano durante il processo romano. Pilato fa flagellare Gesù (Mt 27,26; Mc 15,15; Gv 19,1) e i soldati, per divertirsi, lo travestono da re, rivestendolo di una «clamide scarlatta» (Mt 27,28) o di un «abito di porpora» (Gv 19,2) o semplicemente «di porpora» secondo Mc 15,17, e ponen- do sul suo capo una corona di spine (Mt 27,28-29; Mc 15,17; Gv 19,2). Il Vangelo di Luca parla anche di un interrogatorio di Gesù davanti a Erode, che si conclu- de con una grande delusione da parte di quest’ultimo, il quale, dopo averlo «disprezzato» e «schernito» insieme ai suoi soldati (Lc 23,11: exv ouqenhs, aj ... kai. emv - paix, aj), lo riveste di una «splendida veste» (esv qht/ a lamparan, ) e lo rimanda da Pila- to. Di conseguenza, quando Gesù è di nuovo davanti a Pilato, non riceve un’altra veste né è deriso o maltrattato dai soldati, ma si nota solo il tentativo di Pilato di evitargli la crocifissione, promettendo per due volte alla folla di castigarlo prima di rilasciarlo (Lc 23,16.22: paideus, aj oun= autv on. apv olus, w). Mt 27,29 parla anche di una canna posta nella mano destra a guisa di scettro come completamento del paludamento regale, la stessa canna probabilmente che servirà ai soldati per col- pirlo sulla testa, azione che è riportata sia da Mt 27,30 che da Mc 15,19.

La derisione di Gesù si concentra, poi, attorno alla figura del re da burla, il quale viene schernito con false prostrazioni (Mt 27,29; Mc 15,18) e salutato iro- nicamente come «re dei Giudei» (Mt 27,29; Mc 15,18; Gv 19,3). Vengono ancora menzionate le percosse (Mt 27,29), gli sputi (Mt 27,30; Mc 15,19) e gli schiaffi (Gv 19,3). Quando, infine, lo svestono e gli rimettono i suoi vestiti, cessano anche gli sbeffeggiamenti nei suoi confronti (Mt 27,31; Mc 15,20). L’ultima scena pre- senta Gesù condotto al luogo del Golgota, dove gli offrono «vino mescolato con fiele» (Mt 27,34) o vino «aromatizzato con mirra» (Mc 15,23) che Gesù però non beve. Lc 23,36 riferisce che, a Gesù sulla croce dei soldati porgono dell’aceto, mentre, in Gv 19,28-30, a Gesù che dice di aver sete segue l’azione di alcuni che accostano alla sua bocca una spugna imbevuta di aceto che egli beve.

3.2. La passione ignominiosa di Gesù secondo i vangeli canonici

Oltre alla sofferenza fisica di Gesù, bisogna considerare anche quella mora- le, dovuta al rigetto da parte dei responsabili del popolo e alle umiliazioni subite durante la sua passione e morte. La tematica del rigetto di Gesù da parte dei giu- dei appare significativamente nella parabola dei vignaioli omicidi, dove ritrovia- mo l’esatta citazione del Sal 117,22 LXX: liq, on on] apv edokim, asan oi` oikv odomoun/ tej( out- oj egv enhq, h eijv kefalhn. gwnia, j («la pietra rigettata dai costruttori è diventata pietra d’angolo») in Mc 12,10 (= Mt 21,42 = Lc 20,17). In tale salmo è presente il verbo apv odokimaz, w, che ricorre anche nel primo annunzio della passione in Mc 8,31 (= Lc 9,22), quando Gesù istruisce i suoi discepoli dicendo che «il Figlio del- l’uomo deve soffrire molto, essere rigettato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi», e nel testo di Lc 17,25, dove si annuncia la venuta del Figlio dell’uo- mo che «deve prima soffrire molto ed essere rigettato da questa generazione». Allo stesso salmo si ispira anche il passo di 1Pt 2,4-7, in cui Cristo è considerato

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M. CICCARELLI – Il capro emissario come typos di Gesù sofferente

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«pietra vivente che è stata rigettata (apv odedokimasmen, on) dagli uomini» (v. 4) e, nello stesso tempo, fondamento della casa spirituale costruita dai credenti (vv. 5- 6) e pietra d’inciampo per coloro che non credono (v. 7). I vangeli raccontano la passione e morte di Gesù mettendo in rilievo l’umiliazione a cui egli fu sottopo- sto durante il procedimento di condanna e la sua crocifissione sul Golgota.

Durante il processo romano, Gesù diviene oggetto di derisione generale, venendo schernito in modo sprezzante da Erode e le sue guardie (Lc 23,11) e dai soldati dopo la coronazione di spine (Mc 15,20; Mt 27,31). Anche il saluto: «Salve, re dei Giudei» (Mc 15,18; Mt 27,29; Gv 19,3) e la prostrazione canzona- toria (Mc 15,19; Mt 27,29) sono segni rivelatori del disprezzo che avevano i sol- dati verso colui che consideravano senza dignità. L’umiliazione di Gesù continua sul Golgota: egli è insultato e schernito dai passanti, dai soldati e dagli stessi con- dannati a morte (Mt 27,39-44; Mc 15,29-32; Lc 23,35-39).

Anche il contesto della crocifissione contribuisce a dare alla morte di Gesù un carattere di ignominia. Egli, infatti, è messo accanto a Barabba, che viene definito dai vangeli come «un noto prigioniero» (Mt 27,16), uno che era stato preso «con i ribelli» (Mc 15,7) e «un bandito» (Gv 18,40: lh|sth,j). La condizione di Gesù, quindi, è assimilabile apparentemente a un fuorilegge (a;nomoj)62 e come tale viene reputato dalla folla.63 Secondo il Vangelo di Luca, egli viene crocifisso insieme a due malfattori (kakou/rgoi; cf. Lc 23,32.33.39) come uno di quei volgari banditi designati abitualmente come lh|stai, da Flavio Giuseppe (cf. Mc 15,27; Mt 27,38).64 Precedentemente, il testo di Lc 22,37 aveva messo in bocca a Gesù la citazione di Is 53,12 circa il Servo che è annoverato tra i fuorilegge (a;nomoi), illu- strando un contesto di opposizione alla propria persona che culminerà nell’arre- sto, durante il quale egli stesso, di fronte alla «turba di gente» (Lc 22,47) dalla quale si distingueranno «i sommi sacerdoti», «i capi delle guardie» e gli «anzia- ni», proclamerà: «Come contro un brigante (w`j evpi. lh|sth.n) siete usciti con spade e bastoni?» (Lc 22,52). Certamente la presentazione lucana di Gesù associato a due malfattori sul Calvario, considerato come un brigante e un fuorilegge,

62 F. ZORELL, Lexicon graecum Novi Testamenti, ad vocem «an; omoj», riporta per l’aggettivo due signi- ficati fondamentali, il primo in riferimento ad At 2,23 nel senso di «qui caret lege mosaica, i.e. gentilis», e il secondo che viene attribuito a Lc 22,37 (Is 53,12d) nel senso di «legis contemptor ac violator, improbus, male- ficus». I due passi sono le uniche ricorrenze in Lc-At (mentre ricorre anche in 1Tm 1,9; 2Pt 2,7-8; 2Ts 2,8), e il termine, al contrario di come ci si aspetterebbe, non è usato dall’evangelista per designare gli altri due con- dannati insieme a Gesù; cf. P. TREMOLADA, «E fu annoverato fra iniqui». Prospettive di lettura della Passione secondo Luca alla luce di Lc 22,37 (Is 53,12d) (AnBib 137), Pontificio istituto biblico, Roma 1997, 80-82.

63 J.A. FITZMYER, The Gospel According to Luke, New York 1985, II, 1489: «In the mind of those assembled before Pilate Jesus has been classed even with outlaws (22,37 cf. Is 53,12d)».

64 Cf. HENGEL, Crocifissione ed espiazione, 82. Prima di organizzarsi in movimenti più agguerriti e concentrarsi nell’opposizione contro il dominio romano, le bande di briganti o banditi (lh|stai,), a partire dal I secolo a.C. fino alla prima metà del I secolo d.C., furono prive di una coscienza politica ben definita e, seb- bene spinte da un’esigenza di maggiore giustizia sociale in un’epoca di sfruttamento delle masse contadine e di pesante crisi economica, non coltivavano alcun programma specifico di riforme. Sul fenomeno del ban- ditismo sociale come manifestazione della disperazione delle classi contadine vessate da pesanti tasse, cf. E.J. HOBSBAWM, Bandits, New York 1981; R.A. HORSLEY – J.S. HANSON, Banditi, profeti e messia. Movimenti popolari al tempo di Gesù, Paideia, Brescia 1995, 83-125 (or. ingl. Bandits, Prophets, and Messiahs. Popular Movements in the Time of Jesus, San Francisco 21988).

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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aggiunge una carica di forte realismo alla figura del Servo sofferente di Is 53,12, utilizzata come prefigurazione profetica di Gesù che immola la sua vita portan- do su di sé i peccati della moltitudine.65 In effetti, la condanna alla crocifissione, giudicata ripugnante e ignominiosa già nell’antichità,66 non si addiceva all’eroe67 e la sua esecuzione pubblica costituiva un crudele deterrente capace di incutere terrore e disgusto. Riservata normalmente a coloro che, per gravi motivi, erano privati di dignità o a quelli, come schiavi e malfattori comuni, cui non veniva riconosciuta la stessa dignità degli altri uomini,68 Gesù subì tale condanna per- ché venne ascritto alla categoria dei malfattori comuni, sebbene, secondo i van- geli, venisse riconosciuto innocente da Pilato (Lc 23,14.22; Gv 18,38; 19,4.6; cf. anche Mt 27,18-19.23; Mc 15,10.14).

Condividendo la morte infamante di un comune malfattore, quindi, Gesù non si distingue esteriormente dagli altri e la fine della sua vita non presenta quella grandeur tipica dell’eroe greco o del filosofo, il quale, invece, affronta una nobile morte e lascia a tutti un esempio mirabile di coraggio, di sopportazione e di imperturbabilità di fronte alla prova estrema.69

Per tali motivi, bisogna sottolineare anche che la passione e la morte di Gesù non rientrano nella categoria dei sacrifici cultuali, ma, per la modalità con cui si realizzano, restano nell’ambito profano. Il sangue di un condannato a morte, infatti, come anche gli oltraggi alla sua dignità umana, non potevano con- ciliarsi con il concetto del sacrificio veterotestamentario, in quanto soprattutto gli aspetti umilianti e ignominiosi che una morte di croce comportava erano incompatibili con l’idea di accostarsi a Dio.

65 Tuttavia, Gesù non apparteneva al rango di oppositore politico né era uno di quei banditi che attaccavano il potere militare romano o l’aristocrazia locale, per cui godevano anche di un certo seguito e di simpatia presso il popolo. Per questo motivo, probabilmente, la folla davanti al pretorio di Pilato non ebbe molta esitazione a scegliere Barabba, considerato certamente più utile alla causa sociale. Circa la pos- sibilità del rilascio di prigionieri da parte del procuratore romano, cf. FLAVIO GIUSEPPE, Ant. giud. XX,215, che riferisce del procuratore romano Albino, il quale rilasciò dei banditi per fare qualcosa di gradito alla popolazione di Gerusalemme.

66 Già Cicerone parlava della croce come «crudelissimum taeterrimumque supplicium» e ancora prima, a partire dal III-II secolo a.C., con il commediografo Plauto, il termine «croce» era diventato un insulto che circolava sulle labbra degli strati più bassi della popolazione. Ciononostante, è attestata anche una certa reticenza sulla crocifissione nell’ambiente culturale romano, con poche eccezioni come Valerio Massimo, Seneca, Petronio e Apuleio; cf. HENGEL, Crocifissione ed espiazione, 72-73; cf. anche 33-43, circa l’uso della cattiva fama di questo genere di condanna a morte in chiave anticristiana.

67 Le caratteristiche principali che, secondo M. Hadas, contraddistinguono l’eroe nella tragedia greca sono fondamentalmente quattro: la statura morale del personaggio, la sua sofferenza non casuale ma causata da personali scelte morali, l’esito glorioso della sua vita e il carattere educativo delle prove sop- portate sia per la maturazione personale dell’eroe stesso che per l’esempio lasciato alla comunità; cf. M. HADAS, Humanism. The Greek Ideal and Its Survival, Gloucester, MA 1972, 141-142.

68 Se dai persiani e dai cartaginesi la crocifissione era inflitta soprattutto come pena esemplare per capi militari e capi di sommosse, tra i romani la croce era considerata prevalentemente come un supplizio e una condanna a morte per le classi basse, i malfattori e gli schiavi; cf. HENGEL, Crocifissione ed espiazione, 126.

69 CICCARELLI, La sofferenza di Cristo nell’Epistola agli Ebrei, 260-266. Circa la «morte nobile», cf. D. SEELEY, The Noble Death. Graeco-Roman Martyrology and Paul’s Concet of Salvation (JSNT.SS 28), JSOT Press, Sheffield 1990; A.J. DROGE – J.D. TABOR, A Noble Death: Suicide and Martyrdom among Christians and Jews in Antiquity, Harper, San Francisco 1992. Per una raccolta di testi sull’argomento, cf. J.W. VAN HEN- TEN – F. AVEMARIE, Martyrdom and Noble Death. Selected Texts from Graeco-Roman, Jewish and Christian Antiquity, Routledge, London 2002.

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M. CICCARELLI – Il capro emissario come typos di Gesù sofferente

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3.3. La passione di Gesù nell’Evangelium Petri

Oltre ai vangeli canonici, altri testi ci raccontano dei maltrattamenti subiti da Gesù nella sua passione, in modo particolare il Vangelo di Pietro o Evange- lium Petri (EvPt), che contiene il racconto apocrifo più antico sulla passione e morte di Gesù.70 La sua data è fissata comunemente tra il 100 e il 150 d.C.,71 ma alcuni hanno proposto anche una datazione più antica.72 Nel nostro studio, ci limiteremo ad analizzare alcuni aspetti della passione di Gesù presenti in EvPt, mettendoli a confronto, da una parte, con i vangeli canonici e, dall’altra, con l’E- pistola di Barnaba e la sua tipologia cristologica del capro emissario.

EvPt III,6–IV,10: III,6 oi` de. labo,ntej to.n Ku,rion w;qoun auvto.n tre,contej kai. e;legon\ “Su,rwmen to.n ui`on tou/ Qeou/ evxousi,an auvtou/ evschko,tej”Å 7 Kai. porfu,rian auvto.n perie,balon kai. evka,qisan auvto.n evpi. kaqe,dran kri,sewj le,gontej\ “Dikai,wj kri/ne( basileu/ tou/ VIsrah,l”Å 8 Kai, tij auvtw/n evnegkw.n ste,fanon avka,nqinon e;qhken evpi. th/j kefalh/j tou/ Kuri,ou( 9 kai. e[teroi e`stw/tej evne,ptuon auvtou/ tai/j o;yesi kai. a;lloi ta.j siago,naj auvtou/ evra,pisan( e[teroi kala,mw| e;nusson auvto.n kai, tinej auvto.n evma,stizon le,gontej\ “Tau,th| th/| timh/| timh,swmen to.n ui`o.n tou/ Qeou/”Å IV,10 Kai. e;negkon du,o kakou,rgouj kai. evstau,rwsan avna. me,son auvtw/n to.n Ku,rion\ auvto.j de. evsiw,pa w`j mhde.n po,non e;cwnÅ73

III,6 Quelli che avevano preso il Signore lo spingevano, correndo, e dicevano: «Tra- sciniamo il figlio di Dio, in quanto abbiamo potere su di lui». 7 E lo avvolsero di por- pora, lo fecero sedere sul seggio del giudizio dicendo: «Giudica con giustizia, o re d’I- sraele». 8 E uno di loro, avendo portato una corona di spine, [la] pose sul capo del Signore, 9 altri che stavano lì gli sputavano in volto74 e altri ancora gli percuotevano le guance. Altri lo trafiggevano con una canna, mentre alcuni lo flagellavano, dicendo: «Onoriamo con questo onore il figlio di Dio». IV,10 Portarono poi due malfattori e in mezzo a loro crocifissero il Signore; ma egli taceva come se non sentisse alcun dolore.

70 Questo vangelo apocrifo si colloca all’interno di un insieme di scritti protocristiani, come il Pasto- re di Erma, la Didaché, 2Clemente e l’Epistola di Barnaba, con i quali mostra una certa affinità, oltre a evi- denziare alcuni concetti teologici riscontrabili anche in Gv e in Ap; cf. M.G. MARA, Il Vangelo di Pietro (Scritti delle origini cristiane 30), EDB, Bologna 2003, 19.

71 Cf. L. MORALDI (ed.), Apocrifi del Nuovo Testamento, 1: Vangeli, Piemme, Casale Monferrato 1994,

578.

72 H. KOESTER, «Apocryphal and Canonical Gospels», in Harvard Theological Review 73(1980), 105- 130. Secondo la teoria di J.D. Crossan, EvPt III,6-9 sarebbe la prima testimonianza letteraria di un origina- rio racconto della passione di Gesù («Cross Gospel») formatosi in quattro stadi successivi dai quali si sareb- bero successivamente sviluppati i racconti della passione nei vangeli canonici. Infatti, al dato storico della morte di Gesù in croce, che si presumeva preceduta da tortura (primo stadio), si sarebbero aggiunti alla pas- sione di Gesù, in un secondo momento, alcuni dettagli presi da Is 50,6 (flagelli, battiture e sputi) e da Zc 12,10 (trafittura). Nel terzo stadio, poi, Gesù sarebbe stato interpretato come il capro emissario di Lv 16 e, nell’ultimo stadio, si sarebbero aggiunti gli scherni a Gesù vestito da re; cf. CROSSAN, The Cross That Spoke, 141-145.

73 Il testo greco è preso da M.G. MARA (ed.), Évangile de Pierre. Introduction, texte critique, traduc- tion, commentaire et index (SC 201), Cerf, Paris 1973, 44.46.

74 Il termine o;yij al plurale, che letteralmente significa «occhi», è qui usato col significato di «volto»; al singolare, invece, con lo stesso significato è usato in Gv 11,44 e Ap 1,16, mentre nel senso di «aspetto», «sguardo» si trova in Gv 7,24.

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Il testo del Vangelo di Pietro appare come una fusione arbitraria di ele- menti della tradizione evangelica, come gli oltraggi e i maltrattamenti arrecati a Gesù.75 Facendo un confronto, infatti, si può notare che alcuni elementi della passione sono disposti nel testo in una sequenza differente dalla loro collocazio- ne nel racconto evangelico e si evince che le azioni contro Gesù, come nell’Epi- stola di Barnaba, sono dovute alla responsabilità dell’intero gruppo sociale. Coloro che si impossessano di Gesù, per esempio, non sono i soldati, come nei vangeli canonici, ma il popolo dei giudei, a cui Erode lo ha consegnato (EvPt III,5: kai. pare,dwken auvto.n tw/| law/|), che interviene attivamente nella passione, maltrattando e schernendo Gesù. A proposito, poi, della parodia della regalità, EvPt III,7 parla semplicemente di «porpora», allo stesso modo di Mc 15,17, e contiene il beffardo invito rivolto a Gesù seduto sulla sedia curule: «Giudica con giustizia, o re d’Israele», che non trova riscontri nei vangeli canonici. Anche l’in- coronazione di spine (EvPt III,8) costituisce un elemento significativo per la parodia del re, come in Mc 15,17; Mt 27,29; Gv 19,2.5, ma non in Luca.76 In EvPt III,9 compaiono gli sputi e i colpi sulle guance o schiaffi, due elementi che com- paiono insieme anche nella triade presentata da Mt 26,67 (evne,ptusan ... kai. evkola,fisan ... oi` de. evra,pisan), dove l’espressione che contiene l’ultimo verbo, «coloro che schiaffeggiarono», appare come una spiegazione del verbo prece- dente («percossero»). Durante il processo romano, invece, gli sputi delle guardie rientrano fra le simulazioni dei loro atti di omaggio verso Gesù.

Come l’Epistola di Barnaba, anche EvPt III,9 parla di trafittura di Gesù, ma vi aggiunge il complemento «con una canna» (kala,mw| e;nusson auvto.n), mentre per Mc 15,19 e Mt 27,30 la canna è lo strumento con il quale percuotono Gesù sulla testa. In realtà, il verbo nu,ssw che indica il trafiggere e il complemento kala,mw| non sono di facile spiegazione all’interno del contesto di EvPt III,9. Sem- bra spontaneo il collegamento con Gv 19,34, a proposito del costato trafitto (con il medesimo verbo nu,ssw) di Gesù, dove, però, come abbiamo già notato, si parla di lancia che trafigge il costato di Gesù.77 Inoltre, come abbiamo visto già per l’E- pistola di Barnaba, appare chiaro dalla sequenza delle azioni contro Gesù che la trafittura è inserita nel contesto dei maltrattamenti che precedono la crocifissio- ne ed è provocata anche qui non da una sola persona, ma da una pluralità di sog- getti che, evidentemente, provocano più ferite. L’immagine di Gesù trafitto con canne dai giudei appare anche negli Oracoli sibillini 1,373-374 e 8,29678 e in Acta

75 BLINZLER, Il processo di Gesù, 325.

76 Tuttavia, l’incoronazione di spine è presente nel testo siro-occidentale di Lc 23,37 [D c (sys.c)], nel contesto, però, della crocifissione, dopo che alcuni gli dicono: «Se sei il re dei Giudei, salva te stesso».

77 Per Crossan la trafittura del costato di Cristo in Gv 19,34-35 è una trasformazione letteraria basa- ta su EvPt III,9; cf. CROSSAN, The Cross That Spoke, 169.

78 Crossan ritiene che la sezione degli Oracoli sibillini 1,360-376 dipenda da quella di 8,285-309 e che l’espressione «essi trafiggeranno i suoi fianchi con una canna» (pleura.j nu,xousin kala,mw|) di 8,296 si sia tra- sformata in «essi trafiggono il suo fianco con canne» (pleura,n nu,zwsin kala,moisin) di 1,373-374; cf. CROSSAN, The Cross That Spoke, 135-139. Crossan azzarda anche una congettura che collega il dato della trafittura con la canna nell’Evangelium Petri e negli Oracoli sibillini o anche la sola azione di trafiggere di EpBarn

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Johannis 97,2 (il verbo nu,ssw, con il binomio «lance e canne» come duplice com- plemento),79 testi che sembrano più ricalcare la tradizione riconducibile a EvPt III,9 e a EpBarn 7,8 (sebbene qui si usi per «trafiggere» il verbo katakente,w) che ispirarsi al fianco squarciato di Gv 19,34.80 Si può notare, infine, che in EvPt IV,10 si parla di «due malfattori» (du,o kakou,rgouj) in mezzo ai quali Gesù viene croci- fisso (cf. anche EvPt IV,13-14); e il termine è lo stesso di quello in Lc 23,32-33.

Per quanto riguarda il confronto dell’Evangelium Petri con l’Epistola di Barnaba, si deve riconoscere che quest’ultima ha in comune con l’EvPt, ma non con i vangeli canonici, l’uso del Sal 68,22 LXX riguardo al «fiele con aceto» dato da bere a Gesù sulla croce (EvPt V,16; EpBarn 7,3.5).81 Inoltre, appartengono al medesimo passo di Dt 21,23, a cui si riferiscono sia EpBarn 7,7.9, quando defini- sce il capro «maledetto» (evpikata,ratoj; cf. Dt 21,23b: kekathrame,noj), sia EvPt V,15, ricordando che l’ucciso non deve essere lasciato sull’albero durante la notte.82 Ma il rapporto tra i due testi non può essere forzato, come fa Crossan, il quale sembra ritenere che l’Evangelium Petri abbia trasformato le tradizioni sullo Yom Kippur già registrate dall’Epistola di Barnaba, e cioè la lana scarlatta posta sul capro emis- sario (EpBarn 7,8-9) e poi rimossa e messa tra le spine di un roveto (EpBarn 7,8.11), che sarebbe diventata l’immagine rispettivamente della porpora che rive- ste Gesù come re da burla (EvPt III,7) e della sua corona di spine (EvPt III,8).83 In realtà, nell’Evangelium Petri non emerge un legame con il rituale del capro espiatorio e i particolari della passione di Gesù si richiamano, piuttosto, a passi biblici.84

Dall’analisi del passo di EvPt si può concludere, allora, che esso si accorda solo con l’Epistola di Barnaba, e non con i vangeli canonici, per la presenza del- l’espressione «fiele con aceto», per i responsabili dei maltrattamenti su Gesù, individuati come un insieme indifferenziato di persone, e per l’azione di trafig- gere, considerata come una componente di questi maltrattamenti non corrispon- dente al colpo di lancia dato a Gesù sulla croce. Dalla presenza di questi tre dati nella tipologia del capro emissario si può ricavare che l’Epistola di Barnaba ha

7,8-9 a un supposto costume giudaico consistente nello spingere con pungoli il capro emissario per farlo uscire dalle mura della città prima che fosse accompagnato nel deserto (142.153.157-159).

79 «Il mio Signore stette in mezzo alla grotta, illuminandola e mi disse: “Giovanni, per il volgo di Gerusalemme io sono crocifisso, sono trapassato con lance e canne, e mi è dato da bere aceto e fiele”» (L. MORALDI [ed.], Apocrifi del Nuovo Testamento, 2: Atti degli apostoli, Piemme, Casale Monferrato 1994, 264).

80 L’ispirazione a Gv 19,31-37 è ammessa sia da L. VAGANAY, L’Evangile de Pierre, Gabalda, Paris 1930, 228, che da MARA, Il Vangelo di Pietro, 54.

81 EvPt V,16: kai. tij auvtw/n ei=pen\ “Poti,sate auvto.n colh.n meta. o;xouj”\ kai. kera,santej evpo,tisan; EpBarn 7,3: avlla. kai. staurwqei.j evpoti,zeto o;xei kai. colh|,; EpBarn 7,5: me,llete poti,zein colh.n meta. o;xouj. Nei vangeli compare solo l’aceto (Mt 27,48; Mc 15,36; Lc 23,36); «aceto mescolato a issopo» (Gv 19,29) o anche, appena Gesù giunge al Calvario, «vino con fiele» (Mt 27,34).

82 Dt 21,23a: ouvk evpikoimhqh,setai to. sw/ma auvtou/ evpi. tou/ xu,lou («il suo corpo non passerà la notte sull’albero»); EvPt V,15: ge,graptai ga.r auvtoi/j e[lion mh. du/nai evpi. pefoneume,nw| («poiché è scritto per loro: “non tramonti il sole su colui che è stato messo a morte”»).

83 STÖKL BEN EZRA, The Impact of Yom Kippur on Early Christianity, 163-164. 84 STÖKL BEN EZRA, The Impact of Yom Kippur on Early Christianity, 164-165.

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Epistolario neotestamentario e Apocalisse

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in comune con l’Evangelium Petri degli elementi descrittivi sulla passione di Cri- sto che non risalgono alla stessa fonte dei vangeli canonici.

4. LA CONTAMINAZIONE DEL PHARMAKOS NELLA TIPOLOGIA CRISTOLOGICA DEL CAPRO EMISSARIO

La domanda che ci poniamo, a questo punto, è come il capro emissario, che nel testo di Lv 16 e nel trattato Yoma della Mishna non viene maltrattato né subi- sce una morte infamante, possa essere diventato, nell’Epistola di Barnaba, l’im- magine del Christus patiens, maltrattato e oltraggiato dalla sua gente. Il testo di Lv 16,10 dice che esso è inviato nel deserto, mentre Yoma VI,6 aggiunge che viene messo a morte per precipitazione. Tuttavia, il dato essenziale in entrambi i testi è l’espulsione e il confinamento del capro in uno spazio isolato, non abita- bile dall’uomo.

Abbiamo già avuto modo di osservare la similitudine del rito del capro emissario con un altro rito apotropaico noto nell’antichità, e cioè il pharmakos, ma abbiamo anche notato che in quest’ultimo non c’erano particolari persone deputate al compito di accompagnamento fuori dalla città della vittima prescel- ta, come nel caso del capro emissario, ma un insieme indifferenziato di persone prendeva parte alla sua espulsione, colpendola con rami di piante selvatiche. In realtà, proprio questo aspetto di violenza collettiva su una vittima umana, trasci- nata lontano dal luogo abitato dalla comunità, ha potuto contaminare, forse inconsapevolmente, la descrizione del rito di espulsione del capro, applicato tipo- logicamente alla sorte dolorosa di Cristo. Il modello sacrificale del pharmakos era, in effetti, ben diffuso in quel tempo, sebbene non sia facile appurare fino a che punto fosse praticato realmente. È verosimile, infatti, che nei secoli I-III, in una variegata geografia etnica di popolazioni influenzate a vari livelli dalla cul- tura greco-romana, fosse ormai radicata non tanto la pratica di un sacrificio arcaico, ma certamente la memoria di un rito che apparteneva a tempi lontani e che, nelle sue forme più pittoresche, dure o persino mitizzate, incuriosiva e face- va sentire ancora un suo fascino. Andando al di là, quindi, di quella che doveva essere l’abituale prassi rituale giudaica praticata fino alla distruzione del tempio, l’Epistola di Barnaba e l’Adversus Marcionem rappresentano il Cristo come un capro emissario, anche se, in realtà, la descrizione che ne fanno risulta più vicina alla figura del pharmakos, cacciato via dal popolo, percosso e, infine, ucciso.

Solamente l’Evangelium Petri intende i maltrattamenti su Gesù come cau- sati da un’azione collettiva, a differenza della tradizione canonica della passione evangelica, secondo la quale la violenza esercitata su Gesù rimane prerogativa delle guardie che lo hanno in custodia, mentre il ruolo del popolo si limita alla partecipazione all’arresto e alle pressioni su Pilato. I testi di Mc 14,43 e Mt 26,47 raccontano che l’arresto di Gesù è operato da una folla con spade e bastoni, capeggiata da Giuda, mentre Lc 22,47 parla di una turba di gente preceduta da Giuda, ma poi, successivamente, specifica che coloro che erano venuti contro Gesù erano «sommi sacerdoti, capi delle guardie e anziani» (Lc 22,52). Si può

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notare, inoltre, che Mc e Mt parlano della sobillazione della folla da parte delle autorità giudaiche per chiedere la morte di Gesù (Mc 15,11; Mt 27,20) e dell’in- sulto dei «passanti» davanti a Gesù sulla croce (Mc 15,29; Mt 27,39-40), ma non si rileva alcuna partecipazione attiva del popolo nei maltrattamenti su Gesù. È interessante notare, infine, che in Lc 23,13-25 la morte di Gesù, oltre che dai sommi sacerdoti e dalle autorità, è richiesta anche dal popolo; tuttavia gran parte di esso lo segue verso il luogo dell’esecuzione lamentandosi e battendosi il petto (Lc 23,27) e, sul Calvario, dopo essere rimasto a guardare (Lc 23,35) e avere assi- stito ai fenomeni straordinari, se ne torna «percuotendosi il petto» (Lc 23,48). Da parte sua, il testo del Dialogo con Trifone, come abbiamo accennato, lascia sullo sfondo l’immagine del capro emissario e dice che gli anziani del popolo e i sacer- doti «come un capro emissario lo hanno ripudiato (w`j avpotompai/on auvto.n pare- pe,myanto)» e che egli sarà riconosciuto come colui che precedentemente «è stato disonorato (avtimwqe,nta)». In questo caso, non ci sono particolari specifici che possano ricollegarsi a eventuali maltrattamenti del capro, e la presentazione di Gesù che «come un capro emissario» viene ripudiato e disonorato da parte delle autorità del popolo giudaico, i sacerdoti e gli anziani rispecchia piuttosto la tra- dizione evangelica della sua passione.

Quella che si ricava dall’Epistola di Barnaba e dall’Adversus Marcionem è, invece, un’immagine violenta, estranea al rituale ebraico sul capro emissario scelto come typos della passione di Cristo il cui racconto, almeno nei suoi ele- menti storici essenziali come la condanna da parte dell’autorità, l’abituale fla- gellazione previa alla condanna a morte, la traduzione da parte dei soldati del condannato al luogo dell’esecuzione e, infine, la stessa crocifissione, doveva esse- re già un dato acquisito dalla primitiva predicazione cristiana. Ora, poiché la dinamica rituale del pharmakos, con la sua espulsione dalla comunità, il suo esse- re picchiato con verghe, la sua uccisione e, possiamo aggiungere, la sua posizione marginale nella società, non doveva essere molto lontana dall’esperienza storica della passione di Gesù, è verosimile che lo sforzo di applicare a Gesù sofferente, per motivi teologici, la tipologia del capro emissario abbia condotto, quasi spon- taneamente, a una sua assimilazione alla figura del pharmakos. È possibile che la tipologia del capro emissario sia stata favorita dal fatto che la sua logica interna, o il suo rationale, fosse più comprensibile e facilmente accettabile in un ambien- te non giudaico grazie al suo più diffuso parallelo greco del pharmakos,85 ma pensiamo anche che l’aspetto caratteristico di quest’ultimo, e cioè la violenza esercitata dalla collettività, sia stato integrato nella costruzione di tale tipologia in quanto considerata più efficace per la rappresentazione della passione umi-

85 Cf. STÖKL BEN EZRA, «The Christian Exegesis of the Scapegoat», 225. D’altra parte, alcuni padri della Chiesa non hanno avuto imbarazzo nel constatare una somiglianza tra il sacrificio di Cristo a vantag- gio degli uomini e il caso di alcuni personaggi pagani che hanno dato volontariamente la loro vita per la loro comunità, e sono convinti che questi esempi possano favorire la credibilità agli occhi dei pagani del sacrifi- cio di Cristo in remissione dei peccati; cf. i testi di CLEMENTE ROMANO (1Clem 55,1), di ORIGENE (Contra Cel- sum 1,31) e di ALESSANDRO DI LICOPOLI (Contra Manichaei opiniones disputatio 24), citati in STÖKL BEN EZRA, The Impact of Yom Kippur on Early Christianity, 172-173.

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liante di Gesù. Possiamo, quindi, ipotizzare che la memoria delle sofferenze e dell’umiliazione subite da Gesù, conclusesi con la morte di croce, abbia contri- buito a sviluppare l’immagine del capro emissario secondo i caratteri del phar- makos greco, vestito a festa e picchiato con verghe di agnocasto e piante selvati- che. In definitiva, ci sembra che, nel solco di una tradizione continua e ben con- solidata della passione di Gesù, il rito del pharmakos possa avere interferito nel- l’elaborazione della tipologia cristologica del capro emissario, lasciandovi un’im- pronta suggestiva che l’Epistola di Barnaba registra per prima e che il Dialogo con Trifone di Giustino e l’Adversus Marcionem di Tertulliano, in maniera diver- sa, riprendono.

5. CONCLUSIONE

Per concludere, possiamo dire che, da un parte, la volontà di perpetuare la memoria della passione e morte di Gesù e, dall’altra, l’esigenza di trovare una categoria interpretativa che potesse legare l’evento della passione e morte alle antiche istituzioni dell’AT, hanno spinto il protocristianesimo a sfruttare la tipo- logia dello Yom Kippur anche nella parte riguardante il capro emissario, il quale diventa, così, il typos di Gesù che è ripudiato e maltrattato dalla sua gente.

Ma la figura del capro, sul quale venivano confessati i peccati e che poi era mandato a morire nel deserto, è insufficiente a giustificare tutti i particolari dei maltrattamenti usati nella rappresentazione tipologica del capro fatta per la prima volta dall’Epistola di Barnaba e ripresa da Tertulliano nel suo Adversus Marcionem. La descrizione di un’azione di violenza collettiva perpetrata ai danni del capro emissario, infatti, non si armonizza con il rito effettivo così come descritto da Lv 16 o tramandato dalla Mishna. Questi particolari, allora, poteb- bero essere stati imbastiti dall’Epistola di Barnaba utilizzando elementi estranei al rito ebraico, ispirandosi al rituale del pharmakos o, comunque, al suo immagi- nario quale ormai si era prodotto nella società ellenistico-romana del tempo.

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Indice

Introduzione A. Pitta .................................................................................................. p.7

Bibliografia selezionata di Cesare Marcheselli-Casale .......................... Cesare Marcheselli-Casale un fecondo e valido neotestamentarista

Armando Rolla ............................................................................................ La sacra Scrittura anima della teologia

Bruno Forte ..................................................................................................

I. VANGELI E TRADIZIONI Il linguaggio neotestamentario della risurrezione

Claudio Doglio ............................................................................................ È proprio impossibile scrivere una storia di Gesù?

Giorgio Jossa ................................................................................................ Gesù e il tempio

Frédéric Manns ..........................................................................................

Eine weitere Version der Toldot Jeshu. Die Erzählung von Jeshu ha-Nozri nach der HS Krupp 2016 Michael Krupp ............................................................................................

«Affinché si adempisse ciò che era stato detto...». Il nome di Gesù e le citazioni di compimento in Matteo 1–2 Antonio Landi ..............................................................................................

Le beatitudini nell’ermeneutica pasquale di morte e risurrezione Santi Grasso..................................................................................................

“Gebt Ihr Ihnen zu Essen!”. Ein Pastoral-Exegetischer Beitrag zu Mt 14,13-21 Martin Weber ................................................................................................

Il ruolo narrativo di Mt 16,17-19 nella trama del primo vangelo Roberto Palazzo ..........................................................................................

» 13 » 23 » 27

» 43 » 61 » 75

» 91

» 121 » 137

» 149 » 155

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Indice

450

L’analēmpsis elianica di Gesù (Lc 9,51; 24,51; At 1,2.11.22) Cosimo Pagliara .......................................................................................... » 165

Annotatiuncula philologica atque historica in Lucam XVIII,12 Marcello Del Verme .................................................................................... » 187

Marta e Pietro: l’economia di due confessioni Giuseppe Ghiberti ........................................................................................ » 211

II. EPISTOLARIO NEOTESTAMENTARIO E APOCALISSE Da persecutore ad apostolo: le ragioni di una scelta

Alessandro Sacchi ........................................................................................ Rivelazione e storia della salvezza nella Lettera ai Romani

Romano Penna ............................................................................................

Governati e governanti in vista del bene. Alcune riflessioni su Rm 13,1-7 Gaetano Di Palma ......................................................................................

Questioni morali in 1 Corinzi 5–6: le ragioni di una sequenza Pasquale Basta ............................................................................................

S. Paolo, maestro della carità. L’amore nella Prima lettera ai Corinzi (1Cor 12,31–13,7) Joan Maria Vernet Mateu............................................................................

Appropriazione letteraria e proprium paolino in 1Cor 15,33b Leonardo Giuliano ......................................................................................

Ausgewählte frühchristliche Inschriften in und aus Ephesos Renate Pillinger ............................................................................................

Quale ecclesiologia e quale teologia politica nella Lettera ai Filippesi? Antonio Pitta ................................................................................................

Le sofferenze di Paolo a favore della Chiesa. Una rilettura di Col 1,24 tra retorica ed esegesi Alfio Marcello Buscemi ..............................................................................

L’uso del Salmo 109(110) nella Lettera agli Ebrei Albert Vanhoye ............................................................................................

Barak: testimone della fede? (Eb 11,32). Una riflessione Vincenzo Scippa ..........................................................................................

La sapienza d’Israele nella Lettera di Giacomo Angelo Passaro ............................................................................................

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Indice

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Die Darstellung Apk 11,3-13 und die literarische Einheitlichkeit der Apk Thomas Vitulski ............................................................................ » 399

Il capro emissario come typos di Gesù sofferente Michele Ciccarelli ........................................................................................ » 415

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